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L’immoralità del non voto

Creato il 23 novembre 2014 da Silvanascricci @silvanascricci

Mentre domani si vota per le elezioni regionali in Emilia Romagna, qualunque sia la vostra intenzione di voto, vi invito a leggere quanto scritto da Mattia Macchiavelli, un ragazzo che mi onoro di conoscere.

Non andare a votare è immorale.
Lo dico senza ammantarmi di un qualche senso di superiorità e senza voler erigermi a giudice di tutto e tutti. Il mio, in realtà, è un pensiero decisamente personale, molto semplice e del tutto banale. Mi preme, però, condividere qui quanto penso, perché ho letto di molti che non si recheranno ai seggi e la cosa mi ferisce: non è un diniego intellettuale o un dissenso astratto, no, la mia è una ferita che sento come inferta, a me come uomo prima ancora che a me come cittadino. Difficile esprimere la propria umanità, difficile realizzare l’umano del nostro essere, difficile essere uomo o donna, quindi, al di la e al di fuori di un ordine sociale e statale, di qualsiasi natura esso sia. Difficile essere uomo ed essere donna fuori dallo Stato. E lo stato che noi abbiamo questo è: può piacere o non piacere, può avere meccanismi giusti o perversi, può essere madre o matrigna, ma in esso noi siamo e in esso noi dobbiamo operare. Non recarsi alle urne, non adempiere al proprio diritto-dovere, significa non solo rassegnarsi all’ignavia, ma anche e soprattutto distruggere lo Stato, distruggerlo di quella distruzione che non permette alcuna ricostruzione: spargere il sale sul terreno affinché nulla possa più germogliarvi. Questo non lo si deve permettere. Mai.
Esistono molteplici modi per manifestare il proprio dissenso, diverse pratiche per riuscire a dar voce all’amarezza e alla rassegnazione: scheda nulla, scheda bianca, voto disgiunto, farsi registrare e rifiutare di prendere la scheda (si può davvero?), etc… Tutto questo è legittimo, non solo, è anche giusto. Io stesso, probabilmente, disperderò il mio voto perché mi trovo a vivere queste elezioni regionali con un senso di desolazione infinita, come se mi avessero sottratto un bambino dall’utero, inconsapevolmente scippato di una scelta reale e possibile. Ma quando mi recherò al mio seggio, di corsa, mangiando al volo un panino perché dovrò tornare a fare lo scrutatore da un’altra parte, beh, in quel momento il mio cuore comincerà a battere come sempre: sarò emozionato, rileggerò la scheda venti volte ed esiterò prima di vergare con la matita una scelta a lungo ponderata. Votare mi emoziona, nonostante tutto, nonostante tutti. E dovrebbe emozionare sempre, chiunque, perché votare significa possedere una dignità, una vita, significa essere ascoltati, significa alzare la mano per dire “io voglio questo”: non è soltanto giocare il gioco della democrazia, votare significa realizzare la propria natura.
Viviamo in un tempo i cui la parola “politico” è un insulto: quante volte Paola Taverna ha ripetuto, con veemenza, con vera convinzione, “io non sono un politico! Io non sono un politico!”? La sincerità di quelle parole mi ha distrutto: l’equazione tra l’essere un politico ed essere sporchi, malvagi, contaminati; il rifiuto impaurito da parte di chi siede in parlamento di chiamarsi con il proprio nome; la violenta repulsa verso ciò che di più alto e nobile possa essere concepito in un ordinamento statale. Mi distrugge. E’ un gioco a cui non voglio giocare: la Politica per me è sacra, essa deve essere purgata, medicata e le si deve donare nuova verginità; per farlo, tuttavia, il primo e forse il più potente mezzo a nostra disposizione è il voto.
Tutti quanti dovrebbero andare a votare domenica, anche se le elezioni Regionali sono, nell’immaginario comune, le “meno sentite”: ma un’elezione non si deve sentire, un’elezione si deve vivere, si deve volere. In quelle cabine di cartone si consuma un segreto mistico e potente, si celebra un rito pagano a cui tutti e tutte dovremmo votarci come alte sacerdotesse d’un tempio remoto: custodendo, così, il mistero della cosa pubblica che altro non è che il nocciolo recondito della vita stessa.
Domenica andiamo a votare: “La nostra è un’epoca essenzialmente tragica, perciò ci rifiutiamo di prenderla tragicamente. Il cataclisma c’è stato, siamo tra le macerie, e cominciamo a costruire nuove piccole comunità, a nutrire nuove piccole speranze. È un lavoro piuttosto difficile perché ormai la via che porta al futuro non è spianata: gli ostacoli però li aggiriamo, o faticosamente li scavalchiamo. Dobbiamo vivere, non importa quanti cieli ci siano crollati addosso” (D.H. Lawrence).



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