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L’integrazione sudamericana nel pensiero strategico di Juan Domingo Perón

Creato il 14 marzo 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’integrazione sudamericana nel pensiero strategico di Juan Domingo Perón

A seguire proponiamo un interessante discorso tenuto dall’ex presidente argentino Juan Domingo Perón nel 1953, in occasione di una sua relazione presso la Scuola Nazionale di Guerra di Buenos Aires. Le sue intuizioni geopolitiche, a distanza di quasi sessant’anni, sono più attuali che mai.

 
Signori,

Ho accettato con grande piacere questa occasione per dissertare sulle idee fondamentali che hanno ispirato le nuove politiche internazionali della Repubblica Argentina.

Per i tanti impegni che ho, non potrò chiaramente presentarvi un’esposizione accademica su questo tema, ma potrò certamente sostenere una conversazione nella quale verranno esposti con semplicità e chiarezza gli aspetti fondamentali e più decisivi della nostra concezione. Senza dubbio da sempre le organizzazioni umane hanno creato successivi aggruppamenti e raggruppamenti.

Dalla famiglia troglodita fino ai nostri tempi si sono susseguiti un’infinità di raggruppamenti attraverso le famiglie, le tribù, le città, le nazioni e i gruppi di nazioni e c’è chi già si sbilancia dicendo che nel 2000 i raggruppamenti più piccoli saranno i continenti.

L’evoluzione storica dell’umanità sta affermando questo concetto con sempre maggior evidenza nella realtà. Questo è tutto quello che possiamo dire a riguardo della naturale e inevitabile evoluzione dell’umanità. Se questo problema lo trasferiamo alla nostra America si rende immediatamente necessaria una valutazione imposta dalle nostre specifiche condizioni e dalla nostra specifica situazione.

Per il futuro il mondo, sovrappopolato e super-industrializzato, ci riserva un panorama che l’umanità ancora non ha conosciuto, per lo meno in così grande scala. Nella stragrande maggioranza dei casi tutti i problemi che oggi si ventilano nel mondo sono prodotti da questa sovrappopolazione e super-industrializzazione, siano problemi di carattere materiale o spirituale.

L’influenza della tecnica e di questa super produzione è tale che l’umanità si trova profondamente influenzata da queste condizioni in tutti i suoi problemi economici, politici e sociologici. Se questo è il futuro dell’umanità, questi problemi aumenteranno e genereranno problemi nuovi e più difficili, emersi dalle condizioni descritte.

È naturalmente fuori di dubbio che la lotta fondamentale in un mondo sovrappopolato è per una cosa da sempre primordiale per l’umanità: il cibo. Questo è il problema peggiore e più difficile da risolvere.

Il secondo problema che solleva l’industrializzazione riguarda le materie prime; si potrebbe dire che in questo mondo che lotta per il cibo e le materie prime, il problema fondamentale del futuro è un problema economico. La lotta del futuro sarà sempre più economica a causa di una maggior sovrappopolazione e di una maggior super-industrializzazione.

Di conseguenza, analizzando i nostri problemi, potremmo dire che il futuro del mondo, il futuro dei popoli e il futuro delle nazioni sarà straordinariamente influenzato dalla grandezza delle riserve che si posseggono: riserve alimentari e riserve di materie prime. Questa è una cosa così evidente, così naturale e semplice che non avremmo bisogno di far uso delle statistiche e ancor meno della dialettica per convincere qualcuno.

E quindi, analizzando il problema in modo pratico e obiettivo, pensiamo a quali sono le zone del mondo dove ancora esistono le maggiori riserve di questi due elementi fondamentali per la vita umana: il cibo e le materie prime. Il nostro continente, in particolare il Sudamerica, a causa della sua scarsa popolazione e del suo scarso sfruttamento minerario, è la zona dove ci sono ancora le maggiori riserve di materie prime e di cibo del mondo.

Questo ci indicherebbe che l’avvenire è nostro e che nella futura lotta abbiamo uno straordinario vantaggio nei confronti delle altre zone del mondo che hanno terminato le loro possibilità di produzione di cibo e di provvigione di materie prime, o che sono inadatte per la produzione di questi due elementi fondamentali per la vita. Se questo crea davvero il problema della lotta è fuori di dubbio, signori, che in questa lotta abbiamo un vantaggio iniziale e che nell’assicurarci un futuro promissorio abbiamo maggiori e promettenti speranze rispetto agli altri paesi del mondo.

Ma il nostro maggior pericolo sta proprio in queste condizioni perché è noto che l’umanità ha dimostrato durante la storia che quando mancavano cibo o altri elementi indispensabili per la vita, come potrebbero essere le materie prime e altri, si è trovato il modo di averne togliendone ad altri con le buone o con le cattive, cioè con abili piani o attraverso la forza. Quello che voglio dire senza mezzi termini è che siamo minacciati perché un giorno i paesi sovrappopolati e super-industrializzati, che non hanno né cibo né materie prime ma che hanno uno straordinario potere, ne approfitteranno per toglierci ciò che abbiamo in più rispetto alla nostra popolazione e alle nostre necessità.
Qui sta il problema posto nei suoi principi più fondamentali, ma anche più obiettivi e realisti.

Se continueranno a esistere paesi piccoli e deboli, in un futuro non troppo lontano potremmo essere territorio di conquista, come lo sono stati migliaia di territori dai fenici ai giorni nostri. Non sarebbe una storia nuova quella che verrebbe scritta a questa latitudini; sarebbe la storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi della terra, e non attirerebbe quindi neanche tanto l’attenzione.
È questa situazione che ha indotto il nostro governo a considerare la possibilità di un’unione reale e effettiva dei nostri paesi, a considerare una vita in comune e anche a pianificare una futura difesa in comune.

Se queste condizioni non sono sufficienti, o se questo non è un fattore che ricade in modo decisivo a favore della nostra unione, non credo che esista nessun altro importante motivo per cui dovremmo realizzarla. Se quanto ho detto non fosse reale o non fosse vero, l’unione di questa zona del mondo non avrebbe ragione d’essere, sarebbe una questione più o meno astratta e idealista.

Signori: è fuori di dubbio che ci credemmo dal primo momento; analizzammo le condizioni e osservammo che, dal 1810 fino ai giorni nostri, non sono mai mancati differenti tentativi di raggruppare questa zona del continente in un’unione di diversi tipi. I primi tentativi ci furono in Cile, già nei primi giorni delle rivoluzioni emancipatrici dell’Argentina, del Cile e del Perù. Tutti fallirono per diversi motivi.

Se si fosse realizzata un’unione a quel tempo sarebbe stata una cosa chiaramente straordinaria. Sfortunatamente non tutti capirono il problema e quando il Cile la propose a Buenos Aires, nei primi giorni della Rivoluzione di Maggio, fu Mariano Moreno che si oppose a qualsiasi tipo di unione con il Cile. L’idea di far fallire questa unione stava proprio nel governo e nelle persone più illustri del governo. L’unione fallì per colpa della Giunta di Buenos Aires.

Ci furono poi vari altri tentativi che fallirono comunque per diversi motivi.
Poi toccò al Perù portare avanti questa idea, ma anche l’azione di San Martín fallì. Dopo fu Bolívar che si fece carico della lotta per una unità continentale, e sappiamo anche come fallì. Si realizzarono poi il primo, il secondo e il terzo Congresso del Messico con la stessa finalità. E dobbiamo confessare che tutto fallì, molto per colpa nostra. Noi fummo quelli che ci mantenevamo sempre un po’ isolati, in nome di un principio un po’ isolazionista ed egoista.

Arriviamo ai nostri tempi. Non vorrei passare alla storia senza aver dimostrato, almeno con delle prove, che mettemmo tutta la nostra volontà reale, effettiva, leale e sincera perché questa unione potesse realizzarsi nel continente.

Penso che il 2000 ci sorprenderà o uniti o dominati; penso anche che è da persona intelligente non aspettare che il 2000 arrivi, ma fare uno sforzo per arrivare un po’ prima al 2000, e arrivare in condizioni migliori di quelle che ci può riservare il destino, mentre siamo l’incudine che prende i colpi e non siamo mai il martello; diamo anche noi qualche colpo da parte nostra. È per questa ragione che già nel 1946, facendo le prime valutazioni di carattere strategico e politico a livello internazionale, cominciammo a riflettere su questo grave problema del nostro tempo.

Forse, nella politica internazionale che ci interessa, è il più grave e il più trascendente; più trascendente forse di ciò che può accadere in una guerra mondiale, di ciò che può accadere in Europa, o di ciò che può accadere in Asia o in Estremo Oriente; perché questo è un problema nostro, e gli altri sono problemi del mondo nel quale viviamo, ma che sono sufficientemente lontani da noi. Credo anche che nella soluzione di questo problema grave e trascendente contino i popoli più degli uomini e dei governi.

È per questo che, quando facemmo le prime valutazioni, analizzammo se questo poteva realizzarsi attraverso le cancellerie che operano, come nel XVIII secolo durante un buon pranzo, con discorsi patinati che terminano però alla fine del pranzo, inefficaci e immanenti come sono state tutte le azioni delle cancellerie di questa parte del mondo da quasi un secolo fa fino ai giorni nostri; o se si sarebbe dovuto operare più efficacemente influenzando non i governi, che qui si cambiano come si cambiano le camice, ma influenzando i popoli, che permangono.
Perché gli uomini passano e i governi si succedono, ma i popoli rimangono.

Abbiamo osservato, d’altra parte, che il successo del comunismo, forse il suo unico successo straordinario, consiste nel fatto che non lavora con i governi, ma con i popoli. Perché si sta avviando verso un’opera permanente e non verso un’opera circostanziale. E se a livello internazionale si vuole realizzare qualcosa di trascendente, bisogna dargli carattere permanente. Perché se rimane circostanziale, a livello della politica internazionale, non avrà nessuna importanza.

Per questa ragione, e approfittando delle naturali inclinazioni della nostra stessa dottrina, cominciammo a lavorare sui popoli, senza esitazione, senza fretta e, soprattutto, cercando di fare molta attenzione, di snaturare ogni possibilità di essere accusati di intervento negli affari interni di un altro Stato.

Nel 1946, quando ebbi il mio primo incarico governativo, la politica internazionale argentina non aveva nessuna definizione. Non trovammo nessun piano di azione, e non esisteva nemmeno presso i ministeri militari, neppure una remota ipotesi sulla quale i militari potessero basare i loro piani di operazioni. Neanche nel Ministero degli Affari Esteri, in tutto il suo archivio, non c’era un solo piano attivo sulla politica internazionale che seguiva la Repubblica Argentina, neppure sull’orientamento, per lo meno, che dirigeva le sue decisioni o intenzioni.

In politica internazionale abbiamo vissuto rispondendo alle misure che gli altri prendevano nei nostri confronti, ma senza avere mai una nostra idea che ci potesse condurre, per lo meno durante il tempo, in una direzione uniforme e congruente. Ci dedicammo a tappare i buchi che ci rimanevano dopo le diverse misure che prendevano gli altri paesi. Noi non prendevamo l’iniziativa. Non è tanto criticabile il procedimento, perché è comunque un modo di procedere, forse spiegabile perché a livello della politica internazionale i piccoli paesi non possono avere obiettivi molto attivi né molto grandi; ma devono avere qualche obiettivo.

Non dico di stabilire obiettivi extra continentali per imporre la nostra volontà ai russi, agli inglesi o agli americani; no, perché questo sarebbe inopportuno.
Significa solo che, come si è detto e sostenuto tante volte, bisogna avere la politica della forza che si possiede o la forza che si necessita per sostenere una politica. Non possiamo avere la seconda opzione e, di conseguenza, dobbiamo ridurci ad accettare la prima, ma dentro questa situazione possiamo avere le nostre idee e lottare per loro affinché le cancellerie, che operano nello stile del XVIII secolo, non ci stiano dominando con i loro sogni fantastici di egemonia, di comando e di direzione.

Per essere un paese trascinatore – come succede a tutti i paesi trascinatori – è necessario mettersi davanti perché gli altri ci seguano. Il problema è arrivare quanto prima a ottenere la posizione o la collocazione, e gli altri ci seguiranno anche se non vorranno. L’egemonia non si discute; l’egemonia si conquista o non si conquista. Per questo la nostra lotta non è, a livello della politica internazionale, per l’egemonia di nessuno, come ho detto molte volte, ma semplicemente per l’ottenimento pieno di quello che conviene al paese in primo luogo; in secondo luogo, di quello che conviene alla grande regione in cui si trova il paese; e in terzo luogo, il resto del mondo, che è già più lontano e a minor portata delle nostre previsioni e delle nostre concezioni.

Per questo, come ho fatto in ogni situazione, per noi: prima la Repubblica Argentina, poi il continente e poi il mondo. Ci hanno trovati e ci troveranno sempre con questa posizione perché riteniamo che la propria difesa è nelle nostre mani; che la difesa, diciamo relativa, è nella zona continentale che difendiamo e nella quale viviamo; e che la difesa assoluta è un sogno che ancora non ha raggiunto nessun uomo né nessuna nazione della terra. Viviamo solamente in una sicurezza relativa, signori, credendo all’idea fondamentale di arrivare a un’unione in questa parte del continente.

Avevamo pensato che la lotta del futuro sarebbe stata economica; la storia ci dimostra che nessun paese si è imposto in questo campo, né in nessuna lotta, se non ha in sé una completa unità economica. Dagli inizi della storia fino ai giorni nostri i grandi imperi, le grandi nazioni sono arrivati alle grandi conquiste con alla base un’unità economica. E io deduco che, se noi sogniamo la grandezza che abbiamo l’obbligo di sognare per il nostro paese, dobbiamo analizzare prima di tutto questo fattore in una fase del mondo nella quale l’economia passerà a essere in primo piano in tutte le lotte del futuro.

La Repubblica Argentina da sola non ha unità economica; neanche il Brasile da solo ha unità economica; neppure il Cile da solo ha unità economica; ma questi tre paesi uniti formano forse – al momento attuale – l’unità economica più straordinaria del mondo intero, soprattutto per il futuro, perché tutta questa immensa disponibilità costituisce la sua riserva. Questi sono i paesi riserva del mondo. Gli altri sono forse a non molti anni dalla fine di tutte le loro risorse energetiche e di materie prime; noi possediamo tutte le riserve delle quali ancora non abbiamo sfruttato nulla.

Questo sfruttamento che ci hanno imposto, mantenendoci per consumare le cose prodotte da loro, ora nel futuro può cambiare, perché nell’umanità e nel mondo c’è una giustizia che sta sopra tutte le altre giustizie e che un giorno arriva.
E questa giustizia si avvicina per noi; solamente dobbiamo avere la prudenza e la saggezza sufficienti per prepararci affinché non ci freghino di nuovo la giustizia nel momento stesso in cui stiamo per riceverla e per sfruttarla. Questo è ciò che predispone, in modo imprescindibile, la necessità dell’unione di Cile, Brasile e Argentina.

È fuori di dubbio che, realizzata questa unione, cadranno nella sua orbita gli altri paesi sudamericani, che non saranno favoriti né dalla formazione di un nuovo raggruppamento e probabilmente non lo potranno realizzare in nessun modo, separati o uniti, se non in piccole unità. Compreso questo, signori, iniziai a lavorare sui popoli. Non dimenticai di lavorare sui governi e durante i sei anni del primo governo, mentre lavoravamo attivamente con i popoli preparando l’opinione pubblica ad accogliere bene questa azione, parlai almeno con quelli che stavano diventando presidente nei due paesi che più ci interessavano: Getulio Vargas e il generale Ibáñez.

Getulio fu totalmente e assolutamente d’accordo con questa idea e deciso a realizzarla appena salito al potere. lbáñez mi manifestò esattamente la stessa cosa e contrasse l’impegno di procedere allo stesso modo. Non mi illudevo di considerare la cosa come fatta solo perché me lo avevano promesso; sapevo bene che erano uomini che andavano al governo e non avrebbero potuto fare quello che volevano, ma quello che potevano. Sapevo bene che una grande parte di questi popoli si sarebbe opposta tenacemente a una realizzazione di questo tipo, per questioni di interessi personali e di affari, più che per nessun altro motivo.
Come fanno a non opporsi gli allevatori cileni alle nostre esportazioni senza misura di bestiame argentino in Cile!

E come fanno a non opporsi gli immagazzinatori cileni al fatto che risolveremo tutti i problemi frontalieri per l’internamento di bestiame, quando una vacca o un vitello a un metro dalla frontiera cilena verso il lato argentino vale diecimila pesos cileni, e a un metro verso il Cile dalla frontiera argentina, vale ventimila pesos cileni! Quello che guadagna i diecimila pesos non sarà mai d’accordo con un’unità di questo tipo.

Cito questo caso grossolano, signori, perché possiate intuire tutta l’immensa gamma di interessi di ogni tipo che c’è dietro ognuna delle cose che mangia il povero e stanco cileno e che produciamo noi, o che consumiamo noi e producono loro. La stessa cosa succede con il Brasile. Per questa ragione non mi feci mai troppe illusioni sulla possibilità di raggiungere l’unione; per questo continuammo a lavorare per queste unioni, perché queste sarebbero dovute venire dai popoli. Avevamo un’esperienza molto triste delle unioni che sono arrivate dai governi; per lo meno, nessuna in centocinquanta anni ha potuto diventare realtà.

Provammo l’altra strada che non era mai stata provata per vedere se, dal basso, potevamo influire in modo determinante affinché questa unione si realizzasse.
Signori, so anche che il Brasile, per esempio, si scontra con una grande difficoltà: Itamaraty , che lì costituisce un’istituzione super governativa.
Dall’epoca del suo Imperatore fino ai giorni nostri, Itamaraty ha sognato una politica che si è protratta attraverso tutti gli uomini che hanno occupato questa difficile carica in Brasile.

Questa politica li aveva portati a stabilire un arco tra Cile e Brasile; questa politica deve essere vinta con il tempo e con un buon procedere da parte nostra.
Si deve smontare tutto il sistema di Itamaraty e devono sparire queste escrescenze imperiali che costituiscono, più che nessun’altra ragione, i principali ostacoli affinché il Brasile entri in una vera unione con l’Argentina.
Noi non abbiamo nessun problema con loro – a parte questo sogno dell’egemonia –, perciò siamo pronti a dire loro: voi siete più grandi, più belli e migliori di noi; non abbiamo nessuna difficoltà.

Rinunciamo a tutto ciò di modo che questo non diventi un problema. Ma è fuori di dubbio che credevamo in un certo qual modo superato questo problema. Vi devo raccontare signori un fatto che porrà perfettamente in evidenza come procediamo e perché abbiamo la ferma convinzione che alla fine vinceremo noi poiché stiamo procedendo bene. Perché quelli che procedono male sono quelli che soccombono, vittime del loro stesso mal procedimento; per questo non impiegheremo in nessun caso né i sotterfugi, né le insidie, né le combinazioni strane che impiegano alcune cancellerie.

Quando Vargas salì al governo mi promise che ci saremmo riuniti a Buenos Aires o a Río e avremmo fatto queste trattato che io firmai poi con Ibáñez: lo stesso trattato. Questo che avevamo tracciato fu un proposito formale. Ma c’è di più, dicemmo: – Sopprimiamo le frontiere, se è necessario. Io prendevo qualsiasi cosa, purché stesse all’interno dell’orientamento che seguivo e di ciò che credevo fosse necessario e conveniente. Sapevo che lo avrei realizzato, perché quando avrei detto al mio popolo che volevo fare questo, sapevo che il mio popolo avrebbe voluto quello che io volevo a livello della politica internazionale, perché qui già esiste una coscienza politica internazionale nel popolo e esiste un’organizzazione. Inoltre la gente sa che alla fine non commettiamo tanti errori e quindi ha anche un po’ di fede in quello che facciamo.

Più tardi Vargas mi disse che era difficile che potessimo farlo così rapidamente, perché lui aveva una situazione politica un po’ complicata nelle Camere e che prima di dominarle voleva tentare una conciliazione. Questo in politica è complicato; prima bisogna dominare e poi la conciliazione viene da sola. Sono punti di vista; sono diversi modi di pensare. Lui seguì una strada diversa e nominò un gabinetto di conciliazione, cioè nominò un gabinetto dove per lo meno i tre quarti dei ministri erano suoi nemici politici e avrebbero seguito i loro interessi e non quelli del governo.

Chiaramente lui pensò che questo gli avrebbe risolto il problema in sei mesi; ma quando passarono i sei mesi la situazione era più complicata di prima. Naturalmente non poté venire; non poté imporsi di fronte al suo Parlamento e di fronte ai suoi propri ministri per realizzare un compito per il quale era necessario far vedere chi porta i pantaloni e mettersi in gioco di fonte alla politica internazionale mondiale, di fonte al suo popolo, al suo Parlamento e a quelli che bisognava battere. Naturalmente aspettai.

Nel frattempo il generale Ibáñez del Campo viene eletto presidente; la sua situazione non era migliore della situazione di Vargas, ma da un certo punto di vista ci arrivava con un plebiscito, considerato quello che è un plebiscito in Cile, con elezioni sui generis perché là si iscrivono quelli che vogliono, e quelli che non vogliono no. È una cosa molto diversa dalla nostra. Ma lui naturalmente sale al potere. Non appena arriva al governo, gli ricordo quello di cui avevamo parlato, lo metto alla prova. Mi dice: d’accordo, lo facciamo. Molto bene!

Il generale fu più deciso, perché noi generali di solito siamo più decisi dei politici, ma prima di farlo, poiché avevo già un compromesso con Vargas, gli scrissi una lettera che gli feci arrivare per mezzo del suo ambasciatore che chiamai e al quale dissi: – vede, lei deve andare con questa lettera e deve spiegare tutto questo al suo presidente. Due anni fa noi ci mettemmo a realizzare questo atto. È più di un anno che lo sto aspettando, e non può venire. Chiedo la sua autorizzazione perché mi liberi da questo compromesso di farlo prima con il Brasile e mi permetta di farlo prima con il Cile. Chiaramente gli chiedo questo perché credo che sono questi tre paesi quelli che devono realizzare l’unione.

L’ambasciatore va là e torna e mi dice, in nome del suo presidente, che non solo mi autorizza ad andare in Cile liberandomi dal compromesso, ma mi dà anche la sua delega perché lo faccia in nome suo in Cile. Naturalmente adesso so molte cose che prima non sapevo; accettai solo l’autorizzazione, ma non la delega. Andai in Cile, arrivai e dissi al generale Ibáñez: Ho qui tutto pronto e porto l’autorizzazione del presidente Vargas perché mi ero impegnato a fare tutto questo prima con lui e con il Brasile; di modo che tutto va a meraviglia come lo avevamo programmato, e forse facendo questo si faciliterà l’azione a Vargas e si sistemerà meglio la situazione.

Arrivammo, facemmo là con il ministro degli Affari Esteri tutte queste cose delle Cancellerie, discutemmo un po’, ma poco, e arrivammo all’accordo, non così ampio come volevamo perché la gente ha paura di alcune cose e chiaramente uscì un po’ ritoccato, ma uscì. Non fu neanche un parto della montagna, ma fu molto duro convincere, persuadere, eccetera. Il giorno seguente arrivano le notizie da Río de Janeiro dove il ministro degli Affari Esteri del Brasile faceva una dichiarazione tremenda contro il Patto di Santiago: – che era contro i patti regionali, che questa era la distruzione dell’umanità panamericana… Immaginatevi la mia faccia il giorno seguente quando andai e mi presentai al presidente Ibáñez.

Dandomi il buon giorno, mi chiese: – Che mi dice degli amici brasiliani?
Naturalmente la stampa carioca oltrepassò i limiti ai quali era arrivato lo stesso ministro degli Esteri, signor Neves da Fontoura. Chiaramente non parlai; non avevo altra scelta. Firmai il trattato e tornai qui.

Quando arrivai mi incontrai con Gerardo Rocha, vecchio giornalista di grande talento, direttore di 0 Mundo a Río, molto amico del presidente Vargas, che mi disse: -Mi manda il presidente Vargas perché le spieghi quello che è successo in Brasile. Dice che la sua situazione è molto difficile; che politicamente non la può dominare; che c’è siccità al Nord, gelate al Sud; e ha i politici in rivolta; che il comunismo è molto pericoloso; che non ha potuto fare nulla; insomma, che lo scusassi, che lui non la pensa così e che se il ministro ha fatto questo è perché neanche lui può comandare il ministro.

Io mi sono spiegato molto bene tutto questo; non lo giustificavo, ma per lo meno me lo spiegavo. Naturalmente, signori, messa così la situazione, in un modo così lamentevole, non ebbi altra scelta che dirgli di continuare tranquillo, che non mi metto nelle sue cose, e di fare quello che poteva, ma di continuare a lavorare per questo.

Bene, signori. Io volevo raccontarvi questo, che probabilmente non lo sa nessuno al di là di me e dei ministri; chiaramente sono tutti documenti per la storia, perché io non voglio passare alla storia come un cretino che ha potuto realizzare questa unione e non l’ha realizzata. Per lo meno voglio che nel futuro la gente pensi che sì qui ci sono stati cretini, non sono stato solo io; ci sono anche altri cretini come me, e tutti insieme andremo al ballo del cretinismo. Ma quello che non volevo è smettere di affermare, come farò pubblicamente in alcune circostanze, che tutta la politica argentina a livello internazionale è stata orientata verso la necessità di questa unione, perché, quando arriverà il momento nel quale saremo giudicati dai nostri uomini di fronte ai pericoli che questa dissociazione produrrà nel futuro, per lo meno avremo il giustificativo della nostra impotenza per realizzarla.

Non sono comunque pessimista; credo che il nostro orientamento, la nostra perseveranza ogni giorno guadagna terreno all’interno di questa idea, e sono quasi convinto che un giorno realizzeremo tutto bene e fino alla fine, e che dobbiamo lavorare senza sosta per realizzarlo. Sono finiti i tempi durante i quali i conflitti erano tra due paesi. Adesso i conflitti si sono talmente aggregati e hanno acquisito una tale naturalezza che bisogna prepararsi per i grandi conflitti e non per i piccoli conflitti. Questa unione, signori, è in piena elaborazione; è tutto quanto io potrei dirvi come definitivo.

Ci stiamo lavorando, signori, e il successo deve arrivare; per lo meno, noi abbiamo preparato il successo, lo stiamo realizzando, e non abbiate dubbi che il giorno in cui si realizzerà dovrò saperlo sfruttare con tutte le convenienze necessarie per il nostro paese perché, d’accordo con l’aforisma napoleonico, colui che prepara un successo e lo raggiunge, difficilmente non sa prenderne vantaggio quando lo ha ottenuto. In questo, signori, sono assolutamente persuaso del fatto che andiamo per la buona strada.

La contestazione del Brasile, cercando di deviare il suo arco da Santiago a Lima, è solamente una contestazione offuscata e disperata di una cancelleria che non interpreta il momento e che sta persistendo su una linea superata dal tempo e dagli avvenimenti; questo non può avere efficacia. La lotta per le zone amazzoniche e del Plata non ha nessun valore né nessuna importanza; sono sogni un po’ equatoriali e niente di più.

Non può esserci in questo senso nessun fattore geopolitico né di nessun’altra natura che possa scontrarsi con queste due zone tanto diverse in tutti i loro fattori e in tutte le loro caratteristiche. Qui c’è un problema di unità che sta al di sopra di tutti gli altri problemi, e in queste condizioni, forse molto determinanti, di avere risolto i nostri malintesi con gli Stati Uniti, forse questo favorirà in modo decisivo la possibilità di un’unione continentale in questa zona del continente americano.

Signori, come ha risposto il Paraguay, anche se è un piccolo paese; come risponderanno gli altri paesi del continente, piano piano, senza pressioni e senza violenze di nessun genere, così si va configurando già una sorta di unione.
Le unioni si devono realizzare con il comune procedimento: primo bisogna collegare qualcosa; poi le altre connessioni si formano con il tempo e con gli avvenimenti. Il Cile, nonostante la lotta che devono sostenere, è già unito con l’Argentina. Il Paraguay si trova nella stessa situazione. Ci sono altri paesi che sono già inclini a realizzare la stessa cosa. Se noi otteniamo di far aderire lentamente altri paesi, non tarderà molto che il Brasile faccia lo stesso, e questo sarà il principio del trionfo della nostra politica.

L’unione continentale con base Argentina, Brasile e Cile è molto più vicina di quello che credono molti argentini, molti cileni e molti brasiliani; in Brasile c’è un settore enorme che lavora per questo. L’unica cosa che bisogna vincere sono gli interessi; ma quando gli interessi dei paesi entrano in azione, quelli degli uomini saranno vinti, questa è la nostra maggior speranza. Fino a che questo non si realizzerà, signori, non abbiamo altra scelta che aspettare e lavorare perché si realizzi; e questa è la nostra azione e questo è il nostro orientamento.

Grazie mille.

(Traduzione dallo spagnolo di Arianna Plebani)


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