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L’isola rossa

Creato il 28 settembre 2014 da Casarrubea
Un fotogramma di Favignana

Un fotogramma di Favignana

Un bel corpo femminile. Il capo ornato di perle nere e rosse, di fiori e di piante aromatiche, di terre lontane portate dal vento senza tempo, per una scelta naturale del destino, del cielo, del cosmo.
Tra le perle rosse, Favignana è la più ricca di particolari preziosi, angoli divini, acque marine cristalline, rare spiagge di roccia e di sabbia bianca toccate da un mare verde bottiglia.
Ci devi fare l’occhio e l’abitudine per viverla, quest’isola senza tempo, dove la storia è intervenuta per una spietata lotta per la sopravvivenza e con la violenza di un potere di segregazione, di condanna e di una impossibile liberazione.

Qui i Florio impiantarono, come nella vicina isola di Formica, i loro stabilimenti per l’industria del tonno, di fronte a un mare incontaminato, dove, a farla da padrona, non fu la divinità del silenzio e del vento caldo dell’Africa, ma il grido atroce della cattura, dell’inganno contro la natura, della mattanza, o del comando freddo e crudele dei rais, gli arpioni della caccia che per quaranta giorni trasformavano quelle acque in un mare di sangue, tra maggio e giugno di ogni anno. Un anno segnò il record e l’amministratore di questi signori, venuti in origine dalla Calabria a far miglior fortuna da queste parti, segnò in una lapide muraria un numero incredibile di tonni catturati: ben oltre 14.000.
All’ingresso dello stabilimento, campeggia una scritta e un simbolo. La scritta è ben scelta: “L’Industria domina la forza”, ma l’immagine scolpita poco sotto il motto sembra tradire la vera vocazione dei proprietari: un leone che beve assetato. L’animale ha le zampe posteriori ben tese e quelle anteriori ripiegate nell’intento di dissetarsi. La figura è eloquente. La bestia è in ottima salute, ma guai a pestargli la coda. I Florio, in effetti, furono una delle più potenti famiglie imprenditoriali dell’Europa tra Otto e Novecento. Nella loro storia fondarono una compagnia di Navigazione che si fuse con la Rubattino, diedero vita al L’Ora di Palermo, ebbero traffici di spezie con l’Oriente, costruirono stabilimenti vinicoli e fabbriche di tonno. Grazie a una delle loro iniziative, l’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891, arriva in Sicilia il socialismo diffuso dagli operai del Nord che venuti nella capitale siciliana accelerando la modernizzazione culturale. Ma i Florio rimasero sempre l’espressione della grande borghesia imprenditrice e di un certo illuminato capitalismo. L’ultimo di loro, Ignazio Florio Junior, morirà a Palermo, quasi per una fatale coincidenza simbolica, negli anni del Gattoparto e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La storia della loro famiglia sembrava avere cambiato il mondo e, invece, tutto tornò come prima, tutto andò in rovina.
Da qui è come se l’isola si riprendesse la sua rivincita, con le sue rocce rosse che toccano il mare o vi arrivano a strapiombo, le sue bellezze naturali e la sua vegetazione spontanea, i suoi capperi e i suoi finocchi selvatici che incontri per le trazzera, dove di tanto in tanto all’improvviso incontri dentro le chiuse dei muli, o dei cavalli. Le chiuse, appunto, segno di una secolare trazione di proprietà della terra, limitata da caratteristici muretti a secco, oggi abbandonati, ma che potrebbero essere redenti ad un’agricoltura unica ed esclusiva.
Ad amministrare la città ci sono oggi dei bravi amministratori. Le strade sono pulite, l’identità urbana, con i suoi selciati e basolati lucidi, le sue case e i suoi monumenti ben conservati, le sue biciclette e il suo turismo, la raccolta differenziata dei rifiuti, sono credo, un buon esempio di sana gestione di un comune che ha una storia antica. Fu da queste parti che si svolse la battaglia navale tra cartaginesi e romani, fu qui, nel castello di Santa Teresa che nel ‘500 gli spagnoli costruirono la prima terribile prigione, e dove, dopo il suo abbandono, nel 1924 il regime fascista fece costruire il fatidico carcere.
Tra le cose curiose di Favignava si può vedere una cappelletta votiva fatta costruire dai gesuiti intorno al 1854, dove si nota una Madonna che tiene un braccio un tonno. Ho cercato di interpretare questa immagine e sono rimasto nei miei dubbi. Il pugnale colpisce chiaramente la testa del tonno e attraversa la mano della Vergine. Sembra che se ne voglia prendere amorevole cura. L’opera potrebbe quindi indicare la volontà di limitare l’eccessiva disumanità ed estensione della trappola della mattanza. Al contrario potrebbe essere un’invocazione alla Madonna a proseguire in quella pratica che di fatto dava lavoro a quasi tutte le famiglie favignanesi. Ma diversi elementi contraddicono questa lettura.
Giuseppe Casarrubea


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