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L’Italia bloccata dalle rendite

Creato il 17 giugno 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Cosimo Perrotta

www.pierferdinandocasini.it
L’economia italiana è bloccata dalle rendite parassitarie. Esse aggravano la nostra crisi rispetto agli altri paesi sviluppati (com’è noto, da 12 anni l’Italia è in fondo alla classifica mondiale della crescita).[1] Queste rendite sono moltissime e di vario tipo; hanno però un carattere comune: tendono a trasformare l’interesse pubblico in vantaggio privato. Ad esempio beni, denaro e servizi pubblici vengono spesso trasformati in – o resi funzionali a – beni, redditi o servizi privati. Oppure, le regole generali vengono spesso usate – o disattese – a fini privati.

Queste tendenze derivano dalla storica debolezza del potere centrale, che rappresenta l’interesse pubblico. Nel lontano medioevo il Centro-Nord conobbe un periodo secolare di sviluppo. Ma fu uno sviluppo dal basso, sostenuto dalle realtà locali, fatto senza – anzi contro – i grandi poteri di allora, impero e stati stranieri. Nella nostra ipotesi, in età moderna la mancanza di un grande stato nazionale fece deperire lo sviluppo italiano, che pure aveva guidato l’economia europea nel medioevo. Le altre brevi fasi di sviluppo – anche se ci hanno collocato tra i paesi ricchi – hanno inciso poco sul rapporto negativo, ormai radicato, tra economia e istituzioni.[2]

Nel Sud è andata ancora peggio. È difficile negare che qui un vero sviluppo non si è mai avuto, e che le istituzioni sono state molto spesso lo strumento degli interessi privati delle classi dominanti. Tutti concordano che nel secondo Novecento le politiche a favore del Sud hanno prodotto benessere ma non sviluppo. Direi che esse hanno introdotto la politica assistenziale senza sradicare le vecchie politiche. L’assistenzialismo, diffuso fra i ceti medio-bassi, si è affiancato alle nuove rendite dei privilegiati (derivate non più dal latifondo ma dalla gestione del denaro pubblico).[3]

Ad es. ci sono in Italia milioni di privatizzazioni illegali del suolo pubblico; sulle coste, su isole, laghi e boschi; nei centri abitati, dove si chiudono dei cortili o si invadono strade e marciapiedi. Questa pratica risale addirittura al medioevo; e spesso, come ancora constatava Giustino Fortunato, ha portato a falsificare gli atti catastali. Ad essa si aggiunge l’uso privato degli spazi pubblici (accessi, transiti, parcheggi riservati, affitto di immobili pubblici a prezzi privilegiati, ecc.). Oggi la piaga dell’abusivismo edilizio distrugge i siti archeologici, l’assetto idro-geologico e urbanistico, il paesaggio agrario, e tante occasioni per il turismo.

Ma ci sono molte altre forme di privatizzazione abusiva. Si pensi agli infiniti e coloriti modi di distrazione dei fondi pubblici, legale o illegale: le spese private fatte con i rimborsi elettorali; gli appalti e i concorsi pubblici pilotati; i finanziamenti decisi per particolari aree, categorie, industrie, per singole imprese, associazioni, fondazioni, ecc. Lo stesso capitalismo industriale e bancario ha preferito alla libera concorrenza la protezione delle grandi famiglie. Le corporazioni professionali hanno protetto i propri privilegi con forti barriere all’entrata.

Un altro esempio sono gli emolumenti dei dirigenti pubblici e para-pubblici. Tutti i vertici delle istituzioni, nazionali e locali, inclusi Banca d’Italia, varie magistrature, parlamentari, militari, consiglieri d’amministrazione, ecc., godono di appannaggi due-tre volte superiori a quelli degli altri paesi sviluppati, anche più grandi e più ricchi del nostro. Per di più questa élite del potere può cumulare senza limiti stipendi, prebende e pensioni; e non risponde mai dei risultati del proprio lavoro.

Lo stesso vale per tante nicchie protette dell’impiego pubblico e para-pubblico. Se il dattilografo della Camera o il contabile della Consulta guadagnano più di un professore universitario, ciò significa che il merito conta poco, la produttività non conta niente e il privilegio conta moltissimo. La smania di privilegiare qualcuno (se stessi, il parente, l’amico, il sodale), contro ogni selezione di merito, è insita di fatto in molti meccanismi decisionali pubblici.

Si è creata così una fitta rete di piccoli e grandi benefici esclusivi, esenzioni, abusi; spesso consentiti dalle leggi o normative. In questo contesto le eccezioni sono più importanti delle regole, i privilegi più forti dei diritti. La vera cifra di una società di questo tipo è la disuguaglianza (come nel medioevo). Dopo gli Stati Uniti, l’Italia è il paese con le maggiori disuguaglianze di reddito.[4]

Un’economia basata sulle rendite infatti dà vantaggi piccoli ai piccoli e vantaggi grandi ai più forti. Basti pensare alla rendita più grande e diffusa di tutte: l’evasione fiscale. Da tutto questo deriva un sistema capillare e resistentissimo di interessi privati, che disprezza l’interesse pubblico e si oppone sordamente al riconoscimento del merito, alla concorrenza e allo sviluppo.


[1] V. ad es. Daniel Gros, “What is holding Italy back?”, CEPS Commentary, 8 November 2013.

[2] V. L’arretratezza del Mezzogiorno, a cura di C. Perrotta e C. Sunna, soprattutto capp. 1 e 14.

[3] V. ivi, capp. 10-13.

[4] Cfr. Rapporto Sbilanciamoci! 2013, pp. 133-35. UN 2005 Development Program Report. Maurizio Franzini, Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Milano: EGEA, 2010.


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