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L’Italia continua per la strada delle privatizzazioni ma rischia una ulteriore marginalizzazione della propria economia

Creato il 20 dicembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’Italia continua per la strada delle privatizzazioni ma rischia una ulteriore marginalizzazione della propria economia

Nonostante le esperienze negative del passato ed in controtendenza rispetto ai paesi che meglio avanzano nel mezzo della crisi, la privatizzazione delle attività pubbliche torna ad essere considerata strumento utile per l’economia nazionale.

 
Far passare l’idea che il problema risieda nell’eccessivo indebitamento pubblico e non nell’esplosione di quello privato, soprattutto finanziario, come ammesso dal vice-presidente della Bce Vítor Constâncio, è funzionale all’imposizione di ricette economiche controproducenti che bloccano ogni tipo di spesa pubblica, anche produttiva, su parametri fissati senza un chiaro criterio economico e screditate dall’esperienza neoliberista degli ultimi decenni.

Queste politiche non sono infatti una novità ma riflettono esattamente l’approccio utilizzato dal FMI negli anni ’90 sulla base di quella ideologia neoliberista che va sotto il nome di Washington Consensus e che imponeva ai paesi in via di sviluppo riforme che non solo inasprirono la crisi attraverso tagli e privatizzazioni ma, come denuncia il Nobel Stiglitz, ne determinarono significativamente l’inizio attraverso la liberalizzazione selvaggia dei loro mercati. Queste direttive rispondevano all’esigenza dei capitali internazionali di trovare nuovi mercati ad alto rendimento e gli stessi piani di salvataggio che seguirono allo scoppio delle bolle generatesi furono impiegati per ripagare i debiti contratti con banche ed istituzioni occidentali.

Le privatizzazioni erano parte integrante di queste prescrizioni e dall’America Latina alla Russia produssero effetti disastrosi sulle rispettive economie. Oggi, come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo, l’Europa sta commettendo gli stessi errori adottando quelle stesse politiche depressive.

Il Portogallo ha messo in vendita tutte le aziende chiave del paese: la gestione aeroporti, la rete elettrica Edp, i cantieri navali, la compagnia aerea di bandiera, la televisione pubblica e le lotterie dello stato. Sono in studio la privatizzazione delle poste e possibilmente del settore bancario ancora in mano pubblica.

In Spagna le privatizzazioni riguardano le telecomunicazioni, la compagnia aerea di bandiera, i porti, gli aeroporti, la modernissima rete di treni ad alta velocità, settori della sanità pubblica, la gestione delle risorse idriche e le lotterie dello stato. Anche la Grecia è stata naturalmente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi pubblici come condizione per l’ottenimento dei fondi europei. In quello che è stato definito come il più grande programma di cessioni pubbliche della storia si ritrovano le società pubbliche del gas e dell’elettricità, le lotterie e le scommesse sul calcio, il sistema di difesa ellenico, la Hellenic Petroleum, il servizio idrico di Atene (EYDAP) e di Thessalonica (EYATH), la compagnia mineraria e metallurgica (LARCO), le poste, le ferrovie, i porti, l’aeroporto di Atene, le autostrade e vari immobili storici e governativi. Una totale spoliazione.

I proventi del programma di privatizzazione sono poi impiegati per la riduzione delle posizioni debitorie che spesso fanno riferimento a quei paesi o banche che beneficiano direttamente delle privatizzazioni. Un esempio indicativo potrebbe essere quanto avvenuto in Brasile nel 1990 quando Citi Group acquistò importanti beni dello Stato nel settore minerario e forestale. I proventi relativi ai beni venduti sono tornati a Citi Group per ridurre il debito in essere, essendo questa la maggiore creditrice estera del paese sud americano.

Sotto gli auspici della commissione europea, che ha finora negato anche la possibilità di scontare gli investimenti per la crescita dal calcolo del deficit, anche l’Italia si appresta a varare un primo piano di dismissioni pubbliche da 10-12 miliardi da destinare per la metà alla riduzione del debito pubblico che a fine settembre è risalito a 2.068,565 miliardi di euro; operazione inutile e controintuitiva che ricorre alla vendita di partecipazioni strategiche e redditizie come Eni, Sace, Grandi Stazioni, Enav, Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed il gasdotto Tag, solo per guadagnare tempo.

Alcuni sottolineano come la burocrazia che governa l’Europa odierna, oltre a rispondere principalmente agli interessi dei paesi forti dell’area con la tendenza a marginalizzare i paesi periferici inclusa l’Italia, sia particolarmente asservita ai grandi potentati economici e finanziari, proseguendo quindi quel processo di estromissione dello Stato dalla gestione dell’economia e di progressiva riduzione della sovranità nazionale in favore di organismi sovranazionali i cui principali referenti sono le stesse multinazionali e lobbies finanziarie.

Sappiamo che il drastico incremento del debito pubblico avvenuto durante la crisi è stato prodotto direttamente o indirettamente dalla socializzazione delle perdite del settore finanziario, effettuata fra l’altro senza imporre una opportuna regolamentazione dello stesso. Le misure di austerità richieste per rientrare nel Fiscal Compact e la costituzione del Fondo Salva Stati andranno inesorabilmente ad accelerare questo shift pubblico-privato, con la nota “ironica” secondo cui i fondi impiegati per il salvataggio del settore bancario potrebbero adesso servire ad acquistare proprietà pubbliche.

L’accettazione incondizionata dello SME prima e dell’Euro poi va considerata come una ulteriore causa del nostro declino economico, dato che con l’eliminazione della funzione armonizzatrice degli aggiustamenti dei cambi l’Italia ha visto di molto ridotta la propria competitività registrando crescenti squilibri commerciali che nel tempo hanno alimentato la sua progressiva deindustrializzazione. Dinamica che ha contraddistinto in generale tutti i paesi più deboli aderenti all’area monetaria (GIIPS) a vantaggio di quelli più efficienti, Germania in primis. D’altronde l’agganciamento ad una valuta forte è sempre stato presagio di problemi economici. Argentina docet.

Il masochismo economico che contraddistingue l’Italia nella gestione della crisi riguarda inoltre l’adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). L’Italia ha contribuito con una quota del 18% ai fondi salva stati europei che, con la partecipazione del Fmi, sono stati destinati a Grecia (240Miliardi), Spagna (41Miliardi), Portogallo (78Miliardi) ed Irlanda (67Miliardi). Questi fondi sono andati principalmente a ridurre la posizione debitoria che questi paesi avevano principalmente verso le banche inglesi, tedesche e francesi. Così che l’Italia, in corrispondenza all’esplosione del proprio debito pubblico, ha già versato 11,4 miliardi e si appresta a versarne altrettanti nel 2014 per piani di salvataggio che alla fine serviranno a finanziare paesi che purtroppo vanno ad oggi considerati i nostri principali competitors.

Il debito pubblico in Italia ammonta ad oltre 2 mila miliardi di euro con una durata media di circa 6 anni e mezzo, detenuto al 4,73% dalla Banca d’Italia, al 45,92% da Banche e Istituzioni finanziarie nazionali, al 14,17% da Privati Italiani e infine al 35,18% da investitori esteri. La quota detenuta da questi ultimi è letteralmente crollata rispetto al 60% del 2008 o al 50% del 2010. L’intervento BCE tramite l’acquisto diretto di titoli pubblici ed indirettamente con l’erogazione di 237 mld di fondi Ltro all’1% alle banche italiane su un piano complessivo di oltre 1000 mld a livello europeo, ha di fatto permesso di assorbire questa fuga dal debito italiano impedendo un default del paese. Le banche italiane hanno investito i fondi nei remunerativi titoli di stato la cui quota di detenzione totale è salita dal 41% del 2010 al 46%, sottraendo però in questo modo risorse a sostegno dell’economia reale.

Questa maggiore porzione interna del debito non riduce tuttavia l’esposizione al ricatto dei mercati e l’Italia rimane schiacciata dal macigno degli interessi che si aggirano intorno al 4-5% e pesano per 5,5 punti di Pil, trasformando l’avanzo primario più alto d’Europa in un deficit che appena riesce a rientrare nei paramenti del 3%. Gli sforzi indirizzati alla riduzione della spesa pubblica e alla cessione di attività strategiche, rischiano di andare in fumo di fronte al perdurare di una condizione di totale vulnerabilità rispetto alla speculazione finanziaria.

Tale condizione fu determinante anche nel 1992 quando, subito dopo l’insediamento del governo Amato, l’Italia fu oggetto di un attacco speculativo che portò alla sua espulsione dal Sistema Monetario Europeo (SME) e che ebbe come elementi salienti il declassamento improvviso di Moody’s e la gigantesca vendita allo scoperto effettuata da Soros, sostenuta dalle banche anglosassoni. La svalutazione del 30% che conseguì alla crisi valutaria permise a quelle stesse banche che avevano sostenuto la manovra speculativa (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Citicorp, JP Morgan e Solomon Brothers) di portare avanti il piano di privatizzazioni a prezzi decisamente scontati.

Se l’introduzione dell’euro ha scongiurato questo tipo di crisi valutarie, oggi la speculazione si rivolge piuttosto ai titoli del debito pubblico, in buona parte in mano straniera, i quali vengono venduti sui mercati provocando un aumento dello spread e mandando potenzialmente in default il paese, a meno che non ci sia l’intervento della Banca Centrale. È stato proprio con queste modalità che il debito italiano è stato preso di mira facendo schizzare lo spread e portando nel novembre del 2011 alle dimissioni di Berlusconi ed all’insediamento del governo dell’ex commissario europeo Monti.

La lettera di Draghi e Trichet recapitata al governo all’inizio di Agosto 2011 indica chiaramente come la Bce era in grado di dettare il passo all’Italia, dietro il ricatto di un non intervento a sostegno dei titoli di debito del Tesoro. Nella lettera si pone inoltre l’accento sulle privatizzazioni, incitando a farle il più rapidamente possibile. Si scopre solo recentemente dalle rivelazioni di Bini Smaghi e dell’influente economista tedesco Hans-Werner Sinn che Silvio Berlusconi aveva avviato trattative in sede europea per uscire dalla moneta unica.

Le privatizzazioni negli anni 90 e l’avvio del processo di deindustrializzazione

Le privatizzazioni degli anni Novanta vennero fatte in un contesto di forte instabilità politica e finanziaria, e sotto la matrice ideologica neoliberista della supremazia del privato sul pubblico. Esse furono motivate con la necessità sia di ridurre il debito pubblico per rientrare nei parametri di Maastricht entro il 1999 e poter accedere all’eurozona, sia di dare nuovo impulso all’imprenditorialità privata, soffocata dall’ingombrante presenza pubblica.

Anche in nome di quello che allora poteva sembrare un intento legittimo, cioè di legare le mani ad una classe politica corrotta, l’Italia rinuncia alla sua sovranità monetaria avviandosi in una fase di declino economico e di graduale deindustrializzazione.

Dal 1992 al 1999, nonostante i massicci piani di privatizzazioni messi in atto apportando alle casse statali oltre 178.000 miliardi di lire (il 12,3% del PIL del 1992), il debito pubblico scese soltanto al 113% del Pil (rispetto al record del 121% del 1994), ben al di sopra della soglia del 60% imposta da Maastricht. Naturalmente l’Italia venne ammessa comunque nell’eurozona. Secondo quanto descritto nel report di Graziella Marzi1 l’Italia si colloca al secondo posto dopo il Giappone tra i Paesi dell’Ocse e al primo a livello europeo per valore di introiti derivanti dalla cessione delle imprese pubbliche. Dal 1994 al 31 dicembre 2003 lo Stato ha ceduto quote di proprietà pubblica per un ammontare di quasi 90 mld di euro, rappresentando il 14% delle privatizzazioni mondiali nel 1997, il 15% nel 1999, il 15% del 2001 ed il 34% del 2003.

Per il raggiungimento di obbiettivi economici di breve periodo lo Stato ha rinunciato a entrate future che buona parte delle aziende vendute avrebbe prodotto assicurando così un aumento del deficit nel lungo periodo. Come scrive Marco Bersani nel libro CatasTroika, il 64,8% delle aziende privatizzate apparteneva ai settori bancario assicurativo e delle telecomunicazioni ed erano finanziariamente remunerative già sotto la gestione pubblica. L’urgenza con cui queste sono state portate avanti ha inoltre massimizzato il vantaggio negoziale dei compratori, spesso stranieri.

Anche l’intento dichiarato di liberalizzare i mercati ed aumentarne la competitività si è rivelato vano, dato che in molti casi il modus operandi è stato il mero trasferimento dei monopoli pubblici a privati. Oltre alla mancata attuazione di significativi investimenti, la qualità dei servizi è generalmente andata peggiorando a fronte di un aumento delle tariffe, come nel settore bancario, delle utilities o delle infrastrutture.

La ritirata dello Stato dall’economia e l’abbandono di una politica industriale che era stata il fulcro di un eccezionale sviluppo nel dopoguerra, è stata una delle principali ragioni del declino dell’Italia da quinta potenza industriale nel mondo a paese marginale dell’UE. Ieri come oggi, l’incombenza di rientrare nei parametri imposti dall’Europa crea la necessità di fare cassa rapidamente, inducendo scelte economiche penalizzanti per il paese e che ne accelerano il declino e la marginalizzazione economica.

Nel rapporto sulla competitività industriale presentato dal commissario UE all’Industria Tajani, si sottolinea come “l’Italia sta vivendo una vera deindustrializzazione, con una perdita di 20 punti percentuali nell’indice di produzione industriale rispetto al 2007″. Negli ultimi anni la lista di eccellenti imprese italiane passate sotto il controllo straniero è tristemente lunga2. In Italia le grandi aziende quotate in borsa valgono 353 miliardi e sono per il 40% in mano a stranieri. L’unico comparto che ancora a stento riesce a tenere alte le sorti del manifatturiero italiano è costituito dal sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali ad alto contenuto tecnologico, che tuttavia si vedono fortemente penalizzate dalle politiche attuate negli ultimi anni, dalla mancanza di credito e da annose questioni mai risolte di carenze infrastrutturali e servizi costosi ed inefficienti.

L’Agenzia per l’Informazione e la Sicurezza Interna (Servizi Segreti) ha messo poi in guardia dal pericolo di acquisizioni estere del know-how delle nostre aziende specialmente nel settore militare, delle nano-tecnologie e dei materiali speciali.

L’Eni merita una menzione speciale in quanto è sempre stata il fiore all’occhiello dell’industria di un paese assolutamente carente di risorse naturali, sviluppando competenze tecniche e geologiche senza pari al mondo. Controllata dallo Stato al 30,3%, occupa 78.000 persone in 90 Paesi, fa un utile netto di 7.7mld e solo l’anno passato ha fatto investimenti tecnici per 12,8mld di euro, con una previsione di investimenti nei prossimi quattro anni da 47 miliardi di euro. Faro della politica estera italiana è stata protagonista di una sempre più stretta integrazione fra Russia ed Italia entrando nel 2007 al 50% come primo socio con Gazprom nel progetto per la costruzione del gasdotto South Stream (successivamente scende al 20% dopo l’ingresso della francese Edf e la tedesca Wintershall con il 15% ciascuno) e cedendo a Gazprom il 50% della quota detenuta da Eni (33,3%) nel consorzio preposto allo sviluppo del giacimento petrolifero libico di Elephant. La eliminazione di Gheddafi e lo scorporo di SNAM (trasporto gas) hanno parzialmente rallentato il passo di questa intesa. Tuttavia il cane a sei zampe brinda ora alla scoperta di gas in Mozambico (la più grande nella storia del Gruppo e possibilmente una delle maggiori in quella dell’industria petrolifera mondiale) che potrebbe rivelarsi una chiave di volta per la penetrazione dei mercati asiatici.

Lo stesso Bonanni della Cisl a proposito della vendita di una quota di Eni, giustifica tale scelta più nell’interesse straniero a comprare piuttosto che in quello italiano a vendere.
Risulta evidente che rinunciando alle proprie eccellenze ed industrie strategiche e continuando più in generale a devitalizzare il paese con decisioni prese da altri, l’Italia si assicura una ulteriore marginalizzazione sul piano internazionale con il rischio di veder aumentata l’ingerenza straniera nelle questioni interne. L’iniquità con la quale è stata gestita la crisi e l’esclusione dell’Italia nei processi decisionali in sede UE sta portando la pancia del paese su posizioni antieuropeiste nette, quando invece sarebbe più opportuno recuperare sovranità politica per gestire una modifica di queste dinamiche, tenendo conto degli interessi nazionali.

Il recupero della sovranità per rilanciare il paese

Riavviare una politica industriale di sviluppo accompagnata da una riforma del sistema monetario/finanziario ed attivare una politica estera multipolare che stringa rapporti sempre più stretti con le nuove potenze emergenti e non sia più appiattita su posizione atlantiste, sembrano due fondamentali punti di partenza per aumentare il “potere contrattuale” del paese Italia.

Mariana Mazzucato nel libro Lo Stato imprenditore sottolinea l’assoluta centralità dell’intervento pubblico nella promozione della innovazione scientifica e tecnologica. Questo è stato all’origine dello sviluppo di settori quali internet, biotecnologie, nanotecnologie, energie rinnovabili e altre radicali innovazioni di prodotto. La tecnologia che per esempio rende i telefoni “smart”, da internet all’algoritmo di google, dal Gps al touch screen, è di fatto il frutto di finanziamenti pubblici diretti o indiretti.

Cina e Germania hanno raggiunto risultati eccellenti nell’ambito delle nanotecnologie e delle energie rinnovabili proprio grazie al ruolo giocato dai rispettivi governi. L’intervento statale è stato determinante nel salvataggio di imprese che poi si sono riprese come General Motors e Chrysler, Volkswagen, Alstom, etc.

L’incapacità di riconoscere il ruolo centrale dello stato nel promuovere sviluppo e innovazione rappresenta una minaccia concreta alla prosperità del paese. Il recupero della sovranità nazionale passa anche per la creazione di una nuova classe dirigente in grado di portare avanti una politica industriale nell’interesse nazionale come quella fatta nel dopoguerra. Allora lo stato deteneva partecipazioni nel settore industriale, bancario, minerario, petrolifero, delle infrastrutture, della meccanica e del tessile, in quello termale e cinematografico. Il modello dello Stato “imprenditore” nasceva con l’instaurazione dell’IRI nel 1933 che rilevò i pacchetti azionari detenuti dalle banche fallite, attuando un piano di risanamento delle imprese dissestate. Anche dopo il fascismo il modello IRI continua, diventando un gruppo fortemente diversificato e lo strumento di modernizzazione del paese.

La Germania moderna per esempio ha offerto maggiori resistenze al dogmatismo liberista ed alle ingerenze straniere, con personalità come Karsten Rohwedder che pagarono con la vita per questo. È riuscita a mantenere un modello di forte sostegno pubblico all’economia e continua, come l’Inghilterra, a promuovere importanti collaborazioni e accordi commerciali con Russia, Cina ed India. Ha tutto il potere necessario in sede europea per mantenere e sollecitare una struttura normativa ed economica a lei favorevole. Di fronte all’evidenza che il 69% delle riserve auree tedesche erano detenute fuori dal paese, la Bundesbank ha deciso di rimpatriare parte di quelle detenute alla New York Federal Reserve Bank, una decisione che è stata definita come l’evento monetario più significativo degli ultimi decenni, dai tempi in cui Charles De Gaulle richiese la conversione dei dollari della Francia in oro3.

Tutte le buone intenzioni relative al rilancio della nostra economia devono pero misurarsi di fronte alla necessità di una riforma monetaria/finanziaria che dia allo Stato i mezzi per attuarlo.

A partire dall’assetto quasi completamente privato del sistema bancario, la condizione italiana è nettamente svantaggiosa. Il controllo pubblico delle banche nei primi anni ’90 era al 74,5%, contro il 61,2% della Germania, ed il 36% della Francia4. Dopo le privatizzazioni la proprietà pubblica nelle banche italiane (e indirettamente nella Banca d’Italia) è stata quasi totalmente annullata mentre Germania e Francia hanno mantenuto rispettivamente nel sistema bancario una quota del 52% e 31%. Alla luce anche della mancata nazionalizzazione del MPS, le implicazioni di questo assetto privato del sistema bancario italiano sono degli oneri sempre più gravosi per lo Stato ed un minore margine di manovra per incentivare lo stimolo dell’economia reale.

Sempre con riferimento ai finanziamenti Ltro all’1% erogati dalla Bce alle banche europee, la Germania a differenza nostra, con oltre la metà del sistema bancario in mani pubbliche, ha potuto beneficiare di questa liquidità a basso costo. Inoltre tutti gli interessi che lo stato paga sui titoli che le banche hanno in pancia, vanno nelle tasche dei privati anziché tornare in parte nelle casse pubbliche.

Il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo, ha prodotto un aumento esorbitante dei costi di finanziamento dello Stato e quindi del debito pubblico. L’economista belga Bernard Lietaer, ex alto funzionario della Banca Centrale belga esperto di sistemi monetari e moneta complementare, indicato dal Business Week nel 1990 come miglior trader al mondo con il suo fondo, spiega come prendendo prestiti dalla propria banca centrale a interessi zero, si potrebbe consentire ad un governo di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. L’esempio è fornito dalla Francia che a seguito della nazionalizzazione della Banca Centrale alla fine della guerra, riuscì ad abbattere il debito pubblico al 21% del Pil permettendo al Ministero del Tesoro di finanziarsi senza interessi dalla Banque de France dal 1946 al 19735. Nel 1973 fu proibita questa pratica e lo Stato poté finanziarsi esclusivamente con il settore privato. Il debito cominciò a salire inesorabilmente fino al 90% circa odierno. La possibilità di rimettere nelle mani dello Stato il diritto di emettere moneta e trasformare le banche in semplici intermediari fa riferimento anche al cosiddetto Chicago Plan, recentemente riportato in auge da un gruppo di analisti del FMI. In controtendenza invece, il recente decreto relativo alla rivalutazione delle quote di Bankitalia a 7.5mld blinda l’assetto privato dell’istituto, aprendo inoltre la strada all’aumento della presenza straniera nel capitale della Banca Centrale, come suggeriscono l’idea dell’imposizione di un tetto massimo del 5% per azionista e della quotazione delle sua azioni.

Sempre Lietaer spiega come l’introduzione di una moneta complementare che coesista insieme all’euro aumenterebbe la flessibilità e la sostenibilità del sistema. La stessa Germania nazista utilizzò l’emissione di obbligazioni di Stato come moneta complementare in coesistenza con il marco per risollevare con successo una economia in ginocchio6 (poi la pratica sfuggì di mano al dittatore ed il banchiere centrale che concepì l’operazione si dimise).

Puntare alla sostenibilità senza una ristrutturazione del nostro sistema monetario e finanziario è un approccio ingenuo e destinato a fallire. La privatizzazione della finanza e della politica monetaria ha prodotto un forte aumento dell’indebitamento pubblico ed ha creato dei mostri finanziari che minano la stabilità dell’economia mondiale. Su 4 trilioni di transazioni giornaliere nel 2010 sui mercati valutari, solamente il 2% si riferiscono al commercio di beni e servizi mentre il resto è speculazione. Circa 600 trilioni è il valore dei derivati in circolazione, 8 volte il Pil mondiale.

Anche la sovranità monetaria e finanziaria non dovrebbe oggi essere più considerata un tabù.


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