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«L’#Italia è della #mafia»: la criminalità colma il vuoto della #politica

Creato il 21 maggio 2015 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Il 12 dicembre scorso, l’edizione internazionale del New York Times riportava in prima pagina un duro commento sulla vicenda Mafia Capitale: «Dall’inchiesta è derivato uno scandalo di proporzioni nazionali e il reminder che praticamente non esiste angolo d’Italia immune dalla penetrazione criminale». In altre parole, secondo il quotidiano statunitense siamo destinati a diventare uno Stato mafia. E non si tratta di un giudizio avventato. Mafia Capitale, ultimo di una lunga serie di scandali politico-economico-mafiosi, ci ricorda quanto la criminalità organizzata pervada il nostro sistema istituzionale a ogni livello, a cominciare da quello locale. Un intreccio, quest’ultimo, che ha radici lontane e sviluppi sempre più allarmanti.

La criminalità organizzata agisce in primo luogo a livello locale. Il controllo di un determinato territorio permette alle famiglie non solo di favorire il proprio giro d’attività illegali, ma anche e soprattutto d’inserirsi e condizionare il giro delle attività economiche legali, come il commercio e gli appalti pubblici. A questo scopo, infiltrare direttamente o condizionare indirettamente un’amministrazione locale costituisce uno strumento importante per stabilire quel controllo del territorio che è funzionale a molte altre attività, legali e illegali, che ingrossano il giro d’affari delle organizzazioni mafiose. I Comuni, d’altra parte, sono l’istituzione più radicata nella storia del nostro Paese in tempi in cui tutte le forze politiche si proclamano federaliste.

Storicamente, il primo caso d’infiltrazioni mafiose di cui si abbia notizia è del 1872, in occasione del rinnovamento del quinto dei consiglieri comunali di Bagheria. Da quel momento, l’intreccio fra mafia e politica è cresciuto nel tempo di pari passo con l’avanzamento del processo d’emancipazione degli enti locali. Ma è con l’avvento della Seconda Repubblica che la mafia ha fatto il salto di qualità, abbandonando la tradizionale funzione ancillare rispetto ai pubblici poteri per passare a un ruolo politico attivo.

La Seconda Repubblica viene ricordata come l’èra dei partiti «leaderistici» e de-ideologizzati, dei talk show, della politica pop. Un’ubriacatura di forma che trasfigura in realtà una penuria di sostanza. Dal 1992, quando la vecchia classe dirigente fu spazzata via dall’inchiesta Mani pulite, dando avvio alla paralisi che preludeva all’attuale declino, la politica non è più stata capace di riorganizzarsi, d’ordinare gli elementi di crisi strutturale, di proporre soluzioni concrete alle sfide poste da un mondo che cambia. Ma la politica non tollera il vuoto. Così, lo spazio di potere è stato progressivamente occupato dall’unico attore efficiente del nostro Paese: la criminalità organizzata. Un corpo invisibile cresciuto al di sotto di quello visibile della nostra società.

In Fuori dal Comune. Lo scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose, il sociologo Vittorio Mete individua quattro elementi che toccano, a vario titolo, il rapporto tra mafia e governo locale: la sicurezza dei cittadini; il peso crescente del settore privato nel campo dei servizi pubblici locali; la disaffezione politica, che ha allontanato i cittadini dalla partecipazione attiva al processo politico; la scarsissima attenzione al fenomeno mafioso in mancanza di fatti di sangue che riempiano le cronache. Tutti aspetti che hanno registrato una rapida impennata proprio negli ultimi vent’anni, proprio mentre la mafia c’illudevamo d’averla sconfitta.

Dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, finita l’èra delle stragi e delle guerre tra cosche, l’opinione pubblica ha erroneamente creduto che il fenomeno mafioso fosse stato ormai ridotto al rango di problema trascurabile. In realtà, a essere ridimensionato è stato il solo apparato militare delle mafie; quello politico-economico, invece, è cresciuto e s’è rafforzato, agevolato dalla crisi degli altri attori, diffondendosi come metastasi lungo tutta la Penisola.

Accanto alle tradizionali attività, a cominciare dal commercio delle droghe, l’egemonia s’è realizzata attraverso l’intensificazione dei rapporti col mondo economico legale e la sempre maggior influenza nel mercato della politica locale. L’ingresso nella finanza e, a vario titolo, in molti settori di business tramite l’imprenditoria privata (gestione dei rifiuti, mercati rionali, ortofrutta) ha permesso alla criminalità d’espandere il proprio giro d’affari nonché di riciclare il denaro illecito mediante investimenti legali (attività produttive, commerciali e pubblici esercizi). Sul piano politico, il controllo del territorio, esercitato non più solo attraverso una fitta rete di relazioni parentali e clientelari, bensì finanziando candidati a tutti i livelli del governo locale, crea e consolida quei rapporti organici con la politica necessari per mantenere l’anomalia di due Stati nello stesso territorio.

Tale anomalia è testimoniata da un dato: dall’introduzione della legge contro le infiltrazioni mafiose negli enti locali(1991) all’aprile 2013, i Comuni in Italia sciolti per mafia sono stati ben 183, di cui uno capoluogo di provincia (Reggio Calabria).

La domanda più ovvia, a questo punto, è perché non siamo riusciti a contrastare la mafia a dovere, prima che assumesse il controllo di un’ampia fetta dei pubblici poteri. Probabilmente perché, contrariamente a quel che si pensa, essa è un fenomeno troppo complesso per essere affrontato e risolto con un’azione repressiva d’imponenti dimensioni.

Nel suo libro testamento Fotti il potere, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga definiva le mafie come «forme di potere assoluto che spesso presuppongono il controllo del territorio e sempre si fondano sull’esibizione di una forza evidentemente superiore a quella dello Stato». «L’Italia», diceva l’ex presidente, «è della mafia. E, purtroppo, sarà sempre così». Dobbiamo rassegnarci a convivere col contropotere mafioso in quanto espressione di un sentimento radicato in alcuni popoli italiani (termine che Cossiga declina sempre al plurale). La mafia, insomma, non ci è e non ci sarà mai estranea. Cossiga guardava con estremo disincanto al «male» della politica, senza cedere ai proclami delle facili speranze d’accatto. Non intendeva legittimare un patto tra criminalità e potere politico; semplicemente considerava la mafia alla stregua di un destino ineluttabile, iscritto nel DNA delle nostre genti. I fatti sembrano aver confermato questa cupa visione.

Falcone diceva: «La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine». Per ora non sembra così, anzi. Mafia Capitale è solo un esempio che ci ricorda che, senza un’adeguata azione di contrasto, non passerà molto prima che la criminalità organizzata guadagni il ruolo di curatore fallimentare di una democrazia ormai in liquidazione.

* Scritto per The Fielder


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