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L’ombra del terrorismo “glocale” sull’industria del turismo

Creato il 19 gennaio 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Redazione

Confermando la tendenza delineatasi al termine del 2015 dopo gli attentati di Parigi, e coerentemente con le nuove strategie dello Stato Islamico (IS) messo in difficoltà dalla perdita significativa di territori tra Siria e, soprattutto, Iraq, l’ultima settimana ha confermato l’aumento della minaccia terroristica a livello globale. Resta allo stesso tempo vero che gli attentati terroristici che hanno colpito diversi Paesi (Egitto, Turchia, Indonesia e Burkina Faso), seppure vadano inscritti in uno scenario internazionale, trovano per lo più radici in contesti di forte instabilità locale.

Egitto

È di tre feriti, due austriaci e uno svedese, il bilancio di un tentativo di attacco avvenuto lo scorso 10 gennaio all’hotel Bella Vista di Hurghada, capitale del governatorato del Mar Rosso e importante meta turistica dello stesso. I due assalitori (tre secondo alcuni testimoni), che avrebbero fatto irruzione nel resort con alcune armi da taglio e presumibilmente con alcune armi da fuoco, sono stati uccisi dalle forze di sicurezza. Nonostante le autorità locali abbiano cercato di sminuire l’episodio, classificandolo come un possibile tentativo di rapina, non è escluso che vi possano essere collegamenti con le branche egiziane dell’IS. L’atto non è stato infatti rivendicato da alcuna sigla, sebbene nell’ultimo triennio – in particolare dopo la destituzione del Presidente Mohammed Mursi – il Paese sia diventato territorio fertile per azioni condotte da gruppi jihadisti non più esclusivamente localizzati nella Penisola del Sinai, dove è attiva fin dal 2011 il Wilayat Sinai (“Provincia Islamica del Sinai”, la maggiore organizzazione jihadista transnazionale nel Paese e già nota come Ansar Bayt al-Maqdis). Dagli attacchi al tempio di Karnak, vicino Luxor, avvenuti lo scorso 9 giugno, tale gruppo ha difatti definito un cambio di strategia del terrore non più incentrata soltanto sugli attentati contro le infrastrutture energetiche e contro le forze di sicurezza locali, ma anche e soprattutto nell’entroterra egiziano verso obiettivi turistici o luoghi storici di alto valore artistico. Si inseriscono in questo contesto gli assalti avvenuti nei pressi delle piramidi di Giza, l’attacco dell’8 gennaio nei confronti di un autobus di turisti israeliani (rivendicato da Wilayat Ard al-Kinana (“Provincia Islamica dell’Egitto”) e, se comprovata la matrice jihadista, l’abbattimento dell’aereo russo A-321 della Metrojet nel Sinai centrale.

Turchia

L’attentato kamikaze avvenuto il 12 gennaio in Piazza Sultanhamet, nell’omonimo quartiere turistico del distretto di Fathi di Istanbul, ha provocato la morte di almeno 10 turisti – la maggioranza dei quali di nazionalità tedesca – e il ferimento di altre 15, di cui alcuni in gravi condizioni. L’attentatore, identificato come Nabil Fadli, un giovane siriano di origini saudite, avrebbe azionato il congegno esplosivo in una delle aree a maggiore densità di visitatori del polo turistico turco (nelle vicinanze dell’Obelisco di Teodosio, a pochi passi dalla Moschea Blu e dal Museo di Hagia Sofia) presumibilmente prima di un controllo dei documenti e di una perquisizione da parte delle forze di sicurezza. Nonostante l’agenzia di stampa turca Anadolu e il quotidiano egiziano al-Youm7 riportino la rivendicazione di un branca locale dell’IS (“Provincia Islamica di Istanbul”) come rappresaglia all’iniziativa turca contro il Califfato in Siria e Iraq, e nonostante siano in corso delle indagini volte ad accertare i collegamenti tra Fadli e la stessa organizzazione di al-Baghdadi, non è ancora chiara la paternità dell’attentato – il secondo ad Istanbul condotto nell’area in questione dopo quello di una donna kamikaze fattasi esplodere in un commissariato di polizia della zona il 6 gennaio 2015 (in quel caso la rivendicazione provenne dal Partito-Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo, DHKP-C). Gruppi della sinistra radicale di ispirazione marxista-leninista, altri gruppi o individui islamisti, così come militanti del Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) – questi ultimi in particolare attivi nei territori sud-orientali del Paese –, si sono infatti resi responsabili di attacchi in passato. Nelle ventiquattro ore successive all’attentato le forze di sicurezza del Bureau di Intelligence di Ankara hanno effettuato operazioni di anti-terrorismo in tutto il Paese (nella stessa capitale, ad İzmir, ad Antalya, a Kilis, a Şanlıurfa, a Mersin e ad Adana), portando all’arresto di 68 uomini (di cui 3 di nazionalità russa) sospettati di essere membri dell’IS. Al tempo stesso il governo di Ankara ha intensificato i bombardamenti contro almeno 500 postazioni dell’IS tra Siria e Iraq, uccidendo, secondo quanto dichiarato dal Primo Ministro Ahmet Davutoğlu, almeno 200 jihadisti. L’attentato, che potrebbe verosimilmente condurre la Turchia a rafforzare i propri legami con gli Stati Uniti e ad assumere un maggior impegno nel contesto siriano nel contrasto allo Stato Islamico, finora ritenuto da molti ambiguo ma indubbiamente coerente con la strategia volta a neutralizzare le rivendicazioni curde e a contrastarne la convergenza politica sul piano nazionale e regionale, rischia di minare ulteriormente la sicurezza turca e di aprire una nuova stagione di scontro/instabilità politica (anche, ma non solo, sul tema del processo di pace con il PKK) parzialmente conclusa dopo l’affermazione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del Presidente Recep Tayyip Erdoğan nel voto del 1° novembre.

Indonesia

Una serie di esplosioni (almeno sei), avvenute il 14 gennaio nel quartiere commerciale e finanziario di Jakarta, nei pressi della centralissima Thamrin Street, hanno provocato la morte di 2 persone (un agente di polizia e un uomo canadese) e il ferimento di altre 17.  L’attacco, condotto da un commando di almeno 5 uomini (3 dei quali uccisi dalle forze di sicurezza indonesiane nel corso di una sparatoria, gli altri 2 fattisi esplodere di fronte ad un posto di blocco della polizia vicino al centro commerciale Sarinah), è stato ufficialmente rivendicato dalla branca indonesiana dell’IS. Sebbene l’Indonesia – il più popoloso Paese a maggioranza musulmana –, sia finora rimasto ai margini delle strategie del Califfato, si stima che tra i 500 e i 700 indonesiani (in particolare membri di Jemaah Islamiyah, JI) abbiano aderito alla causa di al-Baghdadi in Siria (pur mantenendo diretti collegamenti con Jabhat al-Nusra e con gruppi jihadisti del Caucaso e dell’Asia Centrale) e che la stessa organizzazione stia lentamente permeando in un contesto nazionale dove erano già presenti realtà radicali e jihadiste – autrici nell’ultimo decennio di una serie di attentati tra Bali e Jakarta – progressivamente allontanatesi da al-Qaeda per ri-orientarsi parzialmente, appunto, verso l’IS. È il caso in particolare dei Mujahideen Indonesia Timor (MIT), la principale organizzazione terroristica indonesiana guidata da Santoso, il quale lo scorso anno ha giurato fedeltà al Califfato come Abu Bakar Bashir, considerato la mente di JI. Sebbene la penetrazione di IS in Indonesia sembri ancora piuttosto embrionale, il timore delle autorità di Jakarta è quello che, come accaduto negli anni Novanta con i reduci dall’Afghanistan, i possibili jihadisti di ritorno possano rinvigorire le azioni dei gruppi di insorgenza indonesiani, ancora legati ad un’agenda locale piuttosto che a una strategia di terrorismo globale, con tuttavia evidenti ricadute sulla galassia di fazioni jihadiste che, dalle Filippine alla Malesia, interessano tutto il Sud-Est asiatico.

Burkina Faso

È di almeno 29 morti e oltre 30 feriti il bilancio dell’attentato terroristico del 15-16 gennaio contro l’Hotel Splendid di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Un commando armato, formato da almeno 15 uomini (alcuni dei quali neutralizzati dalle forze di sicurezza), avrebbe attaccato anche l’adiacente Cafè Cappuccino, dove ci sarebbero state altre vittime. L’attacco, rivendicato da al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), è stato condotto da membri del battaglione al-Mourabitoun, il nucleo guidato da Mokhtar Belmokhtar – già attivo tra il Mali e il sud dell’Algeria e della Libia –, confermando il trend di penetrazione di quest’ultimo in territori a crescente instabilità politica interna: solo alla fine di dicembre si era infatti insediato in Burkina Faso il nuovo Presidente della Repubblica, Roch Marc Christian Kaboré, dopo il regime di transizione che si era instaurato dopo il golpe che aveva portato nell’ottobre 2014 alla caduta di Blaise Compaorè. Identificando l’attacco come una rappresaglia nei confronti della Francia (che in Burkina Faso mantiene dal 2014 la regia di Operation Barkhane, dispositivo di anti-terrorismo nel Sahel), al-Mourabitoun, in continuità con l’azione in Mali (si vedano in questo senso anche l’attentato del 20 novembre scorso all’Hotel Radisson Blu di Bamako e, prima ancora, quelli dell’8 agosto all’Hotel Le Byblos a Sevare e del 7 marzo al bar-ristorante La Terrasse della capitale), punta non di meno a rafforzarsi come branca di al-Qaeda in tutta l’Africa Occidentale, ponendosi in prospettiva non solo in aperta competizione con i vertici di AQIM stessa ma anche in forte conflittualità con Boko Haram. Quest’ultimo infatti si è di recente affiliato all’IS con il nome di Wilayat Gharb Ifriqiyya (“Provincia Islamica dell’Africa Occidentale”) e tra il nord est della Nigeria e la regione del Lago Ciad (Niger, Ciad, Camerun) aspira a instaurare un Califfato nella fascia sahelo-sahariana. 

Il turismo sotto attacco?

Il comune denominatore degli attentati delle ultime settimane è dunque il target scelto dagli autori, il turismo. Essendo questo un asset strategico, che provvede globalmente a creare più di 277 milioni di posti di lavoro e a produrre un’incidenza del PIL di oltre 7.600 miliardi di dollari (circa 10% del PIL globale), un calo delle presenze straniere e una conseguente riduzione della liquidità rischiano di compromettere o di rallentare in maniera più o meno evidente le singole economie nazionali dei Paesi colpiti. Infatti, secondo il World Tourism Organization, in alcuni Paesi – in particolare quelli dell’area nordafricana e mediorientale – una persistenza della minaccia terroristica potrebbe produrre disdette nelle prenotazioni pari a circa il 40% di arrivi. Al fine di evitare un calo degli arrivi e una fuga di capitali esteri è pertanto necessaria una migliore e diffusa capacità da parte delle singole autorità nazionali di garantire stabilità e sicurezza politica, nonché di tradurre in pratica strategie di prevenzione e di gestione del rischio legato ad attacchi terroristici. Inoltre maggiori investimenti nazionali nella sicurezza del comparto potrebbero aiutare a dare una percezione esterna più positiva, a ridurre i gap comunicativi e ad evitare importanti perdite economiche. Rassicurare i mercati e gli investitori permettendo loro di riportare nuovi capitali nei singoli Paesi interessati dal fenomeno sembra essere perciò l’unica strategia in grado di poter garantire una ripresa del mercato turistico e della sua grande incidenza nelle rispettive economie. 

Photo credits: AFP Photo/Bülent Kiliç

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