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L’UE in Oriente: i limiti di una partnership speciale

Creato il 02 agosto 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Federica Castellana

La recente diffusione del concetto di “Secolo del Pacifico” (introdotto già nel 2002 dallo storico statunitense Warren Cohen) conferma la centralità crescente del grande Oceano nelle dinamiche internazionali attuali, soprattutto della sua sponda asiatica. È qui infatti che si concentrano Paesi in vivace crescita – economica, demografica e urbanistica – e importanti flussi di merci, commodities, materie prime e investimenti: un richiamo innegabile per molti attori della scena globale, impegnati da tempo nell’area con strategie di controllo, avvicinamento, dialogo e contenimento (specie rispetto alla superpotenza cinese).

In questo scenario di “corsa al Pacifico”, come si inserisce l’Unione Europea? L’azione europea nella regione pacifica ha assunto negli anni un’impronta decisamente commerciale e bilaterale. Con la Cina e i Paesi del cosiddetto Sud-Est asiatico, in particolare, l’UE ha costruito una rete di rapporti basata sull’importazione di prodotti a basso costo, la ricerca di nuovi sbocchi per il suo mercato e lo scambio di conoscenze tecnologiche e scientifiche. All’insegna del realismo Bruxelles ha puntato sulla sicurezza di strumenti come i PCA (Partnership and Cooperation Agreements, accordi di cooperazione economica): da un lato sulla politica commerciale, che tende a generare meno contrasti tra gli Stati membri, e dall’altro sulla negoziazione diretta con i singoli Paesi, più snella, circoscritta e gestibile rispetto al complesso processo di definizione necessario per un vasto FTA (Free Trade Agreement, area di libero scambio vera e propria).

Rapporti attuali

Con la Cina – Le relazioni sino-europee sono regolate dall’EU-China Trade and Cooperation Agreement del 1985. Dopo la battuta d’arresto nel dialogo a causa delle vicende di piazza Tienanmen, la grande svolta nei rapporti tra Bruxelles e Pechino si è avuta durante gli anni Novanta, con il completamento della storica trasformazione in senso liberista del sistema economico cinese cominciata da Deng Xiaoping e culminata nel dicembre 2001 con l’ingresso del Paese nel WTO, quando la Cina è stata definita un “partner strategico” per l’UE. In questo periodo l’interesse reciproco è cresciuto di pari passo con i flussi di merci (in prevalenza beni materiali) e ad oggi l’UE è il principale partner commerciale della Cina, con scambi giornalieri che superano il miliardo di euro. In Europa la Cina esporta soprattutto manufatti (abbigliamento, scarpe, articoli di elettronica, giocattoli, oggettistica) e in cambio acquista macchinari industriali, automezzi per il trasporto su strada, aerei e prodotti chimici.

Interscambio commerciale UE-Cina - Fonte: Commissione europea
Interscambio commerciale UE-Cina – Fonte: Commissione europea

Va citato peraltro l’attivismo cinese sul mercato di bond dei Paesi europei piegati dalla crisi del debito sovrano, volto ad evitare il default di partner rilevanti e di conseguenza a preservare legami economici irrinunciabili. A conferma della solidità di tali rapporti, il capitale cinese è sempre più presente in grandi settori chiave d’Europa come le infrastrutture, l’energia, le telecomunicazioni e i trasporti tramite l’acquisto di pacchetti azionari in compagnie private o in corso di privatizzazione (tra le principali: la britannica Heathrow Airport London, le francesi GDF Suez e Eutelsat Communications, la portoghese Energias de Portugal e la greca OLP che gestisce il porto del Pireo).

Dal 2007 sono in corso le trattative per un Accordo di Partnership e Cooperazione (PCA) ex novo, in aggiunta ai 24 Memorandum già esistenti e relativi al dialogo in altrettanti settori tra cui agricoltura, industria, concorrenza, ricerca, energia, istruzione, investimenti e coesione regionale. All’interno dell’UE il Regno Unito preme per una grande area di libero scambio (FTA) mentre la maggior parte degli Stati membri preferisce un approccio più prudente, graduale e specifico. Del resto tra Bruxelles e Pechino persistono ancora tensioni su diverse questioni: anzitutto in ambito economico, con le dispute sulle pratiche cinesi di dumping e contraffazione (attuate soprattutto sui prodotti tessili), sulla tutela dei diritti dei consumatori e di proprietà intellettuale, sulla sicurezza dei materiali adoperati, nonché sull’accesso agli appalti pubblici. Non mancano anche le divergenze sui principali dossier internazionali – Ucraina, Siria, Iraq e i rapporti con la Russia – con una Cina più concentrata su dinamiche ed esigenze di riforma interne e che spesso in fori multilaterali regionali ed internazionali non assume una posizione assertiva di politica estera – sebbene con la presidenza di Xi Jinping tale postura si stai modificando. A questo si aggiungono le riserve politiche di Pechino sulle debolezze di Bruxelles come la mancanza di un’azione esterna coesa ed efficace, la special relationship con Washington e le divisioni tra gli Stati membri in merito all’embargo sulle armi.

Con il Sudest Asiatico – L’Associazione dei Paesi del Sudest Asiatico (ASEAN) è stata fondata nel 1967 e ad oggi conta dieci Stati membri (Thailandia, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia). I contatti con l’Europa sono cominciati già nel 1972, anno in cui l’UE diventò il primo dialogue partner ufficiale dell’ASEAN: entrambi gli attori erano infatti attratti da mercati lontani eppure potenzialmente redditizi in termini di consumatori ed esportazioni. Da allora infatti i rapporti tra le due organizzazioni regionali si sono sviluppati soprattutto nell’ambito commerciale, con l’aumento costante di flussi di investimenti diretti dall’Europa e di manufatti tessili ed elettronici dall’ASEAN. In quarant’anni l’UE è diventata il secondo partner commerciale per l’ASEAN, con un volume di scambi di beni e servizi che si aggira intorno ai 238 miliardi di euro all’anno (+7% su base annua nell’ultima decade). Nel Sud-Est asiatico Bruxelles è il maggior investitore internazionale (13,6 miliardi di euro di FDI all’anno dal 2005), oltre a contribuire regolarmente allo sviluppo economico e alla coesione territoriale stanziando fondi e programmi specifici (170 milioni di euro nell’ultimo bilancio 2014-2020).

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Cronologia dei rapporti tra UE e ASEAN – Fonte: ASEAN (2014)

I tentativi di creare un’area di libero scambio (FTA) tra Unione Europea e ASEAN sono cominciati ufficialmente nel 2007. Tuttavia si sono presto rivelati complessi per i contrasti in materia di brevetti, standard nelle condizioni di lavoro e riconoscimento di titoli e qualifiche, ma anche a causa delle differenze tra gli Stati dell’ASEAN sia nelle performance economiche che nell’interesse reale per il progetto. Resta inoltre aperta la questione spinosa della inclusione della Birmania nell’accordo, sostenuta dall’ASEAN ma ostacolata da Bruxelles in quanto Paese destinatario di sanzioni per le ripetute violazioni di diritti umani. Pertanto, a partire dal 2010, molti membri dell’UE hanno preferito rinunciare all’ambizioso trattato con tutta l’area ASEAN e hanno spinto la Commissione a privilegiare i rapporti con i singoli Paesi asiatici. Gli accordi bilaterali (PCA) vertono principalmente sulla rimozione delle barriere tariffarie e non e sull’agevolazione degli investimenti, a vantaggio dei settori forti dell’UE (elettrodomestici, siderurgia, chimica, meccanica) e dei Paesi ASEAN (agricoltura, gomma, tessile, assemblati elettronici, semiconduttori, circuiti elettrici) e prevedono anche opportunità di cooperazione in tema di istruzione, dogane, ambiente, tecnologie e aiuti umanitari. Ad oggi sono stati stipulati accordi di questo tipo con Singapore e le Filippine. Nel frattempo proseguono i negoziati con Malesia, Thailandia, Vietnam e Indonesia insieme all’intensa frequentazione tra leader regionali e nazionali con viaggi e incontri sia nel Vecchio Continente sia nel Sud-Est asiatico. 

Interscambio commerciale UE-ASEAB - Fonte: Eurostat (2014)
Interscambio commerciale UE-ASEAN (in Bn$) – Fonte: Eurostat (2014)

Nuove strade per il futuro

Nella definizione delle proprie relazioni esterne l’Unione Europea è sicuramente, e comprensibilmente, sensibile ai richiami del Pacifico e alla sua importanza strategica. È altrettanto indubbio, però, che finora non è riuscita a ritagliarsi un profilo ben definito nella regione, specialmente in confronto ad altri grandi competitor (Stati Uniti in primis, ma non solo – si pensi all’attivismo della stessa Cina, del Giappone e della Corea del Sud così come alla oil diplomacy dei Paesi del Golfo e dell’America Latina). Ciò è dovuto in gran parte ai limiti dell’UE in termini di appeal e di incisività e coerenza, amplificati dalla recente crisi economica e istituzionale. Si torna insomma all’annoso problema di una Unione Europea frammentata e in piena crisi di credibilità, che stenta a decollare come interlocutore globale. È sempre più evidente quindi come le difficoltà interne – economiche, politiche e sociali – condizionino negativamente la sua proiezione all’esterno, ovvero quella capacità di trasmettere la preziosa esperienza di integrazione accumulata in 60 anni e di attrarre interesse verso il suo progetto.

Una conferma della scarsa coesione delle mosse europee su temi cruciali quali le infrastrutture e gli investimenti è arrivata proprio di recente. Lo scorso marzo ha suscitato non poche perplessità l’adesione di un gruppo di Stati europei – tra cui Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Spagna e Paesi scandinavi – alla Banca Asiatica d’Investimento sulle Infrastrutture (AIIB, Asian Infrastructure Investment Bank), fondata nel 2014 su proposta di Pechino con lo scopo di finanziare le nuove grandi opere nella regione Asia-Pacifico per mezzo di ingenti investimenti a lungo termine. Perché partecipare all’AIIB – peraltro non come Unione Europea ma distintamente e per motivazioni diverse – e non ampliare il nuovo Piano Juncker, invitando i Paesi asiatici ad aderirvi e dando così un ulteriore impulso alla situazione stagnante degli investimenti in Europa? Prevedibilmente, anche oltreoceano la decisione non ha ricevuto un’accoglienza calorosa. D’altronde la nascita di istituzioni finanziarie a guida cinese come l’AIIB si inserisce tra le numerose istanze di riforma dell’architettura finanziaria globale, in aperto contrasto con il sistema postbellico di Bretton Woods imperniato sul ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e ritenuto inadeguato già dai tempi della crisi finanziaria asiatica del 1997.

Lo stesso metodo “partnership commerciali + bilateralismo” adottato dall’UE, per quanto conosciuto e collaudato, non è detto che porti ai risultati attesi. In tempi di consolidata regionalizzazione, infatti, la scelta di privilegiare l’approccio bilaterale trattando con i singoli Paesi potrebbe rivelarsi modesta, oltre che datata, rispetto a una sperimentazione, più moderna, di accordi di tipo multilaterale.

Nel prossimo futuro, dunque, la vera sfida per l’UE nel Pacifico sarà affiancare alla penetrazione economico-finanziaria un dialogo interregionale più vasto, in termini sia geografici che tematici, e articolato secondo alcune grandi direttrici:

-   proseguire il cammino di cooperazione extra-economica con l’ASEAN, iniziato negli ultimi anni con i primi piani d’azione sui fronti dei diritti umani e dell’istruzione ma anche in materia di ambiente e di assistenza umanitaria in caso di disastri naturali;

-   consolidare l’attività del forum ASEM. La piattaforma Asia-Europe Meeting costituisce dal 1995 un’ulteriore opportunità di confronto tra le due macroregioni, geograficamente più estesa dell’ASEAN dato che è arrivata a comprendere pressoché tutti gli Stati europei e asiatici dall’Atlantico al Pacifico. L’istituzionalizzazione dell’ASEM, già parecchio attivo in materia di summit multilaterali, e dei suoi tre pilastri di dibattito (politica/sicurezza ed economia/istruzione e cultura) rappresenterebbe all’interno dell’area pacifica un’alternativa interessante all’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) che riunisce i Paesi delle due sponde dell’Oceano;

-   rafforzare la presenza e l’azione dell’UE all’estero. Il nuovo sistema di politica estera delineato dal Trattato di Lisbona, sebbene ancora imperniato sul metodo intergovernativo, si basa sull’operato congiunto dell’Alto Rappresentante e del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (EEAS), primo esempio al mondo di apparato diplomatico multinazionale. In questo caso, per incidere stabilmente sulle relazioni a distanza tra Unione Europea e Pacifico andrebbero sfruttate le potenzialità dell’EEAS, più che di Mrs. PESC, tramite l’attività concreta delle Delegazioni UE che ormai affiancano le Ambasciate degli Stati membri e si occupano direttamente dei settori di competenza comunitaria.

Tuttavia, per intraprendere con efficacia la strada del dialogo interregionale l’UE non può prescindere dal superare ogni riluttanza e mettersi in gioco come player importante a livello globale, recuperando la sua dimensione unitaria e quella immagine positiva di integrazione e identificazione regionale che specie negli anni Sessanta e Novanta ha avuto un tale successo da rappresentare un modello per altre aggregazioni internazionali.

* Federica Castellana è OPI Adjunct Fellow

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