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“L’ultima volta che ho messo piede al Giornale di Sicilia”. Un racconto di GIUSEPPE RIZZO

Creato il 31 marzo 2011 da Pupidizuccaro

Questo numero è dedicato alla memoria. Ogni racconto, un ricordo. Pubblichiamo, con il gentile consenso della Navarra Editore, uno dei racconti della rivista. L’autore è lo scrittore e giornalista Giuseppe Rizzo, che già avevamo apprezzato per il suo esordio con “L’invenzione di Palermo”. In poche e fulminanti battute, si condensa il senso di tutte le frustrazioni per inseguire quello che una volta era il mestiere più bello del mondo.

Prima pagina
Metto per la prima volta piede al Giornale di Sicilia un anno e mezzo fa. A gravitare attorno alla redazione siamo una ventina tra biondini collaboratori e pulci con la tosse. Spesso ci chiamano quando gli altri scioperano per il rinnovo del contratto. Durante una di queste serrate nazionali Cicciuzzo Cirrincione, 46 anni, giornalista professionista, contratto a tempo determinato per sostituzione maternità, mi telefona e mi fa:
«Ouh».
«Ouh».
Sono le otto del mattino: mi consola sapere che lo siano anche per lui. Le mattinate sono come l’ulcera: sono democratiche.
«Che fa dormi?»
«No».
«Vieni che ho una cosa che pocopoco ti fa andare in prima».
«Seh».
«Vero ti dico, vieni. Ma però piglia da vicolo del Pallone. All’ingresso ci sono i rivoluzionari della mia minchia».
«Ma in via Lincoln devo venire?»
«Eh, ma che scimunisti? Mai ci sei venuto?»
«Ma mi stai scherzando?»
Ricordo ancora la sua prima telefonata: «Allora, tu vuoi fare il giornalista e a me questa cosa già mi dispiace assai. Ma se insisti. Insisti?»
«Eh».
«Ma ce lo dicesti a tuo padre e a tua madre?»
Un aspirante giornalista insegue la promessa di un articolo in prima pagina, sulla pelle di una intera redazione in sciopero per il rinnovo del contratto, durante il primo e ultimo giorno in cui mette piede al Giornale di Sicilia.
«Che?»
«Che vuoi fare il giornalaro?»
«Bìh, ventiquattr ’anni c’ho!»
«Come lei comanda. Allora, hai un’ora per convincermi che non sei una testa di minchia. Fammi una breve sul perché quei cornutazzi del comune non hanno ancora potato il cipresso dei Giardini Inglesi».
«Va bene».
«Ah».
«Eh».
«Ricordati che tu non sei una minchia di niente. Non ti azzardare a dire in giro che lavori per il giornale, non telefonarmi in redazione e sopratutto stai alla larga da via Lincoln. Questi fitusi del comitato ci stanno rompendo i coglioni troppo assai ultimamente. Sono stato spiegato?»
Non trovo di meglio da dirgli che mi sembra giusto, e lui: «Giusto la minchia!»
Da allora, in ordine, mi sono occupato di: cani randagi, cacche di cani randagi, morsi di cani randagi, iniziative per i cani randagi, iniziative contro i cani randagi. Il tutto a mie spese, e per tre euro lordi a pezzo. Questa cosa della prima pagina mi sembra una malaminchiata costruita ad arte dal capoccia per tirarmi giù dal letto. Epperò.
Il fatto che mi chieda per la prima volta di andare in redazione mi spiccica il sonno dagli occhi e mi fa rotolare in via Lincoln.
All’ingresso ci sono una decina di giornalisti incazzati con cartelli e megafoni e facce di giornalisti incazzati. M’infilo in vicolo del Pallone e salgo dalla scala esterna.
Al secondo piano, una finestra zozza incornicia il faccione sudato di Cicciuzzo. Se mai quest’uomo riuscirà a lasciare qualcosa di sé in questa vita, penso, questo qualcosa sarà una chiazza di sudore. Busso sul vetro per farmi venire ad aprire.
«Ouh, falla lesta, entra e siediti».
Eseguo.
«Ancora là sono?»
«Eh».
«Cornuti».
Aspetto che con lo stesso fazzoletto si soffi il naso e si ripulisca la fronte per chiedergli il motivo della mia convocazione nella Zona Rossa.
«Eh, cosa grossa assai. Nienteniente domani sei in prima pagina».
«Domani i giornali non escono».
«Appunto».
«Appunto che?»
«Appunto che i vitelloni oggi fanno la bella vita, noi domani usciamo e ce la mettiamo nel culo. E indovina chi ce la mette nel culo?»
«Tu?»
«Seh, ma allora tuttecose ti devo spiegare. Tu ce la metti in culo! La storia ce l’hai».
«Che storia?»
Allarga le braccia, dirige l’orchestra immaginaria della sua coglionaggine verso il climax.
Tamburi fiati piatti e poi l’annuncio: «Gi-o-van-ni Su-ca-to».
«Ah, ecco».
Non so chi diavolo sia, Sucato. Ma lui insiste: «Ci siamo capiti che favore ti sta facendo il sottoscritto? No, dico, Sucato: il mago dei soldi di Bagheria».
Non sapendo che dire, non sapendo come dirlo, dico l’unica cosa che in questi casi funziona sempre: dico: «Minchia».
«Novanta righe, apertura cazzuta e finale col botto. Voglio sapere tutto su quel fituso: che minchia ha fatto finora, chi è questa Rosa Mambrino che dice che l’ha nascosto, che c’ha fatto coi piccioli che si è fottuto».
Mi scrive un indirizzo su un pizzino e s’infila le dita nel naso con la stessa naturalezza con cui mi schiaccerebbe un occhio.
«Rosa Mambrino», sussurra.

E io sudo freddo. Rosa abiterebbe in via Rocky Marciano 31, allo Zen. L’ultima volta che io e un fotografo siamo stati da quelle parti, una decina di picciotti in motorino ci hanno avvicinato e quasi ci fracassavano i caschi con dentro le broccole. Uscì anche un Ansa, su quell’aggressione. Il mio nome non c’era.
Il civico che Cicciuzzo mi ha scritto non esiste. Meglio. Rosa Mambrino non esiste – o per lo meno, qui, tra i casermoni schifi e sfasciati e mai finiti di Vittorio Gregotti, 82 anni, genio dell’architettura, quando sentono il suo nome, danno tutti la stessa risposta: alzano la testa: schioccano la lingua sui denti, fanno: «Tz».
Molti mettono in dubbio che pure Giovanni Sucato, 32 anni, avvocato di Pomara, mago dei soldi di Villabate, sia mai esistito. Di sicuro, c’è solo che è morto. Per la precisione: morto ammazzato. Con esattezza: arso vivo. I pentiti sostengono che era un pupo che riciclava i soldi dei malacarne. Le carte che era un diplomato magistrale. La gente dello Zen che era un cornuto di prima categoria. Molti di loro non lo dicono. Lo dicono a mezza lingua: nel culo, dal mago di Villabate, l’hanno preso pure loro.
Con la sua stangata, nei primi anni ‘90, il Mago ha strappato le mutande a mezza Palermo. Iniziò girando i quartieri popolari in cerca di prestiti per affari tipo: l’acquisto di una bananiera in Africa, la vendita di gioielli negli Emirati Arabi, la compravendita di alberghi e grattacieli in Tunisia. Per convincere le persone, ai primi giri di boa, restituì loro le somme prestategli, raddoppiandole. E i fessi: triplicarono. Tanto che ora erano loro a pregarlo di farli entrare nei suoi giri. A questo punto, però, Sucato iniziò a schifare gli spiccioli e prese a proporre investimenti di decine di milioni di lire. Macellari ricottari panellari bancarellari e mortazzi di fame organizzarono delle vere e proprie cordate e gli consegnarono i dindini. Dopodiché, il Mago fece la magia: sparì. E all’ingresso della sua “agenzia” comparve il cartello: “L’avvocato e’ andato a trovare il cavalier Berlusconi”.
Il cavalier Berlusconi ha sempre smentito.
Con la pece nelle vene e questa storia che mi fischia nelle orecchie torno al giornale.
Friggo perché ho buttato al cesso la mattinata, facendomi prendere in giro da mezzo Zen per via delle mie domande su Sucato e Rosa Mambrino.
Salgo da vicolo del Pallone, la finestra è già aperta. Dentro, con Cicciuzzo c’è anche Annalisa Morlino, 35 anni, sposata, cornuta, fedifraga e praticante giornalista.
Ridono.
«Uhé, Giusé, tuttaposto?»
Cicciuzzo continua a pulirsi capoccia naso e collo con lo stesso fazzoletto che aveva questa mattina. Nel farmi la domanda, incolla gli occhi a quelli di Annalisa e gliene schiaccia uno. O hanno appena scopato o devono scopare o tutte e due le cose.
«Allora com’è andata?»
Non rispondo, cerco di capire da dove salterà fuori il tipo che mi avviserà che è tutto uno scherzo. Ma niente. La vacca e il manzo continuano a ridersela.
Vacca: «Glielo dici tu?»
Manzo: «No, diglielo tu che sei più brava».
Vacca: «Finiscila, scemo».
Manzo: «È vero, hai una dote innata per queste cose».
Vacca: «Lo so».
Vorrei dir loro che mi sembrano fantastici, davvero, strepitosi, lasciassero perdere le loro famiglie e scappassero in Olanda Australia Tanzania, si rifugiassero in qualsiasi posto a fare le loro cose turche, vivaddio, senza ammorbarsi la vita con pratiche di divorzio e mantenimenti e finesettimana coi figli. Ma bussano alla porta e nell’ufficio piomba il silenzio. Le sopracciglia di Cicciuzzo quasi gli si staccano dal frontone, mentre Annalisa si porta una mano alla bocca a frenare un «minchia».
«Chi è?», chiede Cicciuzzo.
«Apri cosa fitusa!».
La voce è quella di Salvatore Ferlita, 50 anni, maestro elementare e giornalista professionista, membro del comitato di redazione. Annalisa è terrorizzata. Cicciuzzo le fa cenno di calmarsi con una mano. Poi, rivolto verso la porta: «Che minchia vuoi, Totò?»
«Apri che ti devo infilare un discorso».
«Solo sei?»
«No, con l’esercito sono venuto. Apri!»
«Possiamo parlare anche così».
«Cicciù, ma tu vero fai?»
«Se non c’hai urgenza, fai una cosa, Totò, va scassaci a minchia alla taverna, che io qua devo lavorare».
Annalisa questa volta non fa neanche in tempo a muovere un mignolo che sulla porta si abbatte una grandine di pugni e calci e spallate. Si precipita sotto la scrivania del capo. Cicciuzzo mi guarda e mi fa capire che è meglio se la seguo. Il siparietto di me che gli faccio di no e di lui che minaccia di strangolarmi dura qualche secondo. Poi, un attimo prima che sfondino la porta mi ritrovo anch’io sotto il tavolo.
Annalisa ha la faccia stravolta. Tanti piccoli chicchi di riso rosso sulle guance. Totò e il resto della ciurma sono entrati. Cicciuzzo si alza di scatto e batte un pugno sulla scrivania, proprio all’altezza della mia broccola.
«Che storia è questa?»
«Diccela tu, che storia è, Cicciù».
«Ouh, compagni, i coglioni assai ce li state rompendo ora! Non vi basta che il giornale resta chiuso?»
«Veramente un uccellino ci disse che domani il signor direttore assieme a qualche Giuda lo fa uscire lo stesso, il giornale».
«Non mi risulta».
«Ah, perciò l’uccellino si sbagliò?»
«Io non ne so niente».
A questo punto, s’intromette Nino Carbone, 38 anni, laurea in filosofia, pubblicista, all’occorrenza gelataro nel negozio di mamma e papà: «E qui dentro che ci fai, perché non scendi con noi?»
«No, compagni, il medico mi disse che rivoluzioni non ne posso fare».
«Ah, perciò, pure il medico cornuto c’hai?»
«L’indirizzo me lo diede il glorioso sindacato dei giornalisti. E ora, amunì, levatevi di mezzo».
«Un’ultima cosa, Cicciù – conclude Ferlita – tu lo sai che se domani il giornale esce e ci troviamo la firma di qualche tua scamorza sono minchieamare, vero?»
«Mi pare giusto, compagni. Ma però voi lo sapete che se io ho una storia coi controcoglioni, voi ce la potete solo sucare!»
«Vedremo».
La porta, Totò, se la tira dietro assieme al malumore degli altri giornalisti del Cdr.
Cicciuzzo, invece, crolla sulla sedia e ci fa cenno di uscire.
«Levatevi dalla minchia pure voi».
Annalisa si strofina le ginocchia.
«E il pezzo?», chiede.
Cicciuzzo neanche la guarda.
«Tu mi fai l’apertura, 90 righe, attacco secco su Rosa Mambrino e ricostruzione del caso Sucato. Tu, Giusé, vedi se riesci a trovare qualcuno di quelli che si è fatto inculare all’epoca e chiedigli che ne pensa di tutta ‘sta storia».
«Che storia?»
«Ouh, ma che è oggi? Dove minchia sei stato tutto questo tempo?»
«Allo Zen, a cercare a Rosa Mambrino».
«Seh, e com’è che Annalisa è tornata prima di te con l’intervista già bella e pronta?»
Ho le farfalle negli occhi.
«Ma non doveva essere la mia storia, quella?»
«Annalì, fammi una cortesia, levami a questo cornuto da davanti gli occhi che oggi proprio non è cosa».
Provo a spiegare:
«Capo, io, Rosa Mambrino, lì manco sanno chi è Rosa Mambrino».
Batte di nuovo il pugno sul tavolo.
«Levamelo dalla minchia!»
Annalisa mi afferra per un braccio e mi accompagna alla finestra. Sul pianerottolo resto a guardarla fisso negli occhi.
«Che c’è?», chiede.
Non ho voglia di aprire un simposio su verità e realtà e paraculaggine nel mondo del giornalismo italiano. Una cosa, però, questa qua me la deve dire: «Annalì, ma almeno le minchiate che ti inventi te le pagano bene?»
«Tre volte tanto che a Repubblica».
«A Repubblica non pagano».
Alza le spalle, fa una smorfia di sorriso tendente alla colica e dice: «Appunto».
Me ne scendo per le scale. Un anno e mezzo fa ho messo per l’ultima volta piede al Giornale di Sicilia.

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Scritto da Pupi il 31 marzo 2011 alle 08:55 | Creazioni, Sguardo dal sud. Segui i commenti con il feed RSS 2.0 Qui trovi tutti gli articoli di Pupi Lascia un commento, o un trackback dal tuo sito.


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