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La camera n°4 – Prima parte

Creato il 03 maggio 2015 da Aletonti

I miei nonni iniziarono l’attività nel 1958, quando ancora non si parlava di “riviera romagnola”. All’inizio c’era solo il ristorante e un piano di camere. Negli anni successivi furono aggiunti gli altri tre, uno per volta.
Il nonno tornò tardi dalla guerra, era stato fatto prigioniero in un campo e si temeva che fosse morto o disperso. Anche uno dei suoi fratelli mancava all’appello. Si scoprì in seguito che era davvero deceduto. I suoi resti ci furono restituiti in una cassetta di legno quasi 50 anni dopo, e ci fu anche una breve e commovente cerimonia al cimitero, con il picchetto d’onore ( mio nonno non vi poté assistere perché se ne era già andato a causa di un tumore alla gola).
Ad ogni modo, essere scampati alla guerra non bastava, bisognava trovare il modo di guadagnarsi da vivere nella Romagna di allora, terra di contadini devastata dai bombardamenti e dalle battaglie a ridosso della linea gotica.
Partirono per Roma dove avviarono una trattoria a Trastevere insieme ad un socio. Le cose si misero subito bene, erano gli anni fulgenti di Cinecittà e la trattoria era frequentata dalla gente del cinema e dello spettacolo. Totò era un cliente abituale e spesso il nonno gli consegnava la cena anche a casa. Lo chiamava “il romagnolo”.
Un giorno il nonno compilò la schedina del totocalcio e la consegnò con i soldi necessari ad un tale che lavorava nel locale come cameriere, affinché l’andasse a giocare. Fece 13 e il farabutto scappò con la schedina ma, si seppe poi, morì in disgrazia.
Un po’ per nostalgia e un po’ perché la situazione in Romagna stava iniziando a migliorare, decisero che era il momento di tornare.

Il nonno se ne andò proprio quando aveva iniziato a godersi i frutti del suo lavoro e dei relativi sacrifici. Erano gli anni 80, forse i migliori nella storia della riviera.  Si ammalò e fu deciso di operarlo in Svizzera, a Berna, dove si diceva fossero all’avanguardia nel trattamento e nella cura di certi tipi di tumore. Me lo ricordo con un grande cerotto bianco sotto il mento. Faticava a parlare, non aveva più voce e ogni tanto gli usciva uno schiocco d’aria dalla bocca. Aveva difficoltà a deglutire e poteva ingerire solo cibi liquidi o di tenue consistenza che la nonna gli preparava mettendoci tutta la propria perizia di cuoca. A volte il cibo filtrava nella ferita sotto la lingua (mi avevano spiegato che c’era un vero e proprio “buco”),  e il cerotto si macchiava di verde, giallo o arancione, secondo il colore della minestra, così che quasi ad ogni pasto era costretto a cambiarlo.
Il giorno in cui morì io stavo giocando con alcuni amici nel parcheggio sul retro dell’albergo. Era giugno quindi si era in piena attività. Ci raggiunse un altro amico che viveva nella stessa via e mi chiese come stesse il nonno. Negli ultimi tempi non l’avevo visto spesso e, com’era normale che fosse data la mia età, non mi tenevano aggiornato su ogni sviluppo. Senza rifletterci sopra risposi che, a quanto ne sapevo, stava bene. L’amico ci informò allora che aveva visto l’impresario delle pompe funebri entrare in albergo. Sul momento respinsi la possibilità che potesse essere accaduto l’irreparabile, negai che quel signore potesse essere venuto per il nonno, dopotutto in albergo c’erano molte altre persone… ma fui preso dallo smarrimento. Più tardi i miei genitori informarono me e mio fratello che il nonno era morto e provai una sorta di indignazione nel constatare che quel mio amico aveva avuto ragione. Cosa poteva saperne lui? Era mio nonno e dovevo per forza saperne più io!
Ho un ultimo ricordo nitido di me, mia madre e mio fratello che piangiamo abbracciati nel letto. Ho invece pochi e vaghi ricordi del funerale. Quasi tutti i clienti presenti in albergo vi parteciparono, compresi  alcuni ospiti tedeschi che sicuramente non capirono nulla di quanto detto durante la funzione ma, proprio per questo, sembrarono seguirla più accoratamente. Uno zio rimase a presidio dell’hotel per tutto il tempo delle esequie.
(continua)


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