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La Casa (2013) [Recensione]

Creato il 22 aprile 2013 da Elgraeco @HellGraeco

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A qualche giorno di distanza dalla presa visione, mi sono accorto che è difficile parlare, di nuovo, di questo film.
E, facendolo, evitare di cadere nel fenomeno “sciocca tifoseria italica”, schierandosi per forza pro o contro un remake, quello de La Casa (The Evil Dead, 1981) di Sam Raimi, voluto dallo stesso Raimi, insieme a Bruce Campbell e Robert Tapert.
Mi domando: chi più di loro può avere il diritto di fare ciò che vuole con una loro creatura che, più di trent’anni fa, ha garantito il successo internazionale?
I fan sono un fenomeno brutto, bruttissimo.
L’unica cosa che non so, e che cercando in rete non riesco ad appurare, è se Fede Alvarez, regista di La Casa 2013 (Evil Dead), sia o meno un fan della vecchia trilogia raimiana.
Credo di sì.
E che questa passione per quel vecchio film così bistrattato dai radical dicks attuali, e dai puristi che lo confondono con l’episodio 2, alludendo in continuazione a presunti momenti comici in realtà nel film del 1981 inesistenti, traspaia in questa reinterpretazione.
Fede Alvarez è giovane, classe 1978, due anni in meno di me. Quindi potrei anche azzardare un’affermazione: io a Fede lo capisco, eccome.
So quello che deve aver provato conoscendo Raimi, Tapert, soprattutto stringendo la mano a Bruce Campbell. È un po’ l’apoteosi, per un’infanzia radicata nella uberfigaggine di Ash armato di doppietta e motosega, infestata di demoni nella buia foresta, di ragazze indemoniate con gli occhi bianchi.
È il nostro Paese delle Meraviglie.

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***

Alvarez ha ricevuto un assegno di diciassette milioni di dollari, cinque attori, un cane, un libro avvolto col filo spinato e uno chalet immerso nei boschi.
Quel che si nota dalle primissime immagini è l’irrealtà della messinscena.
Non è un difetto, è la ricchezza del budget a disposizione. Milioni di dollari contro i 375.000 del 1981, quando la troupe non riusciva, letteralmente, a mettere insieme pranzo e cena. Si percepisce subito che lo chalet è immerso in un bosco nebbioso curato all’eccesso per ovviare alla quotidianità, per trasformarlo nel bosco delle fiabe.
C’è lo chalet.
C’è il libro in cantina.
Sono assenti le frecciatine a Wes Craven da parte di Raimi, in quella stessa cantina.
C’è il male nella foresta.
C’è anche lo spiegone iniziale, che racconta di come, nella suddetta cantina, qualcuno abbia già combattuto e vinto, bruciandola, una ragazza indemoniata; decorando poi le travi con carcasse di animali morti.
Un incipit inutile, che conforta lo spettatore scemo.
Ormai non lo fanno che per quello, per non far smarrire l’audience. E se vi state domandando se non stia esagerando un po’… no, non esagero, dal momento che Alvarez, una volta fatta (ri)scoprire la cantina, provvede a incollare, sopra il pilastro dov’è stata bruciata l’indemoniata, qualche fotogramma della stessa in fiamme: per dire che sì, quello è proprio lo stesso pilastro, quella è proprio la stessa casa, e ora toccherà anche ai nuovi ragazzi.
Grazie, ti ringrazio, Fede Alvarez o chi per te, di trattarci come poveri deficienti.

Jane Levy

Jane Levy

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Ma al di là di questo episodio degno del Prof. Arnaldo Spiegoni (cit.), il film si fregia di molti punti di forza. Innanzitutto la protagonista: Jane Levy. Attrice giovanissima e bravissima.
Il suo ruolo è Mia, un misto tra Cheryl e Ash, che dopotutto nel film originale erano fratelli. Due personaggi in uno. Carismatica, isterica, melanconica, fuori di testa.
Adoro la scena in cui supplica il fratello di portarla via da lì, rannicchiata in un angolino del letto. L’adoro.
E sì, forse avete capito che mi piace.
Peccato per il tentativo, non so di chi tra coloro che hanno collaborato alla stesura della sceneggiatura (Alvarez e tutti gli attori coinvolti, tranne Jane Levy), di approfondire i due personaggi principali: Mia (Jane Levy) e David (Shiloh Fernandez), tramite l’inutile aggiunta di un background drammatico che lega i due, la morte dolorosa della madre. E tramite la tossicodipendenza di Mia.
Sì, si trovano allo chalet per tentare, dopo un paio di fallimenti, ancora una volta di sottrarre Mia alla droga.
Puntualizzazioni inutili, dal momento che non creano empatia, perché troncate sul nascere dallo scatenarsi degli eventi splatterosi.
Non è proprio il caso che vi dica di che tipo di eventi stiamo parlando, spero.

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E, forse perché io sono uno dei fan accaniti della prima trilogia, ho sentito la tensione latitare in questo Evil Dead. Storia arcinota, decorata con sfarzo, tanto quanto diciassette milioni di dollari ti consentono di fare, che più di tanto non mi ha colpito, pur ammettendo la qualità dell’impianto scenico.
Mancano, a mio avviso, persino i cosiddetti jump scares, i sobbalzi meccanici.
Remake fedelissimo all’originale, in ogni caso.
Non si concede momenti comici.
Insiste sui dettagli di botole e catene, così cari a Raimi.
Ripropone la scena dello stupro arboreo. Con una presenza inedita e tuttavia riuscendo meno efficace nella resa tensiva e leggermente folle.
Obbedisce a quella che io chiamo la legge Grainger del Sangue nell’Horror:

Andy Grainger, a friend of Bruce Campbell and Sam Raimi, gave them the advice: “Fellas, no matter what you do, keep the blood running down the screen.”

Le obbedisce perché Alvarez inonda letteralmente lo schermo di sangue, fino alla vera e propria esaltazione cromatica, sul finale.
Indulge nello splatter e nel gore: ruggine, sporcizia, metallo e poltiglia.
Peccato che lì, in quella botola, Jane Levy non faccia nessuna paura, pur vestendo gli occhi bianchi. Non quanto ne faceva Cheryl, o chi per lei, i tanti fake shemps (le controfigure truccate come lei), conciati alla bene e meglio, tanto erano lì solo per prendere botte.
Due tipi di cinema diversi.
Oggi vediamo questo, se riusciamo a farcelo piacere.

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