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La confessione di Malcolm McDowell

Creato il 07 dicembre 2014 da Nessuno2001 @nessuno2001
E' cosa nota che, una volta conclusa la lavorazione di Arancia Meccanica, il rapporto idilliaco che si era creato tra Stanley Kubrick e Malcolm McDowell si incrinò irrimediabilmente.
Dopo la morte di Kubrick, McDowell aveva dichiarato in più occasioni di esser rimasto ferito dalla brusca interruzione da parte del regista di un rapporto che, almeno per Malcolm, era diventato una intensa amicizia. L'attore aveva quindi spiegato che i commenti sempre più ingenerosi, quando non decisamente astiosi, che aveva rilasciato negli anni nei confronti di Kubrick erano un modo per stuzzicare il regista e costringerlo ad alzare la cornetta del telefono e chiamarlo – una spiegazione che era suonata sempre un poco debole.
Qualche anno fa, Jan Harlan si era lasciato scappare un'allusione a un particolare episodio spiacevole: senza rivelare il fatto per non voler parlare alla stampa per conto di McDowell, Harlan aveva comunque ammesso che la responsabilità dell'accaduto era da attribuirsi più a Stanley che a Malcolm, in forza della sua posizione dominante: il grande e acclamato regista avrebbe dovuto vincere l'orgoglio per primo e chiamare il semi-esordiente attore per tentare di ricucire lo strappo.
In occasione di una recente intervista a Entertainment Weekly, McDowell si è sentito pronto a raccontare l'accaduto.
Ero abituato a Lindsay Anderson, che era diventato il mio migliore amico [dopo le riprese di If....]. E poi arriva Stanley, gli do assolutamente tutto quel che avevo – davvero tutto – e lui a malapena si fa vivo. Mi sono sentito rifiutato totalmente, come persona. Certo, mi ha chiamato per farmi andare in America a vendere il suo dannato film, però... mi ha fatto davvero male. E' stato uno shock. In effetti, non sono più riuscito a parlargli. Ci sono state anche altre cose, delle quali non ho granché voglia di parlare, ma ecco... diciamo che abbiamo avuto dei problemi. Mi sono sentito completamente tradito. Doveva darmi il 2 e mezzo per cento del film, cosa che non ha mai fatto. Quando mi è stato detto dai capi della Warner Bros., il film era già diventato un successo incredibile, e loro mi dicono "Beh, sei diventato un uomo ricco." E io, "Ah, sì? Perché?" E loro, "Beh, con il due e mezzo per cento che abbiamo girato a Stanley per darlo a te..." Io gli dico, "Non l'ho mai ricevuto." Loro si guardano, ridono, e fanno "Ohhh, tipico di Stanley!" Al che io penso, Mio Dio, ti capita di fare un film del genere solo una volta nella vita, perché avrebbe dovuto fare questo a un giovane attore? Perché? E' una cosa così ingenerosa e scorretta, specie quando ha avuto ogni cazzo di fibra del mio essere." Insomma, questo mi ha ferito così tanto che non sono più riuscito a parlargli.
Alla luce di questo, le parole di fuoco che l'attore aveva confessato a Paul Joyce in chiusura del suo famigerato The Invisible Man assumono tutto un altro – comprensibile – significato.
Un genio? No. No. Michelangelo è un genio. John Ford è un genio, forse. Stanley, secondo me, quel che gli ha impedito di essere un genio è la sua mancanza di umanità, questo suo tirarsi indietro. Brillante, sì. Straordinario, sì. Uno dei grandi, sì. Sì, tutto questo. Ma di fondo, alla fin fine, quando mi chiedono "Come è come persona? Come è come essere umano?" Questo probabilmente è l'esame che non può superare.
Riguardandolo adesso, più che il disprezzo si vede chiarissimo il dolore, e la tristezza.

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