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La connection sino-russa alla prova della crisi ucraina

Creato il 02 aprile 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

cina-russia-ucraina

di Andrea Ferrante

In attesa di capire se l’esito del referendum imposto dalla Duma nella regione di Crimea abbia davvero messo la parola fine alla contesa in Ucraina, appare già chiaro quali sottili e fondamentali implicazioni comporti un’efficace gestione del caos politico ucraino sulla dinamiche della “partnership strategica” sorta tra Mosca e Pechino all’indomani della più grande tragedia del ventesimo Secolo (Putin, sulla disgregazione dell’Unione Sovietica).

Se da parte di Stati Uniti e UE si sono levate reazioni univoche di condanna contro “l’aggressione” della Russia, rea di aver mobilitato le truppe in Crimea e messo in preallarme la  flotta navale di stanza a Sebastopoli – ciò sebbene il Min. Degli Esteri Lavrov abbia  rimarcato come non fossero soldati appartenenti all’Esercito Russo, verosimilmente contractors ingaggiati per disinnescare le obiezioni formali a quella che nei fatti somiglia a un’invasione “silenziosa” –, d’altra parte non poco stupore ha generato la fredda reazione della diplomazia cinese, storicamente molto sensibile al rispetto dei principi della sovranità e della non-interferenza negli affari interni degli Stati. Il Min. degli Esteri Wang Yi, attraverso un portavoce, ha fatto filtrare un certo fastidio per la discussione interna all’ONU circa la possibilità di irrogare sanzioni economiche alla Russia: sin qui nulla di nuovo. Di ben altro peso è invece il commentary apparso su XinhuaNewsAgency, dove viene giudicata comprensibile l’azione di Putin volta a difendere la popolazione russa in Crimea e nocivo l’intervento occidentale nella crisi politica di Kiev, che altro effetto non avrebbe avuto se non quello di polarizzare ulteriormente lo scontro in atto tra le parti. [1] Di lì in poi è stato un susseguirsi di dichiarazioni criptiche, tese a mischiare le carte di una partita molto delicata, che la Cina ha però dimostrato di voler giocare più di quanto non fosse immaginabile in un primo momento, quando alcuni osservatori avevano intercettato un certo “imbarazzo” della leadership cinese in relazione ai tumultuosi avvenimenti dell’Est europeo.

«There are reasons for why the situation in Ukraine is what is today» ha scandito il rappresentante cinese all’ONU, Liu Jiyei, prontamente seguito da un membro dell’entourage di Wang Yi, che nei giorni del dibattito al Palazzo di Vetro sulle possibile sanzioni alla Federazione Russa ha ribadito in modo sibillino: there are reasons for today’s situation in Ukraine. Frasi in fotocopia, dettate dalla necessità di non esporsi in modo evidente e al tempo stesso bilanciare il fermo atteggiamento di condanna di NATO e Unione Europea. D’altra parte, un aperto sostegno alla risoluta azione di Putin non è mai stato nelle intenzioni di una Cina preoccupata non solo dal possibile rifiorire delle istanze nazionalistiche che da sempre affliggono la grande potenza continentale, ma anche dal possibile pregiudizio che l’escalation regionale potrebbe arrecare alla rigorosa applicazione del Bejing Consensus.

Non è passato inosservato ai più il fatto che la Cina abbia realizzato grossi investimenti economici in Ucraina, stimolandone in particolare la produzione agricola; né può essere visto in modo del tutto negativo a Pechino il forte coinvolgimento statunitense nell’area di crisi attuale, utile a disimpegnare parzialmente l’amministrazione Obama dal “Pivot to Asia”, sorta di re-engagement americano nell’area finalizzato a contrastare la crescente influenza regionale della potenza asiatica. In questo senso non traggano in inganno alcune marcate prese di posizione apparse qua e là sulla rappresentativa stampa cinese, peraltro ben equilibrate da altri editoriali molto più prudenti circa la strategia politica più aderente agli interessi geopolitici del Dragone [2]. Si tratta di punti di vista diversi tra loro, nessuno dei quali è un’esatta riproduzione della linea politica prevalente a Pechino, la quale è in fondo un’abile compromesso tra l’esigenza di non validare le mosse di Mosca per la loro intrinseca potenzialità destabilizzante e la volontà di fare scudo rispetto alla percepita minaccia di un’espansione NATO.

Quest’ultimo aspetto è stato debitamente evidenziato dagli organi di informazione cinesi e russi nei giorni che, non a caso, coincidono con il quindicesimo anniversario dei bombardamenti NATO in Jugoslavia. Per diverse ragioni, l’intervento militare NATO riporta alla memoria uno dei punti più bassi della storia recente di quella che fu la grande potenza sovietica, allorché l’amministrazione Clinton diede il là ai 78 giorni di raid aerei su Belgrado, un tempo dominio del Maresciallo Tito e prima ancora “giardino di casa” dell’ex Impero Russo. Yevgeny Primakov, Primo Ministro della Federazione Russa in procinto di iniziare la visita ufficiale negli Stati Uniti, apprese a bordo del volo di Stato diretto a Washington dell’inizio delle operazioni militari dell’Alleanza Atlantica nei Balcani: era il 24 marzo 1999. Un mese dopo, poco più, l’Ambasciata Cinese a Belgrado venne bombardata da Stealth statunitensi, 3 vittime e 20 feriti. Si raggiunsero picchi di tensione massima tra Pechino e Washington, il governo cinese parlò di “atto barbaro”, mentre il Dipartimento di Stato si affrettò a definirlo un “errore” e formulò scuse ufficiali al governo cinese. Ciò non bastò per archiviare un episodio drammatico, che arroventò l’opinione pubblica cinese per settimane e trasformò le piazze in focolai di protesta antiamericani. Se la politica estera di Clinton generò eguale opposizione in Russia e Cina sul finire degli anni Novanta (senza dimenticare che solo pochi anni prima Cina e Stati Uniti avevano dato vita alla “terza crisi degli Stretti” nella contesa per Taiwan) si può ben comprendere che conclusioni simili attorno alla natura “egemonica” dell’unilateralismo statunitense fossero state tratte a Pechino e Mosca.

È sulla base di ciò che si possono avanzare alcune considerazioni utili a comprendere l’evoluzione delle relazione sino-russe nell’ultimo quindicennio.  A ben vedere, infatti, l’idea di realizzare una constructive partnership prende le mosse già a partire dalla metà degli anni Novanta: la storica visita di Jiang Zemin a Mosca nel mese di maggio del 1995 per le celebrazioni dei 50 anni dalla sconfitta del nazismo fu l’occasione per ribadire la sacralità degli accordi sulla definizione dei confini (Sino-Soviet Border Agreement, 1991) e la necessità di ridisegnare gli equilibri dell’ordine mondiale, alterati dall’affermazione della preminenza americana [3].

L’espansione NATO a Est e la percezione dell’Alleanza Atlantica quale testa di ponte statunitense per la penetrazione politica e ideologica in aree un tempo sotto la sfera d’influenza sovietica è senz’altro la grande preoccupazione che ha guidato la politica estera russa dalla fine dell’Unione Sovietica ad oggi, ed è altrettanto chiaro che la Cina si è rivelata un partner funzionale alla necessità di bilanciare la spinta statunitense in virtù di interessi geopolitici vitali da difendere in alcune aree sottoposte alla pressione diplomatica e militare di Washington (Taiwan, Penisola Coreana, Mar Cinese Meridionale). Tuttavia, ambiti comuni di cooperazione hanno contribuito a un rafforzamento della partnership: il contenimento delle forze islamiche nazionaliste in Asia Centrale; il freno alla trasformazione della potenza economica giapponese in “polo attrattivo” nel nord-est asiatico; infine, la volontà cinese di riorganizzare l’industria militare, che ha trovato in Mosca il partner commerciale ideale, trasformatosi ben presto nel primo fornitore di armi della Repubblica Popolare [4]. Ciò senza dimenticare che la connection sino-russa è quanto mai adeguata alle politiche energetiche dei rispettivi Paesi. Più precisamente, le oil politics sono il cuore dell’alleanza strategica ufficializzata dai due giganti asiatici all’alba del terzo millennio.

Il Sino-Russian Treaty of Good Neighbourliness and Friendly Cooperation del 2001 ricomprende gli aspetti richiamati sin qui e, pur non essendo un’alleanza militare, ha portato alla “condivisione” di tecnologie militari, in ciò un chiaro vantaggio per la Marina Militare Cinese nell’ottica di un progressivo ampliamento e ammodernamento orientato da una parte alla difesa degli interessi regionali vitali, dall’altra finalizzato a un sostanziale affrancamento dalla classica visione di “potenza continentale” che il mondo ha della Cina. Nondimeno, il bisogno endemico di risorse di cui la Cina necessita per compiere una rapida ascesa sulla scala globale è stato soddisfatto dalla realizzazione della Eastern Siberia-Pacific Ocean Oil Pipeline, ad opera della compagnia di Stato russa Transneft. In tale contesto di cooperazione e sviluppo, è stato dato il là alla definizione dei compiti di sicurezza delle frontiere e di gestione dei problemi relativi alle minoranze nell’ambito istituzionale del Shanghai Cooperation Organisation (SCO), unitamente ad alcuni Paesi dell’Asia centrale.

È interessante osservare che le relazioni commerciali bilaterali tra Russia e Cina si sono più che quadruplicate dal 2000 ad oggi, senza che l’export cinese abbia drammaticamente lacerato il tessuto economico russo, come avvenuto altrove [5]. In quest’ottica, la partnership commerciale aveva e continua ad avere un significato enorme anche negli anni Dieci del 2000, ma non è mai sganciata dall’aspetto legato alla definizione degli equilibri geopolitici. E questo, inevitabilmente, ci riporta alla questione centrale, che può almeno in parte permetterci di spiegare le movenze cinesi in relazione alla crisi in Ucraina: quale visione del sistema internazionale hanno le due potenze?

Vladimir Putin ha indubbiamente ribaltato le previsioni di un ineluttabile declino cui la Federazione Russa sarebbe stata destinata dopo la fine dell’era sovietica. Colui che ha restituito alla Russia il ruolo di attore centrale nel sistema globale, ha applicato alcuni concetti essenziali di teoria delle relazioni internazionali al mondo contemporaneo: l’instabilità dell’unipolarismo, il ritorno all’equilibrio di potenza, lo status quo come bene in sé. Concetti che il Presidente russo espresse già in occasione della Munich Security Conference del 2007, in quello che poi è passato alla storia come il discorso-manifesto della sua dottrina di politica estera e internazionale [6].

La presa di coscienza del fallimento di quello che è stato definito “Unipolar Moment” è il punto di partenza per riconsiderare l’ordine mondiale: senza peraltro nascondere una certa nostalgia per il bipolarismo che ha segnato la seconda parte del XX Secolo, Putin si spinge a celebrare l’equilibrio di potenza quale grande strumento del “vecchio mondo” ottocentesco – quello del concerto delle potenze – ancora estremamente utile a plasmare il “nuovo mondo”, multipolare, che egli intravede chiaramente nel futuro delle relazioni internazionali.

In un certo senso non deve destare meraviglia se la reazione russa al caos ucraino sia stata tanto risoluta, poiché essa risulta essere assolutamente in linea col pensiero politico dominante nella leadership moscovita. Era stato Putin nel rivolgersi a Bush Jr in occasione del Summit NATO a Bucarest del 2008 a pronunciare le seguenti parole: «You have to understand George, that Ukraine is not even a country. Part of its territory is in Eastern Europe and the greater part was given to us» [7]. In quest’ottica è facile comprendere che il rovesciamento di Yanukhovic – le cui responsabilità negli scontri nella Maidan appaiono ancora oggi tutte da chiarire – sia stato giudicato una chiara minaccia agli interessi vitali della Federazione Russa, non diversamente da quanto accaduto un decennio fa con la “Rivoluzione Arancione” e l’affermazione elettorale di Viktor Yushchenko.

In definitiva, quella che oggi viene sin troppo facilmente etichettata come “la vittoria di Putin” non è nient’altro che un’esortazione a “tenere le posizioni” giunta dal Cremlino, la cui logica conseguenza è stato il ritorno della penisola crimeana sotto il controllo russo. D’altra parte, il rischio più grosso per Mosca è quello di “perdere” l’Ucraina occidentale, vederla scivolare definitivamente nell’area di influenza europea, magari agganciata all’ombrello NATO.

In attesa di capire cosa sarà, basti sapere che è attorno ai destini dell’Ucraina occidentale che si valuterà l’efficacia dell’azione politica della presidenza Putin, non certo sulla tutela della regione di Crimea, né sulla salvaguardia della base russa di Sebastopoli.

Se l’atteggiamento russo ha sin qui generato forti reazioni critiche nel mondo occidentale, lo stesso sdegno e malcontento che hanno animato le cancellerie europee non ha caratterizzato le reazioni ufficiali del governo cinese, come ampiamente illustrato sin qui. L’astensione cinese nel voto del Consiglio di Sicurezza circa la Risoluzione atta ad invalidare il referendum crimeano è coerente con quanto espresso sin qui dalla diplomazia cinese. D’altra parte, il disegno strategico cinese è un incrocio di interessi regionali nei quali spesso il vero competitor è la potenza americana. Su Taiwan la Cina si è da tempo garantita il pieno appoggio di Mosca ed è da sempre in contrasto col “protettore” americano (per quanto oggi pare si stia procedendo verso un ammorbidimento delle rispettive posizioni e a una graduale attenuazione dei toni polemici); su penisola coreana e nucleare di Pyongyang la Russia ha tenuto un atteggiamento piuttosto “distante” e ha partecipato come attore “marginale” ai (defunti) Six Party Talks.

Nello scenario globale, dopo una lunga fase di “attesa” – hide its strenght and bide its time per usare la celebre espressione di Deng Xiaoping – la Cina sembra finalmente decisa a far valere il proprio peso per bilanciare la crescente influenza statunitense nell’Asia-Pacifico. Il 2013 ha rappresentato, in questo senso, una svolta  significativa. La visita ufficiale, la prima in assoluto, compiuta dal Presidente Xi Jingping a Mosca non chiarisce forse quale sia l’orientamento di politica estera della Repubblica Popolare Cinese?

I recenti avvenimenti sembrano suggerire che Cina e Russia pur giocando spesso su due “tavoli” diversi, hanno una simile visione del sistema internazionale contemporaneo. La coesione dell’alleanza strategica tra Mosca e Pechino non pare, dunque, poter essere messa in discussione dal caos andato in onda a Kiev e a Simferopoli, per quanto la leadership del Partito Comunista Cinese si guardi bene dall’elevare il caso ucraino a “modello” di riferimento. I punti di contatto con Mosca e i comuni contrasti con Washington, facilitano una certa fluidità nelle relazioni tra le potenze asiatiche che al momento sembra poter contenere la penetrazione statunitense, sotto forma di schemi di integrazione regionale (Trans Pacific Partnership, la cui “estensione” è oggi a un punto di stallo delle trattative) e di storiche alleanze regionali.

Washington, in definitiva, non può contare su Pechino nella risoluzione della questione ucraina.

Lo schema definito “tripolarity” quarant’anni fa consentì a Nixon di aprire una breccia nel blocco comunista sfruttando la fortissima polemica tra Mosca e Pechino e così mettere in difficoltà il colosso sovietico. Oggi la realtà pare essere ben diversa, sia in virtù delle consolidate relazioni sino-russe sia della percezione diffusa che la Cina rappresenti una sfida agli interessi statunitensi, più che un’occasione. Da par suo Putin ha chiarito, semmai ve ne fosse bisogno, che la Russia non rinuncerà alla difesa dei propri interessi né al ruolo globale che immagina per il proprio Paese.

Prove tecniche di un mondo multipolare.

* Andrea Ferrante è Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Bologna (sede di Forlì)

[1] West should work with, not against, Russia in handling Ukraine crisis: news.xinhuanet.com/english/indepth/2014-03/03/c_133154966.htm

[2] Rispettivamente Global Times, 5/3/2014, Backing Russia is in China interest e Global Times, 22/3/2014, Russia’s path is not suitable for China

[3] Per una ricostruzione esaustiva delle relazioni sino-russe post 1991 si veda Rozman Gilbert, Sino-Russian Relations: Will the strategic partnership endure?

[4] Si veda in proposito report annuali su armyrecognition.com e analisidifesa.it. Cina nel 2013 è primo acquirente di armi al mondo e in quarta posizione per numero di armi e mezzi militari venduti.

[5] Sui flussi commerciali e le politiche energetiche di Cina e Russia nel decennio 1991-2001 si veda interessante tesi di dottorato, Garanina Olga, Russian-Chinese relations: towards an energy partnership, Università di Grenoble

[6] Munich Security Conference, 10/2/2007, Discorso di Vladimir Putin

[7] Frase attribuita a Putin in una conversazione con il Presidente americano G. W. Bush durante il vertice NATO di Bucarest, 2008

Photo credits: Picture-alliance/dpa

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