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LA COSA – O il mito più antico della Storia dell’Uomo

Creato il 03 ottobre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
The_Thing_From_Another_World_01di Riccardo Alberto Quattrini. Còsa, il vocabolario Trecani la definisce il nome più indeterminato e più comprensivo della lingua italiana, col quale si indica, in modo generico, tutto quanto esiste nella realtà o nell’immaginazione, di concreto e astratto. La cosa (The Thing) è anche un film del 1982 diretto da John Carperter, tratto dal racconto horror-fantascientifico La “cosa” da un altro mondo. Con quel termine il pittore francese Goustave Courbert (1819-1877) nel suo “L’origine del mondo” (1866), una sinèddocche  volta alla donna, come simbolo di bellezza, di carnalità, di attrazione, di sensualità, di desiderio, di sogno, di speranza e di passione. Meglio comunque avrebbe fatto a intitolarla L’Origine de l’Homme, cosa biologicamente più sensata, visto che perfino un bambino sa che da quell’orifizio, temuto neanche si trattasse delle gole dell’Ade o desiderato come il giardino dell’Eden, non nascono fiumi, montagne o pesci, e neanche solo donne, ma nientedimeno il genere umano tutto.

Il termine viene dalla parola greca (συκον) sykoni. In Grecia, in alcuni culti agrari primitivi, i sicofanti erano incaricati di “rivelare il fico” (syke): probabilmente questa espressione nasconde simbolicamente un rito di iniziazione ai misteri della fecondità. Successivamente, quando fu proibita l’esportazione dei fichi dall’Attica, per deriderli venivano chiamati sicofanti (“rivelatori del fico”) coloro che denunciavano i contrabbandieri; oggi essa significa: delatore, spia. Anche Aristofane nelle sue commedie, giocando sull’ambivalenza che ne da il frutto, ne fa gran uso. Orazio, che a sua volta aveva ripreso il termine dal greco kùvn – kùn‘w (c*g*a o m**et**ce), come è rintracciabile in Omero (Iliade 6, 344) e in Euripide (Ecuba, scena dell’Esodo). Dunque dal genitivo greco kùn‘w derivò il latino «c**nos» o «c**n*s» di Marziale, Catullo o di Orazio: “Nam fuit ante Helenam c**nus taeterrima belli 
causa, sed ignotis perierunt mortibus illi, 
quos venerem incertam rapientis more ferarum 
viribus editior caedebat ut in grege taurus.” (Perché la femmina, anche prima di Elena, fu sempre causa funesta di guerre; ma ignoti perirono quelli che, per godersi un amore conteso al modo delle fiere, furono uccisi da un rivale più forte, come fa il toro nella mandria.) Dunque diffuso dai romani dopo la venuta e la fondazione della colonia di Minervia Scolacium, 123 a. C., da cui il dialettale “c***u”.

Quindi, in senso traslato, venne usato ab origine per indicare le v**ve delle donne borgesi: sensuali, appetibili, ma anche facili da avere. Infatti il termine: “Si nu c**nu ‘e Borgia”, risalirebbe al tempo del matrimonio di Goffredo Borgia, figlio naturale del papa Alessandro VI, con Sancia, figlia di Alfonso II, che diede in dote il Principato a Goffredo e il titolo di Principe di Squillace (Catanzaro). Goffredo aveva appena dodici anni; Sancia, diciassette.

I giovani sposi presero dimora a Squillace, nel palazzo loro destinato (attuale castello), ritirandosi in una camera segreta, dove era stato loro preparato il letto e dove le donne e le damigelle spogliarono lo sposo e la sposa e li misero insieme a letto, con lo sposo a destra della sposa.

Ma dopo appena un mese dal matrimonio, in Squillace e nel Principato incominciarono a correre delle “voci” sulla correttezza e sulla condotta di Sancia, la quale, ormai donna e con un marito “bambino”, sembra ospitasse nel suo letto “molti” spasimanti e non ultimo il cognato Cesare Borgia. La “diceria” che sembrava ormai concretizzarsi nelle azioni, non sempre discrete, di quella principessa, ancor più perché sembra che l’essere disponibili fosse diventata quasi un’abitudine per molte donne del Principato: belle, corpose e un ‘tantinello’ vogli**e. Ed ecco il termine “u c**nu ‘e Borgia”, era riferito e caratterizzava le «v**ve» vogl***e e facili delle donne del Principato.

Ed ecco che, nei teatri e nelle terme, tra labari, aquile e insegne; fu portato in giro per il mondo dalle legioni romane. Nella Spagna romana, divenne “cog*o”. Che, oltre a indicare “l’organo geni*ale femminile” viene anche usata in senso spregiativo per indicare persona di poca intelligenza. In Francia dove il termine “con” (più moderno “chatte”), indica una persona estremamente stupida e nella sua traslazione anche cosa assolutamente priva di senso. “Oh Barbara Quelle connerie la guerre” (Oh Barbara che stronzata è la guerra) sospira Jacques Prévert in una celebre poesia. Nel IX secolo i vichinghi, uomini provenienti dal nord Europa chiamati anche Normanni, piombarono sul Paese che misero a ferro e fuoco, uccidendo, depredando e razziando, arrivando a devastare Parigi, raggiunta dopo aver risalito la Senna. Poi si stabilirono in una regione sulla Manica che da loro prese il nome di Normandia. I Normanni divennero agricoltori, fondendosi con la popolazione locale, adottarono la religione cristiana e la lingua galloromanza dando così vita a una nuova identità culturale diversa sia da quella degli scandinavi sia da quella dei franchi. Dopo un paio di generazioni, erano divenuti pressoché indistinguibili dai vicini francesi, assimilando via via il sistema feudale francese. Nel 1066, guidati da Guglielmo successivamente chiamato il Conquistatore, attraversarono la Manica e sconfissero i Sassoni nella battaglia di Hastings (14 ottobre), portando la loro lingua. Guglielmo parlava infatti francese, come i suoi successori del resto, basti pensare che un secolo dopo, il suo bisnipote Riccardo Cuor di Leone, ancor oggi onorato dai sudditi di Sua Maestà, in realtà non spiaccicava una parola di inglese ed era gay.([1]) Un gran numero di parole “franche” entrò nel vocabolario quotidiano, così anche il famoso “con” diventa di uso comune, anche se con una leggera storpiatura in “cunt”. Ma “cunt” non si ferma. Nel 1620 quando i Padri Pellegrini primi coloni del Nuovo Mondo a bordo del Mayflower salpato da Plymouth sbarcarono nell’odierno Massachusetts, portarono la lingua inglese, che ben presto si diffuse in tutto il Nord America, compreso il famoso “cunt”. Da secoli, dunque, gli artisti provano a ritrarre la donna celando o mostrandone la femminilità. Botticelli nella sua Nascita di Venere nasconde il pube… Lo nasconde? Goya veste la sua Maja eppure il pube (anche nella versione vestita) è sempre lì… Nella primavera del 1878, un mese prima dell’inaugurazione del Salon, i funzionari delle Belle-Arti escludono Henri Gervex ingiustamente, un suo quadro intitolato Rolla, dalla manifestazione considerandolo immorale. Si pensi alle divinità demoniache e ammalianti di Klimt. In una posizione intermedia, tra rispetto e blasfemia, si pone il più antico tra i contemporanei, Balthus, che dipinge fanciulle ingenue e, insieme, erotiche. Dunque la “cosa” che ha forse una data d’inizio e un dominio culturale, ha per il momento terminato il suo lungo peregrinare iniziato 17 secoli fa a Roma. E chissà quanta altra strada avrà ancora da percorrere.

(1) Cfr. Charmaine Lee studiosa britannica che da anni insegna in Italia. Docente di filologia romanza all’Università di Salerno.

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