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La cura dell'uva.

Creato il 22 novembre 2013 da Enricobo2

La cura dell'uva.
Doveva essere una fissa dovuta alle ristrettezze del la guerra. Sta di fatto che mia mamma ogni tanto tirava fuori la storia: a 'sto bambino bisognerebbe dargli qualche ricostituente. E dire che non ero certo un bimbo patito, anzi sono sempre stato piuttosto grassoccio, un bel  bambino in carne insomma. Sarà però che grassezza fa bellezza, ma lei aveva sempre questa idea che bisognasse pompare qualcosa per via orale, una specie di doping alimentare per meglio mettermi in grado di affrontare le difficoltà della vita. In estate, a Valle San Bartolomeo, con l'orto a disposizione proprio a fianco, non c'erano problemi di verdure a chilometri zero, direbbero oggi i Culdiretti, però sembrava non bastare mai. Così, non so come, un anno venne fuori la storia della cura dell'uva. Chissà dove l'aveva sentita questa storia, forse nel negozio all'inizio della via del Dazio, quello che mi aveva rifilato la cioccolata con la muffa o dal lattaio dove si andava con la bottiglia di vetro in mano a farsela riempire con un mestolone di alluminio (chissà come sarebbe apprezzato dagli odierni babbioni questo risparmio di confezionamento e di odiosa plastika) anche se tutti vociferavano che ogni tanto ci si mescolasse un po' d'acqua per allungarlo un po'. Comunque quell'estate, partì il trip. In cortile c'erano due pergolati, che da quelle parti in dialetto si chiamano topie, per inciso sarà un derivato dell'"arte topiaria", qualcuno lo sa? Quella vicino alla tampa, alias l'immondezzaio per voi puristi della lingua, proprio dietro il gabinetto  (eh già non ci pensavo mica che allora il cesso stava in cortile, piuttosto lontano dalla casa, come le norme dell'igiene e del buon senso prevedevano; col calore estivo, infatti, gli effluvi odorosi non erano certo graditi, anche in quei tempi ruvidi), era una Luglienga, che anche ad agosto rimaneva piuttosto aspra e piccolina. 
Ma si sa che le nostre colline sono poco adatte all'uva da tavola, così ogni tentativo di farmela ingurgitare falliva miseramente. Già ero un bimbo viziato e capriccioso come tutti i figli unici e spesso me le davano vinte purché facessi per tempo i malefici compiti delle vacanze, un libricino odioso che condensava esercizi misti di un po' tutte le materie, che per soprammercato la mia mamma comperava in due copie (diverse tra di loro naturalmente) e che toccava religiosamente riempire un po' per giorno prima di andare a giocare con gli amici e che io avrei volentieri rimandato a fine estate. Così scambiato il dovere col piacere, mi salvavo dall'uva bianca, ma ad un certo punto dell'estate arrivava a maturazione la grande topia del cortile di uva "americana". Qui non c'era salvacondotto. Pare che per ottenere beneficio salutistico, bisognasse mangiarne almeno due grossi grappoli al giorno, uno per ogni fine pasto. Il gusto deciso e diverso di quell'uva mi era particolarmente odioso e la vista di quel gigantesco e sproporzionato agglomerato di acini nel piatto mi metteva subito di malavoglia, ma non c'era pietà, la cura dell'uva, una volta partita doveva essere in ogni caso portata a compimento. Così per tutto il mese di settembre, avevo lì il supplizio che mi aspettava, viola come la morte, nel piatto bianco sbrecciato da un lato, con tutto il suo seguito di micidiali fermentazioni intestinali che mi costringevano a corse frettolose in fondo al cortile dove, chiusa in fretta la porticina malandata che si teneva serrata con uno spago, ero sempre terrorizzato dal cadere giù in quel buco che mi pareva enorme, nero e minaccioso, una promessa cupa di inferno scatologico che mi attendeva malevolo e pronto ad afferrarmi se mi fossi distratto, inghiottendomi nel mare melmoso e fumante. Da allora non sopporto assolutamente l'uva americana. E' sicuramente quella che mi ha fatto alzare la glicemia.
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