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La delocalizzazione come occasione di sviluppo

Creato il 24 febbraio 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Cosimo Perrotta

delocalizzazione
La delocalizzazione è la tendenza delle imprese, soprattutto industriali, dei paesi più sviluppati a trasferirsi in altri paesi. Essa è accentuata dalla globalizzazione (liberalizzazione del commercio internazionale).

Le imprese che si spostano possono farlo per due motivi. La maggior parte va in paesi dove il lavoro è meno protetto (salari più bassi; sicurezza, previdenza e assistenza più deboli); dove anche il consumatore è meno protetto; ci sono facilitazioni fiscali, ed è anche più facile evadere le imposte; l’esportazione dei profitti è più semplice; l’energia è meno cara; ecc. Tutto questo abbassa i costi di produzione. È il caso delle imprese dell’Europa occidentale che vanno verso l’Europa dell’est, in Asia e America Latina; o delle imprese cinesi che vanno in Vietnam (chiamiamola delocalizzazione verso il basso).

Una parte cospicua di imprese, però, emigra per motivi opposti. Va dove trova maggiore efficienza amministrativa, un sistema di imposte più razionale e meno vessatorio, migliori sinergie tecnologiche e culturali. Questo è il caso di imprese dell’Europa meridionale che vanno verso Svizzera, Germania, Olanda, Stati Uniti. Sono soprattutto start-up che usano le nuove tecnologie (informatica, nanotecnologie, robotica, biotech, ecc.). Anche in questo caso si cerca un abbassamento dei costi generali, ma a un livello produttivo ben diverso (delocalizzazione verso l’alto).

Le economie intermedie dell’Europa mediterranea, sono prese in questa tenaglia. Sono poco produttive da entrambi i lati. Hanno un alto costo del lavoro e una bassa efficienza. Da una parte non possono competere con i costi troppo bassi delle economie arretrate. Se anche arrivassero a smantellare del tutto il welfare (abbassando terribilmente il livello di civiltà; come sta già avvenendo), il costo della vita – e quindi il salario minimo – rimarrebbe troppo alto rispetto ai paesi più poveri. D’altra parte queste economie non hanno un contesto culturale e di efficienza amministrativa paragonabile a quello dei paesi più avanzati.

Per di più gran parte dei nuovi investimenti dei paesi intermedi viene fatta direttamente all’estero. Questa è una perdita di posti di lavoro invisibile; che fa meno scalpore della perdita di posti di lavoro già esistenti, ma non è meno dannosa.

La delocalizzazione accelerata quindi sta impoverendo le società intermedie, e rischia di imbarbarirle. Si può bloccare questo processo? Nel breve periodo, no. Lo si può rallentare, rendendo gli effetti meno drammatici, ma il problema viene solo rinviato. La strategia adottata oggi è proprio questa.

Per la delocalizzazione verso il basso, sotto la spinta – più che giusta – dei lavoratori, i governi cercano di convincere le imprese a non chiudere aumentando i finanziamenti pubblici, di vario tipo, a loro favore. Oppure liberalizzando in varie forme il mercato del lavoro. Questi rimedi, per quanto a volte necessari, non sono risolutivi. Essi non possono fermare la tendenza delle imprese a cercare costi minori per non essere espulse dal mercato.

Il risultato è che le vertenze si trascinano per anni, ma non si trova una soluzione definitiva per l’occupazione; si scoraggia l’innovazione delle aziende, che comunque alla fine se ne vanno; non si rende più concorrenziale il mercato del lavoro; e si dissanguano le casse pubbliche. Lo stato impiega in questo modo improduttivo le risorse che dovrebbero servire a risolvere il problema nel periodo medio-lungo. Per la delocalizzazione verso l’alto, l’impotenza dei governi nel breve periodo è ancora maggiore.

Invece, nel lungo periodo il problema si può risolvere. Ma bisogna individuare le cause del fenomeno, e poi avviare un gigantesco piano di riconversione industriale.

Quanto alle cause, i mercati dell’industria manifatturiera tradizionale sono ormai saturi, specie in Occidente. Per questo la concorrenza si fa sempre più accanita e diventa necessario abbassare il più possibile i costi del lavoro. La delocalizzazione è il frutto di un radicale cambiamento nella divisione internazionale del lavoro. L’industria manifatturiera tradizionale si basa sul lavoro elementare; e adesso guida lo sviluppo dei paesi emergenti. Invece i paesi a sviluppo maturo tendono ad aprire nuovi settori di produzione.

Nei paesi intermedi, quindi, si deve convertire gradualmente la produzione verso i beni che soddisfano nuovi bisogni. Bisogna allargare gli investimenti nelle nuove tecnologie, che sono indispensabili per accrescere la produttività. Ma questo richiede un alto livello di istruzione. Bisogna quindi potenziare fortemente la ricerca, l’istruzione di ogni grado, e le reti di informazione.

Nell’immediato è ancora più importante puntare sui beni il cui consumo è legato al territorio e che abbiano alta potenzialità di sviluppo: turismo, risanamento idro-geologico, trasporti pubblici più efficienti, raccolta differenziata e riciclaggio, servizi alla persona. Questi beni infatti non rischiano di essere delocalizzati.

24 / 2 / 2014

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