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La dittatura del presente

Creato il 09 marzo 2014 da Albertocapece

passato-presente-futuroAnna Lombroso per il Simplicissimus

Per carità, non si può parlare di sinistra da tempo, ma certo è paradossale che quell’amalgama indeciso indecifrabile, coagulato solo intorno all’antagonismo ammirato per Berlusconi, abbia scelto per combatterlo il prodotto che gli somiglia di più. Che non potrà superarlo solo perché non ne possiede la geometrica potenza sguaiata ma creativa, il geniaccio maligno ma capace di generare consenso facendo affiorare sensi infami e disonorevoli sepolti per pudore negli italiani, la meschinità affrancata dalla opulenta ricchezza, un sfacciataggine nutrita però da una pratica di venditore e compratore collaudato, una svergognatezza licenziosa, che lo ha fatto con fisiologica naturalezza sconfinare nei territori del crimine, ma che ne fa un douteux personnage di quelli che incantano anche qualche moralista, per un uso consapevole e strumentale dell’ipocrisia come colonna portante del suo edificio culturale fatto della trasformazione dei vizi in virtù a alto contenuto commerciale, della capacità prodigiosa di convertire tutto e tutti in merce.

Ormai lo sappiamo bene, i figli sono peggiori dei padri la cui colpa maggiore è consistita proprio nel permettere a uno così di interpretarli, testimoniare di loro, prestare il suo viso a una “media” italiana, quella maggioranza silenziosa, emancipata fino ad urlare la sua mediocrità che in realtà non era così numerosa ma così influente. Proprio perché qualcuno era salito tanto in alto grazie a loro da affrancare piccole e grandi abiezioni, viltà, indifferenza, delega, ubbidienza.

Oggi il volto prestato ai “giovani” è quello di qualcuno che al servizio di poteri che probabilmente non è nemmeno in grado di identificare, che non conosce e dei quali apprezza i benefici diretti che possono recargli, si vanta della sua superficialità come di una qualità in linea con la mobilità senza direzione, del dinamismo senza indirizzi,  caratterizza l’idea del mondo che si è fatto l’imperialismo finanziario e i suoi stati esecutori. Per sentito dire – nemmeno ha bisogno dei risvolti di copertina dei quei prodotti chiamati libri, che semmai, proprio dovesse, sfoglia in formato elettronico – il suo Walhalla è popolato dai busti e dalle icone più improbabili: Mandela, blogger mediorientali, De Gasperi, gli U2, Walt Disney, Blair, Bartali, Steve Jobs, Guardiola,  Clinton, Gigliola Cinquetti, Dante, La Pira, tutti i pensatori deboli contemporanei all’opera per far sentire forte il niente, per attribuire potenza al movimento, alla velocità regressiva di tre “riforme” in tre mesi, per superare la temibile noia, quella che invece può portare riflessione, pensiero, contemplazione.

La prima volta che ho scritto su questo blog ho scritto di lui, perfetto come candidato tronista dalla De Filippi, in cerca di acchiappo. E gli va dato atto che il trono lo ha conquistato, in mancanza di autentici competitor e grazie a quel culto della giovinezza che connota un paese di vecchi così restii a lasciare il posto che occupano da offrire qualche concessione a uno di loro transitato da shangri-là, travestito da Fonzie, con la tonaca da chierichetto, i pantaloncini da boy scout. E che, come loro, peggio di loro, vive senza futuro e anche per questo lo nega agli altri.

Il vero male del nostro tempo è questo, una specie di invalidità che non ci concede di immaginare, di sognare qualcosa oltre all’effimero ora e adesso. Le politiche nel migliore di casi ipotizzano ricette a breve termine per uscire da un’emergenza a lungo programmata e alimentata, forse l’unica cosa oggetto di un progetto, arma affilatissima per abbattere con le democrazie, la partecipazione dei cittadini alle scelte, i diritti e le certezze, anche la possibilità di desiderare, di costruirsi rappresentazioni del futuro. Weber diceva che chi vuole visioni è meglio che vada al cinema e oggi consiglierebbe il film premio Oscar, tanto per pensare in piccolo, in rinunciataria mediocrità e non rischiare troppo.

Ma non è un male solo nostro, credo che tutto l’Occidente in declino, una geografia di vecchi reali o virtuali,  abbia abdicato a immaginare utopie, tutti vogliono andare altrove rispetto al qui e al lì dove inanellano giorni senza conoscere la trepidazione dell’attesa, la fascinazione impaurita del differente da ora, il turbine del pensare possibile un io diverso in un mondo diverso.

Il distacco che abbiamo aperto come una voragine tra l’immaginario  e la realtà, o meglio la real politik  è  così profondo da paralizzarci, da congelare emozioni e passioni, tanto da considerare una vita altra, senza sfruttamento, ingiustizia  e servitù, un esercizio velleitario, scaduto, fallito, imbarazzante, da nascondere come le vergognose esibizioni del povero scemo del villaggio, per lasciar posto nel migliore dei casi a onorevoli aggiustamenti, profittevoli mercanteggiamenti, compromissori  accordi tra interessi ormai largamente coincidenti, screditando quell’elemento atavico e irrinunciabile, il sogno di una meta evolutiva, che potrebbe poi prodigiosamente coincidere con la felicità


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