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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 7

Creato il 13 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

7. CHE TERMINA A MO’ DI FINALINO CON UNA CAPIGLIATURA NERA

L’autunno passò. L’inverno trascorse tutto intero; ma il mio ricordo non svaniva neppure in un dettaglio, e conosco poche epoche così disastrose nella mia vita, pochi mesi così vuoti come quelli.

Avevo creduto di ricominciare una nuova esistenza, avevo creduto di fissare per lungo tempo, forse per sempre, la mia intimità amorosa e tutto crollava prima delle nozze. Non conservavo nella memoria neppure un’ora di vera unione con quella piccina; no, non un legame, non una cosa compiuta, niente che potesse consolarmi anche con il vano pensiero che, se non l’avevo più, almeno l’avevo avuta e che questa non mi sarebbe stato tolto…

E io l’amavo! Oh! come l’amavo, mio Dio! Ero giunto a credere che lei avesse ragione contro di me e che m’ero comportato da cafone con quella vergine da leggenda. Se la rivedrò mai, mi dicevo, se avessi questa grazia del Cielo, resterò ai suoi piedi, finché mi faccia segno, dovessi aspettare anni. Non le metterei alcuna fretta: comprendo quel che prova. Lei sa di essere d’una condizione in cui si prendono le sue simili come amanti a mese, e non vuole un trattamento inferiore al suo carattere. Vuol mettermi alla prova, essere sicura di me, donarsi e non prestarsi. Sia; sarò secondo il suo desiderio. Ma la rivedrò? E subito mi riprendeva lo sgomento.

La rividi.

Fu una sera, in primavera. Avevo passato qualche ora al teatro del Duca, dove l’immenso Orejón recitava in più ruoli, e uscendo di là, nel silenzio della notte, avevo passeggiato a lungo nell’Alameda spaziosa e deserta.

Ritornavo solo, fumando, per la calle Trajano, quando mi sentii chiamare dolcemente per nome, e un tremito mi prese, poiché avevo riconosciuto la voce.

«Don Mateo!»

Mi voltai: non c’era nessuno. Eppure, non sognavo ancora…

«Concha!» gridai. «Concha! dove sei?»

«¡Chito! volete tacere o no ? Sveglierete la mamma.»

Mi parlava dall’alto d’una finestra con le sbarre, la cui pietra era all’altezza più o meno delle mie spalle. E la vidi, in abito da notte, le due braccia drappeggiate dagli angoli di uno scialle color pulce, appoggiata con i gomiti sul marmo dietro le sbarre di ferro.

«Ebbene! amico mio, è così che m’avete trattata”», continuò a voce bassa.

Ma ero proprio incapace di difendermi…

«Sporgiti», le dissi. «Ancora un po’, mio cuore. Non ti vedo in quest’ombra. Più a sinistra, dove la luna fa luce.»

Lei acconsentì in silenzio e la guardai, con un’ebbrezza assoluta, per un tempo che non posso misurare.

Le dissi ancora:

«Dammi la tua mano.»

Me la tese attraverso le sbarre, e sulle dita, e sul palmo e lungo il braccio nudo e caldo, feci scorrere le mie labbra… Ero pazzo. Non potevo crederci. Era la sua pelle, la sua carne, il suo odore; era lei tutta intera che tenevo là sotto il mio bacio, dopo tante notti d’insonnia!

Le dissi ancora:

«Dammi la tua bocca.»

Ma lei scosse la testa e ritirò la mano.

«Più tardi.»

Oh! quella parola! quante volte l’avevo già sentita, e tornava, sin dal primo incontro, come una barriera tra noi!

La incalzai di domande. Che aveva fatto? Perché quella partenza precipitosa? Se m’avesse parlato, avrei obbedito. Ma partire così, dopo una semplice lettera e così crudelmente!

Mi rispose:

«È colpa vostra.»

Ne convenni. Cosa non avrei confessato! E tacevo.

Eppure volevo sapere. Cos’era diventata dopo così tanti mesi? Da dove veniva? Da quando stava in quella casa con le inferriate?

«All’inizio siamo andate a Madrid, poi a Carabanchel, dove abbiamo dei parenti. Da lì, siamo tornate qui, e eccomi.»

«Occupate tutta l’abitazione?»

«Sì. Non è grande, ma è anche troppo per noi.»

«E come avete potuto affittarla?»

«Grazie a voi. Mamma risparmiava su tutto quello che le davate.»

«Non durerà a lungo…»

«Abbiamo ancora di che vivere qui onestamente per un mese.»

«E dopo?»

«Dopo? Credete seriamente, amico mio, che non avrei scrupoli?»

Non risposi niente, ma l’avrei uccisa con tutto il mio cuore.

Riprese:

«Voi non mi capite. Se volessi restare qui, saprei come fare; ma chi vi dice che ci tenga tanto? L’anno scorso, ho dormito per tre settimane sotto il baluardo della Macarena. Abitavo là, per terra, quasi all’angolo di rue San-Luis, sapete, là dove sta il sereno [1]; è un brav’uomo: non avrebbe permesso che mi si avvicinassero durante il mio sonno e non m’è successo mai niente, a parte qualche battuta. Posso ritornare là domani, conosco il mio ciuffo d’erba: non ci si sta male, credetemi. Il giorno, lavorerei alla Fábrica o altrove. Saprò vendere le banane, no? So fare un scialle a maglia, intrecciare dei pompon per gonne, comporre un bouquet, danzare il flamenco e la sevillana. Su, don Mateo, me la saprò cavare!»

Mi parlava a voce bassa eppure sentivo risuonare ogni sua parola come se fossero dette sul Sinai nella via vuota e piena di luna. L’ascoltavo meno che non guardassi muovere la linea doppia delle sue labbra. La sua voce tintinnava in un mormorio chiaro come uno scampanio dei conventi.

Sempre sui gomiti, la mano destra affondata nei suoi capelli pesanti e la testa sostenuta dalle dita, riprese con un sospiro:

«Mateo, sarò vostra amante dopodomani.»

Tremavo:

«Non siete sincera.»

«Io vi dico di sì.»

«Allora perché così tardi, vita mia? Se tu acconsenti, se tu m’ami…»

«Vi ho sempre amato.»

« …Perché non adesso? Vedi come le sbarre sono scostate dal muro. Tra esse e la finestra, passerei…»

«Vi passerete domenica sera. Oggi, sono più nera di peccati di una gitana; non voglio diventare donna in questo stato di dannazione: mio figlio sarebbe maledetto, se rimanessi incinta di voi. Domani, dirò al mio confessore tutto ciò che ho fatto da otto giorni e anche quel che farò fra le vostre braccia perché mi assolva in anticipo: è più sicuro. Domenica mattina, mi comunicherò alla messa grande e quando avrò nel mio seno il corpo di Nostro Signore, gli chiederò d’esser felice la sera e amata il resto della mia vita. Così sia!»

Sì, lo so bene. è una religione molto particolare; le nostre donne di Spagna non ne conoscono altra. Credono fermamente che il Cielo abbia delle indulgenze inesauribili per le amanti che vanno alla messa, e che, alla bisogna, le favorisca, custodisca i loro letti, esalti i loro fianchi perché non dimentichino di raccontargli i loro cari segreti. E se anche avessero ragione! quante castità piangerebbero, durante la vita eterna, una vita terrestre insignificante.

«Andiamo», riprese Concha, «lasciatemi, Mateo. Vedete bene che la mia camera è vuota. Non siate né impaziente, né geloso per causa mia. Mi troverete là, mio amante, domenica sera, a notte fonda; ma prima mi prometterete che non ne parlerete mai a mia madre, e che al mattino ve ne andrete prima dell’ora in cui si sveglia. Non è che io abbia paura d’esser vista: sono padrona di me, lo sapete; cosicché non ho bisogno dei suoi consigli, né per voi, né contro di voi. Lo giurate?»

«Come ti piace.»

«Bene. Siate legato da questo.»

E rovesciando la testa fece scivolare tra le sbarre tutti i capelli come un ruscello di profumi. Li presi tra le mie mani, li premetti sulla mia bocca, mi bagnai il viso nella loro onda nera e calda…

Poi mi scapparono dalle dita e lei chiuse la finestra sonora.


[1] Guardia notturna



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