Magazine Diario personale

La felicità è un Altrove

Da Perla
"Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l’istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata. Se le sarebbe portate dietro per sempre. Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più.
E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand’è troppo tardi. E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quell’immagine, da quel suono, da quell’odore.
Alla deriva" (*).

Pose il libro sul pavimento, tirò giù le maniche della maglia, abbracciando successivamente le sue gambe, raggomitolandosi, e poggiando la testa sulle sue ginocchia. Quelle parole avevano portato in superfice pensieri che pensava sopiti, coperti dalla polvere del tempo, avevano creato una crepa nel muro del cinismo che si era autoimposto, e questo fece si che si rompessero gli argini di tutte quelle emozioni troppo a lungo tacitate, sospinte a forza in fondo all'anima, e le lacrime fluirono come un fiume in piena, che raccoglie gli acquazzoni di agosto, dopo la secca estiva
Pianse. Pianse tutta la nostalgia e il rimpianto per troppo tempo rimossi.
Pianse a singulti profondi che le scuotevano le spalle. Pianse per quell'amore perduto ai confini della sua giovinezza, quando impegnata nella costruzione della sua identità, aveva confuso il corpo e la mente, provando sensazioni che le avevano incendiato i pensieri ma non avevano svegliato quel fuoco primordiale che ha sede nelle viscere del corpo.
Aveva sovrapposto identità ed alterità, in un gioco crudele di scambio e di riserve, negando la sua appartenenza a quel gruppo di adolescenti che, con la sua stessa identica fatica, delineavano i tratti di un'età incerta e difficile, stritolati tra la voglia di autonomia e la consapevolezza di non averla.
Pianse fino a estinguere le lacrime, pianse fino a quando il suo pianto non diventò un lamento lieve, sussurrato, e le lacrime non diventarono stille di riflessione.
L'amore troppo spesso viene scambiato con il bisogno di essere amati e per soddisfare questo bisogno, si tenta in tutti i modi di piacere e questo determina uno sforzo titanico così avulso dalla "normalità" che può arrivare a distruggere un atto creativo sì tanto dinamico e stimolante, fino a farlo diventare una gabbia.
Invece l'amore - lo aveva sperimentato - è un qualcosa di molto diverso, l'amore è un fluire naturale come un placido fiume nel suo letto; l'amore non soltanto è sentimento, è anche scelta continua e impegno costante. . E' struggente rinuncia, in alcuni casi.
E' un orizzonte in divenire, statico nel suo incessante movimento, è un Oltre da scoprire e velare, inseguire ed abbandonare, in una incessante, ondivaga, staticità.
Un orizzonte lontano nel tempo, nella mente, nei pensieri; lontano ma strordinariamente vicino, a suggellare la sua fuggevole unicità, un orizzonte da tenere stretto tra me lani, senza per questo trattenere alcunchè del sogno veicolato, atteso, cercato.
Il rombo fragoroso di aerei che volavano bassi, proprio sopra la sua testa, coprì per un istante il rumore assordante dei suoi pensieri. Alzò gli occhi al cielo e riuscì a scorgere un pilota, chiuso nel suo abitacolo. Gli sorrise, le sembrò che lui la guardasse.
Gabriella non aveva perso la sua attitudine a fantasticare sulle cose che la circondavano: che fosse - come in questo caso - una squadriglia di aerei in assetto di volo, o una foglia che staccandosi dall'albero le si posava addosso.
Il pilota dell'aereo diede il segnale di ok e così l'intera squadra virò in tutt'altra direzione.
Nessuno capiva il perché di quell'ordine arrivato all'improvviso, nessuno poteva conoscere il tormento dell'uomo, diviso a metà tra la coerenza personale e il ricatto cui era sottoposto.
Non aveva fiatato, non aveva detto niente a nessuno, ma negli occhi aveva ancora l'immagine della sua bambina, cui le maglie della catena che la imprigionavano, avevano procurato un taglio profondo sulle braccia.
Gli aerei sorvolarono l'edificio, l'aereo di testa diede il segnale di proseguire al resto del gruppo mentre lui, virando, tornava indietro. Doveva fare quelle maledette fotografie.
Ma perché proprio io???
Paolo amava il suo lavoro quasi quanto amava sua figlia, l'unica ragione di vita che gli era rimasta, da quando Melania se ne era andata via. Dove, con chi, non lo aveva mai saputo e nemmeno gli importava più di saperlo.
Era da quasi due anni che si divideva tra il suo lavoro e quella bimba melanconica, introversa, che fantasticava su tutto e che sembrava non soffrire per la mancanza della figura materna. Erano stati due anni difficili, non ce l'avrebbe fatta senza l'aiuto di sua madre, senza la sua presenza costante.
Poi, due giorni prima di quel volo, una telefonata fredda, una voce metallica, gli intimava di fotografare quell'edificio a distanza ravvicinata. Se non l'avesse fatto, gli avevano detto, avrebbe potuto dire addio a sua figlia.

Il rumore piovuto dal cielo aveva svegliato anche il gatto, che sonnecchiava sulla poltrona accanto alla finestra. Dopo essersi stiracchiato, con passo felpato si avvicinò alla ciotola e miagolò, trovandola vuota.
Mentre versava i croccantini sorrise amaramente: ecco, questa è tutta la mia vita, io e il gatto, il gatto ed io.
Era un amore autentico il loro, un do ut des disinteressato ma allo stesso tempo indispensabile: lei lo nutriva, lo curava; il gatto ricambiava le sue attenzioni e soddisfaceva il suo senso materno: insieme erano una famiglia. Quella famiglia che non aveva mai avuto se non in un Altrove fantastico ed immaginario. Uno spettro. Uno spettro allo stesso tempo visibile e invisibile, allo stesso tempo fenomenico e non fenomenico, che aveva segnato il suo presente con la sua assenza.
- fine prima parte -
(*) Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia

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