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La finestra sul porcile: Walk The Line

Creato il 26 marzo 2014 da Cicciorusso

Walk-the-lineAscolti bene cosa le dico, è questo che la gente vuole ascoltare, queste sono le canzoni che veramente salvano le persone e non hanno niente a che vedere con la fede in Dio, mio caro Cash, qui si tratta di avere fede in sé stessi.

In queste parole l’intuizione di Sam Phillips, il responsabile della Sun Records, di dover far leva sulla vera motivazione di un Johnny Cash passato lì per quello studio di registrazione quasi per caso, convinto di voler fare qualcosa ma non ancora ben consapevole di cosa. Walk The Line, tradotto per il mercato italiano in Quando l’amore brucia, non è semplicemente un film ispirato alla vita di un artista, non è solo una storia d’amore, è gran parte di ciò che dovete sapere sul conto di Johnny Cash. Allo stesso tempo non è una cronistoria pedissequa delle vicende personali del musicista ma una equilibratissima fotografia delle sue diverse anime: il santo e il peccatore. Ciò che, ovviamente, rende avvincente e accattivante il film è la scelta di regista e sceneggiatore di aver focalizzato tutta la narrazione proprio sul secondo aspetto. È il Cash squinternato, drogato, frenetico, affamato di successo, quello che viene fuori con maggiore evidenza. Del resto, il periodo raccontato, che va dalla vicenda dell’incidente al fratello, morto nella segheria dove lavoravano entrambi da piccoli, al concerto nella prigione di Folsom, è il periodo della carriera folgorante e inattesa e degli eccessi. Pur essendo co-prodotto da John Carter Cash (lo si vede in un cameo in cui impersona Bob Neal, il produttore di Elvis e in seguito manager del nostro), figlio avuto da June Carter, sua seconda moglie e a sua volta personaggio molto significativo nella vita artistica di Cash, e pur essendo tratto dalle autobiografie Man in Black e Cash: An Autobiography, il film ha il grande merito di non cadere né nel pietismo né nella facile apologia. Nulla è bianco/nero e tutto estremamente umano, quindi sfumato e realistico. Le fasi più squallide del Cash drogato sono rappresentate con la giusta durezza, senza velleità di condanna o di assoluzione ; la frenesia delle serate in tour con Jerry Lewis, Perkins ed Elvis è palpabile, è una elettricità nell’aria che si avverte da subito e non c’è mai un tentativo volto a sottolineare l’importanza storica del momento, mai che venga sbattuto in faccia allo spettatore la portata del mito. Walk The Line non è una americanata.

Johnny-Cash
La scelta di voler limitare la narrazione ai primi anni di carriera, che sarà pure stata fatta a tavolino, è sufficiente a farci avvertire quale mostruoso artista sia stato Cash. È un bene sia per l’economia del film che del personaggio non aver affrontato gli anni ’80 perché in quegli anni veramente bui al fallimento dell’uomo rispetto ai dettami della società, avido consumatore di anfetamine e marito inesistente, si sostituisce il fallimento dell’artista tout-court. Dal primo fallimento ci si può salvare grazie alla musica, il secondo è la conseguenza di un’interpretazione errata della musica stessa. Ciò che non è stato raccontato è, dunque, l’odiosa e strumentale elevazione dell’artista a simbolo nazionale nella sua fase di passione religiosa e, quindi, di maggiore debolezza interiore. Qui si tratta di avere fede in sé stessi, diceva Phillips. Invece, ottenuta la fama e l’amore della vita (l’unione con June), liberatosi quasi del tutto dalla droga, Cash sarà ancora più tormentato di prima, di quando viveva una situazione familiare insoddisfacente, quando il successo era una conquista quotidiana e quando, per sostenere fisicamente dei tour interminabili, la droga era l’unico aiuto per arrivare a fine giornata. Passeranno anni dedicati a produrre album ispirati a questo o a quest’altro santo, alle comparsate in tv a parlare di Gesù Cristo, Mosè e Giovanni Battista, ai dischi di Natale e a tutte le altre puttanate sull’essere un cristiano rinato, il messaggio di Dio etc. E ancora peggio, gli anni ’80 per JR sono stati massacranti soprattutto da un punto di vista strettamente artistico perché fino a quel momento il folk rocker non aveva ancora sperimentato la totale estraneità da un mercato del disco ormai proiettato verso mondi incomprensibili e anni luce distanti dai suoi lavori. Cash aveva già conosciuto il degrado (la pubblica gogna in seguito all’arresto alla dogana di El Paso per aver introdotto droga negli Stati Uniti e la voglia di farla finita quando decide di perdersi e lasciarsi morire nelle cave di Nickajack) ma non l’umiliazione dell’indifferenza. Prende le distanze da ciò che è stato fino a quel momento cioè un musicista a metà tra il country-rock e il gospel, tra l’Inferno e il Paradiso, il drogato che cantava il Signore. Col blues si raccontava un fallimento da cui era possibile uscire con le proprie gambe. Il gospel era come il voler tendere la mano, esonerandosi da ogni responsabilità e affidandosi alle gambe di qualcun altro. La fede, e non la droga, è stato il vero nemico personale di Johnny Cash. Eppure ce lo vogliono descrivere come un uomo finalmente felice, appagato e soddisfatto, sebbene basti avere un minimo di sensibilità, ascoltare la produzione di quel periodo (che qui e là mostra anche disperati tentativi di ripresa, come il disco che dà il nome al film) e confrontarla coi successi degli anni precedenti per capire che no, non può essere quello il frutto del lavoro di un uomo che ha trovato la sua dimensione finale. Questi anni di oblio, trascorsi tra i duetti con la moglie, i concerti che diventano momenti di proselitismo religioso e gli inevitabili riavvicinamenti alla droga, hanno una fine solo con l’avvicendarsi del nuovo decennio. Johnny, per vicende che sarebbe troppo lunga raccontare, torna alla ribalta del circuito mainstream, farà duetti con personaggi all’epoca molto più famosi di lui. Il merito di questa resurrezione è da attribuire per la maggior parte a Rick Rubin e alle ‘registrazioni americane’. Ecco, tra le tante cose buone che ha fatto Rubin, se c’è n’è una che si può dire possa davvero riassumere il senso di una vita intera è proprio l’aver riabilitato Johnny Cash prima che fosse troppo tardi, prima che la comunità country americana se ne appropriasse, e di avercelo consegnato alla memoria semplicemente come una voce e una chitarra nera, ancora grandioso e giustamente tributato di questa grandezza, al punto che dopo il suo passaggio a miglior vita si è reso necessario che si facesse anche un film come questo. Di conseguenza, quell’aura di grandezza, così faticosamente tracciata verso la fine, nel film non viene intaccata.

Johnny-Cash-nuovo-album-inedito
Tra i membri del cast, Reese Witherspoon, che interpreta June Carter, è colei che ha raccolto maggiori riconoscimenti e vinto più premi ma il vero fuoriclasse qui è Joaquin Phoenix. L’attore portoricano, che aveva già dimostrato le sue abilità al grande pubblico impersonando il pusillanime Commodo, unico ruolo un po’ più interessante in un mega blockbuster delle dimensioni de Il Gladiatore, era perfetto per vestire i panni di JR per via di quella sua aria da soggetto complessato (che poi esprimerà al massimo grado nel mockumentary I’m Still Here). Personalmente, per quanto il tema della perpetua contraddizione interiore sia interessante, continuo a preferire il Johnny Cash più spontaneo, quello che racconta di ladri e brutti ceffi in Cocaine Blues, quello ironico di A boy Named Sue ma anche la voce roca che narra le fatiche degli hardworker americani e i racconti sui viaggi dei vari Slow Rider che corrono in lungo e in largo l’America a bordo di un treno sferragliante, il provocatore che sta dalla parte dei criminali incalliti e che, imbracciando la chitarra come un fucile, va a portare il suo rock fino a San Quintino e Folsom, dentro la tana del lupo. (Charles)



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