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La grande abbuffata: il cinema di ferreri, con mastroianni e tognazzi

Creato il 27 marzo 2013 da Postpopuli @PostPopuli

 

LA GRANDE ABBUFFATA: IL CINEMA DI FERRERI, CON MASTROIANNI E TOGNAZZI

 

La grande abbuffata – lucianopignataro.it/

 

di Francesco Gori

La grande abbuffata (1973) è, tra i film del passato del cinema italiano (che qui si spartisce il merito con la Francia), uno dei più magnetici. Per la grande regia di Marco Ferreri, per il cast stellare (Tognazzi, Mastroianni, Noiret, Piccoli), per le immagini forti, figlie di una critica alla società di allora, che ben si presta a quella attuale.

Suicidarsi abbuffandosi. Di ogni genere alimentare, reclusi in un casolare dove il peccato della gola possa raggiungere le più alte vette, e portare fino al baratro della morte. Questo vogliono i protagonisti, amici stanchi della vita, che decidono di salutare col  piacere più consolatorio. Insieme al cibo, il sesso con delle prostitute – che non hanno ben chiaro il progetto nella mente dei quattro – e con la formosa maestra Andrea, è il motore dell’autodistruzione, che inizia tra le risate, e si conclude nel dramma più assoluto. La scena finale, dopo la morte del diabetico Philippe, con carcasse depositate in giardino dai fattorini, in mezzo ai cani che ululano e le ambiscono, è un quadro di triste desolazione che chiude l’escalation di violenza autoindotta nella prigione d’oro che coccola e uccide.

 

All’origine dell’insoddisfazione dei quattro, ognuno porta la propria vita. Chi è produttore, chi pilota d’aerei, chi ristoratore, chi magistrato: la monotonia, la noia e la mancanza di relazioni intense è ciò che li lega. Tra i personaggi, spicca la desolazione di Marcello (Marcello Mastroianni, notare la coincidenza di nomi tra protagonisti e attori), diventato impotente, che morirà nel gelo dell’inverno, così come l’arte culinaria di Ugo, che prepara veri e propri attentati “mascherati”.

La figura di Andrea è assimilabile ad un Caronte della morte, dolce e sadica nel prendere contatto con l’atto finale del genere umano, che avviene in un clima di calma apparente, nel quale piombano d’improvviso immagini di fine dell’esistenza che colpiscono come la parola secca in un romanzo, che cade con la potenza di un macigno. Mette dentro tutto lo sporco Ferreri, tutti i bisogni primari, quelli che rendono l’uomo prima di tutto un animale. Il corpo è in primo piano, come nella scena del wc, quando Mastroianni viene travolto dagli escrementi.

La grande abbuffata è il più famoso dei film del regista italiano, del quale ricordiamo anche Storie di ordinaria follia (dal genio di Bukowski alle interpretazioni di Ornella Muti e Ben Gazzara) e Chiedo Asilo (con un giovane Roberto Benigni), pellicole nel segno dell’anti-conformismo, simbolo di un cinema d’autore dallo stile cinico e grottesco. Fece scalpore all’epoca, ma è un film attualissimo, che ci ricorda quanto l’abbuffata – di questi tempi quella tecnologica è la più pericolosa – genera morte.

Aveva capito tutto Ferreri, già 40 anni fa – come Pasolini del resto – a proposito dell’eccesso di consumismo che conduce l’uomo nel vuoto cosmico, cui la morte è liberazione. Due anni dopo toccherà proprio a Pierpaolo con Salò o le 120 giornate di Sodoma squarciare ancor più il velo del perbenismo, per denunciare i pericoli dell’abuso di potere attraverso la rappresentazione degli istinti più feroci.

Una visione che coinvolge con stupore lo spettatore, indispensabile per riflettere sul benessere, la borghesia, il potere che logora l’animo umano. Per gli straordinari Marcello, Ugo, Philippe e Michel morire nel piacere dissoluto è la soluzione.

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