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“La guerra democratica” di Massimo Fini vista da…

Creato il 12 maggio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

9788861902992Michele Marsonet. Può avere un senso il concetto di “guerra democratica”? Esaminando l’andamento dei conflitti armati dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e la fine della contrapposizione tra due blocchi di nazioni ideologicamente alternativi, senz’altro sì. Ciò vale, tuttavia, se e solo se si ritiene che la storia trovi in se stessa la propria giustificazione, e che sia in larga misura autonoma dalle decisioni umane. Una visione che, oggi, risulta difficilmente difendibile. La risposta diventa assai più difficile quando invece si cerca di capire il reale significato dell’espressione di cui sopra e la diffusione di guerre combattute in nome della democrazia.

Massimo Fini esamina la questione con lucidità e passione in un bel libro intitolato La guerra democratica, recentemente pubblicato dall’editrice Chiarelettere. In realtà si tratta di una raccolta di saggi e articoli usciti su varie testate, e ora riordinati dall’autore seguendo alcune linee tematiche ben precise.

Impressiona subito una frase di Barack Obama che Fini pone all’inizio del volume: “Se potessi farei combattere solo i robot per risparmiare la vita dei nostri soldati”. E, in effetti, è quanto sta in parte avvenendo. Ma solo in parte. Robot, macchine e droni possono essere utilissimi strumenti di distruzione. A volte rammentano i sofisticati aggeggi bellici dell’Impero da tutti ammirati nella saga “Guerre stellari” di George Lucas. Tuttavia non bastano, poiché nella maggior parte dei casi sono i soldati in carne e ossa – anche se appartengono alle truppe speciali e a reparti di élite – che debbono andare a stanare e combattere il nemico su terreni impervi e al limite della praticabilità.

Come dicevo poc’anzi, la fine dell’URSS ha conferito agli Stati Uniti il rango di unica potenza militare globale rimasta sulla scena. Ciò ha spinto gli americani a ritenere che fosse finalmente giunto il momento di diffondere su scala mondiale gli ideali della liberaldemocrazia che sono propri dell’Occidente. Per usare un’espressione ancora più efficace, si trattava di “esportare la democrazia”, titolo di un noto libro di Francis Fukuyama.

Il quesito è: “come” si esporta la democrazia occidentale? Teoricamente mediante la capacità di convincere popolazioni che non la vogliono della sua superiorità rispetto ad altre forme di organizzazione politica della società. E, se tali popolazioni recalcitrano perché convinte che essa non sia adeguata alle loro tradizioni e stili di vita, non si deve esitare a imporla con la forza. Il che significa, per l’appunto, promuovere “guerre democratiche” in grado di piegare i riottosi abitanti di un Paese che preferirebbero conservare forme di governo dal

loro punto di vista migliori.

Esistono diverse possibilità. In primo luogo tale strategia viene spesso giustificata dalla presenza di dittatori che violano apertamente i diritti umani così come vengono intesi nella tradizione politico-filosofica dell’Occidente. In quel caso una coalizione militare diretta dagli USA può intervenire per rovesciare un personaggio che risponde a tale descrizione. E di solito ci riesce, salvo poi constatare che la sua eliminazione – a volte fisica, altre no – causa  problemi ancor più gravi di quelli che si intendeva risolvere. Quasi sempre alla vittoria armi in pugno segue il caos politico e amministrativo nella nazione “liberata” e, non di rado, una vera e propria guerra civile che gli occupanti non riescono a controllare. Dopo tutto la coalizione occidentale vittoriosa mette in campo soldati, non poliziotti.

Tuttavia abbiamo assistito, negli ultimi decenni, a interventi di altro tipo, altrettanto interessanti dal punto di vista dell’analista politico e militare. Si tratta delle cosiddette missioni di “peacekeeping”. Una nazione sprofonda nell’anarchia più totale a causa di conflitti tribali, etnici o religiosi. La coalizione occidentale – sempre guidata dagli Stati Uniti – allora interviene per ristabilire l’ordine con la forza delle armi. In base al principio che il caos scatenatosi in quel particolare territorio minaccia non solo la sicurezza e la pace degli Stati che con esso confinano, ma anche l’intero ordine mondiale. E’ tuttavia pressoché impossibile che un esercito tradizionale, per quanto ben armato e addestrato sia, riesca a risolvere il problema. Esempio paradigmatico è quello della Somalia dove, dopo l’intervento che è clamorosamente fallito, il caos è addirittura aumentato dando fiato e vigore alle componenti islamiche più radicali.

Curiose sono poi le guerre democratiche “per procura”, caso tipico quello della Libia. Nessuno ha ancora capito bene perché la decisione di abbattere Gheddafi sia stata assunta nel 2011, in base a una presunta guerra civile sulla quale molti avevano e tuttora nutrono forti dubbi. In questa circostanza, però, gli americani offrirono un supporto importante ma non decisivo. Il vero lavoro fu lasciato soprattutto a due ex potenze coloniali dei secoli scorsi, Francia e Regno Unito, entrambe ansiose di far di nuovo rimbombare le armi sul suolo africano. E con la partecipazione poco più che simbolica di altri Paesi europei tra i quali – purtroppo – il nostro. Risultato? Le bandiere delle suddette ex potenze che garrivano al vento nelle strade di Tripoli e Bengasi, con una partecipazione assai flebile del tricolore italiano. E pure l’ironia dei tedeschi che all’operazione non parteciparono, dovuta al fatto che a loro avviso francesi e inglesi mantengono apparati militari superiori alle loro reali possibilità economiche. Difficile, questa volta, dire che la Germania ha torto.

Ultimo caso, ancora in corso, è quello della Siria. Qui nessuna coalizione occidentale è ancora intervenuta, ma non si può certo escludere che accada. Il quadro è confusissimo. Circola sui social network una vignetta in cui un soldato americano ha di fronte due militanti di Al-Qaida. Il primo, sotto la scritta “Afghanistan”, viene dipinto di rosso e indicato come terrorista. Il secondo, che ha invece sopra di sé la targa “Siria”, viene dipinto di verde e trattato con ben maggiore benevolenza. E’ solo una vignetta, ma significativa. Attratti dal concetto di guerra democratica gli occidentali – americani in testa – non si sono posti seriamente il problema di chi avrebbe sostituito i governi abbattuti con la forza. Non è accaduto a Tripoli né v’è segno che il problema venga posto per quanto riguarda Damasco. Situazione non molto dissimile in Egitto. Là l’esercito, tradizionale amico degli USA, non si è macchiato di crimini orrendi e si è limitato a cercare di controllare lo sviluppo degli eventi. Risultato: abbandono americano dei vecchi alleati e il leader dei Fratelli Musulmani incontrato subito in pompa magna dall’amministrazione statunitense.

C’è, insomma, di che essere stupiti. Come dar torto a Massimo Fini quando scrive: “la guerra democratica non si dichiara, ma si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi. Col grimaldello dei ‘diritti umani’ si è scardinato il diritto internazionale sul presupposto che l’Occidente, in quanto cultura superiore, portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati. Il nemico, allora, non è più, schmittianamente, uno ‘justus hostis’, ma solo e sempre un criminale. Essenzialmente tecnologica, sistemica, digitale, condotta con macchine e robot, la ‘guerra democratica’ evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l’essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e persino ogni estetica”.

Si è purtroppo scordata, in questa temperie, la grande lezione si Samuel Huntington, che invitava ne Lo scontro delle civiltà a rammentare che le identità culturali non si eliminano con la forza delle armi. Se si desidera far questo si fallirà. Meglio sarebbe allora adottare una politica ispirata al realismo delle vecchie potenze coloniali europee, le quali non mascheravano le loro ambizioni di dominio dietro il paravento di diritti umani universali e inviolabili.

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