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La guerra in Siria ad una svolta (col punto interrogativo)

Creato il 06 maggio 2015 da Danemblog @danemblog
(Uscito sul Giornale dell'Umbria del 05/05/2015)
Nell’ultimo mese Idlib, una grossa città del nord siriano, è uscita dal controllo dei governativi per la prima volta dall'inizio del conflitto. Pochi giorni dopo stessa sorte è toccata ad altre città delle provincia settentrionale. Si tratta di capisaldi sull’autostrada M4 che porta a Latakia, la città costiera centro di potere alawita (la setta sciita a cui appartiene il presidente Bashar al Assad).
Le sconfitte militari si appaiano con le questioni interne al regime, che sono di diversi ordini e vanno dalle lamentele velate contro l’inner circle assadista, fino al capo della polizia segreta di Damasco Rustom Ghazaleh picchiato a morte da quelli dell'intelligence militare per ordine del loro capo Rafiq Sheahdeh. La nomenklatura tutta è generalmente scettica sulla capacità di tenuta di Damasco - esprimerlo apertamente è un concetto di altro genere, soprattutto in un mondo come quello siriano, dove chi si oppone finisce misteriosamente “suicidato”.
Il consenso alawita
Anche la base del consenso alawita comincia a dubitare delle reali capacità del presidente di proteggerli. E pure i soldi stanno finendo: la lira siriana che prima del conflitto aveva un rapporto con il dollaro americano di 50 a 1, ora è cambiata dalla Syrian Central Bank a 189 - nel mercato nero, che viaggia a ritmi molto più alti di quello ufficiale, a 300. Parlando in linea generica, il valore della lira siriana funziona come indice di fiducia a lungo termine. Dunque più è basso, più la stabilità barcolla, meno la Siria è affidabile.
La leva obbligatoria
Un altro indice importante della crisi del regime, riguarda la leva obbligatoria. Aspetto che salda insieme la questione militare e quella sociale: il New York Times racconta di come sta aumentando velocemente il numero dei disertori. Anche tra gli alawiti, che per diverso tempo hanno fatto da zoccolo duro dell’esercito nella speranza che prima o poi potesse tornare lo status quo ante 2011. Ora che non si fidano più, fuggono per non arruolarsi, perché arruolarsi significa andare a far parte di divisioni deboli, con quadri di medio livello inesperti, e mettersi davanti ai cannoni dei ribelli.
Quattro anni fa, l’esercito siriano era composto da 250mila effettivi; ora, dopo le defezioni e le uccisioni, sono rimasti in 125mila. A questi si aggiungono altre svariate migliaia tra uomini delle milizie filo governative, le shabiha (le squadracce del regime), e i combattenti sciiti, che l'Iran - che ha un fortissimo ascendente su questi, essendo il riferimento dello sciismo a livello mondiale - ha mobilitato da Libano, Iraq, Pakistan e tra gli hazari afghani. Uno dei motivi che fa indispettire di più gli ufficiali - i papaveri del potere, in un regime militarista come quello siriano - è proprio il ruolo sempre più predominante che sta prendendo Hezbollah all’interno delle attività militari. Il partito/milizia libanese, comanda le operazioni in ogni zona dove è presente. Secondo Charles Lister, analista esperto di Medio Oriente del Brookings Doha Center, si tratta di un piano dell’Iran - che è partner del governo siriano e in contemporanea sponsorizza da sempre i libanesi di Hez - che sta creando uno «stato nello stato» per avere la massima presa possibile sulla Siria, quando Assad cadrà. Una perdita di sovranità che non va giù agli alawiti al potere.
Poi ci sono pure questioni più pratiche: gli Hezbollah sono pagati in dollari dall’Iran, mentre i soldati prendono lo stipendio in lira siriana. In più, mentre i soldati del governo sono mandati a morire in lungo e in largo per il Paese (e questa volontà di far sentire la presenza su tutto il territorio, è forse la strategia che ha pesato di più sull’ingente numero di morti dell’esercito regolare), i libanesi difendono soltanto roccaforti di loro stretto interesse: i funzionari dell’intelligence americana stimano la presenza di oltre 5mila consulenti uomini partiti da Beirut, disposti a sud, sulle zone di confine con il Libano - da dove sarebbero pronti in diverse migliaia a fornire ulteriori rinforzi - e con Israele, e soltanto poche decine sono nella provincia di Aleppo, la seconda più grande città siriana (nel nord).
L'interessamento di Israele 
Tra le questioni importanti che riguardano le nuove traiettorie che sta prendendo il conflitto siriano, vale la pena ricordare anche l’aumento dell’interessamento israeliano. Ufficialmente la posizione del governo di Netanyahu è sempre la stessa, “minimo coinvolgimento”, ma da Tel Aviv cominciano a temere che quelle armi che gli iraniani forniscono ad Hezbollah (e quelle che i libanesi “si prendono” dalle armerie siriane con il consenso ob torto collo di qualche generale dell’esercito assadista) prima o poi possano essere usate contro lo stato ebraico - l’ultima guerra c’è stata nel 2006, ma un nuovo round è molto probabile nel prossimo futuro. Pochi giorni fa, i caccia israeliani hanno colpito alcune postazioni in Siria delle divisioni 155 e 65, quelle addette alle armi strategiche dell’esercito di Assad: dice IDF che stavano trasferendo missili a larga gittata ad Hezbollah. Il giorno dopo, quattro uomini armati, forse drusi (fetta sociale oggetto di una campagna di reclutamento del regime siriano), sono stati uccisi sul Golan mentre cercavano di passare il confine israeliano.
Netanyahu bombarda la Siria asap. A differenza di molti occidentali che hanno sviluppato un'inclinazione pragmaticamente realista che li porta a vedere il presidente siriano come un potenziale partner nella lotta al terrorismo islamico (vedi l’IS, ma anche diverse fazioni islamiste tra i ribelli, per prima la qaedista al Nusra), Bibi non ha bisogno di utilizzare le giustificazioni chic come l’unpalatable che gli americani usano per definire Assad - il termine è abbinato normalmente ai cibi che non sono proprio il massimo, ma comunque commestibili. Israele mantiene la Siria come nemico, e la distingue nettamente dall'Egitto di Sisi, presidente islamico che invece è “un vero partner affidabile” contro il terrorismo - la similitudine calza, perché anche l'egiziano non si può certo considerare un paladino di democrazia, diritti e libertà.
La stretta
A sud Israele martella. Ad est cìè lo Stato islamico. Al nord c’è la coalizione di ribelli con livello di islamismo variabile, che va dal moderato fino al radicale di Arhar al Sham e al Nusra: hanno preso Idlib e molte aree della sua provincia, si sono chiamati di Jaysh al Fatah, l’Esercito della Conquista, hanno una distribuzione mediatica potente e potabile (cioè non si fanno riprendere a tagliare gole a destra e manca, e questo aumenta l’interesse nella popolazione), sono organizzati militarmente al punto che ci sono indizi sul link con sauditi, turchi e qatarioti (messi in proprio davanti all'inerzia americana), e programma il rebrand più laico (cioè senza al Nusra) ad Aleppo. I governativi si stringono a ovest, verso il mare e il centro ancestrale di Latakia, ma Jaysh al Fatah sta cominciando ad aprire la strada verso una battaglia esistenziale.
E intanto oggi ripartono a Ginevra le consultazioni separate del delegato Onu Staffan de Mistura: questa volta parteciperà anche l’Iran, dopo la ripulitura diplomatica obamiana - quello stesso Iran che domenica faceva sapere tramite l’agenzia statale Fars News di aver in progetto di aumentare il supporto militare ad Assad.


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