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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXIX

Creato il 28 febbraio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe

Cap. XXIX

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXIX
Dalla Chiesa se ne stava seduto, impassibile: in testa pensieri diversi si contorcevano e si avvelenavano l’un l’altro. Si domandava che fine avesse fatto Gabriele. Era da tempo che non lo sentiva; il loro ultimo faccia a faccia non era stato dei più idilliaci, ma Gabriele aveva sbagliato e lui aveva il santo dovere di rimetterlo al posto suo. In cuor suo si augurava che non avesse dato di matto. La sua parte aveva saputo recitarla, solo fino a un certo punto però e questo non andava affatto bene. Dalla Chiesa aveva anche un altro chiodo fisso in testa, Lino. Un personaggio squallido, di nessuna importanza si sarebbe detto, ma nei piccoli affari i ‘ma’ sono la sostanza, questo lui lo sapeva bene forte d’una consumata esperienza sul campo.

Uscì dal suo ufficio altezzoso come sempre.
Lungo il corridoio non c’era anima viva. Di tanto in tanto il grido di un paziente più di là che di qua fuggiva da un’anonima camera con il suo bel numero di letti. Le luci erano basse e il turno di notte era appena iniziato. Non gli garbava granché il ruolo di medico di guardia, tuttavia quella settimana non aveva potuto proprio evitarlo: in amministrazione erano stati chiari e anche lui doveva fare la sua parte.
Sbuffò rabbioso. Qualcuno insisteva a chiamare un infermiere: quel dannato pareva si fosse incollato il campanello alla mano.
Oltremodo scocciato decise d’andare lui di persona a dare un’occhiata, non fosse stato altro per far cessare il trillo assordante dell’allarme.
Entrò in una camera che puzzava di morte, la diciassette. Il paziente del letto diciassette teneva ancora incollato il dito al campanello.
Tra le lenzuola giaceva quello che oramai era sol più uno scheletro vestito di pelle giallognola. La chemioterapia l’aveva aiutato ad avvelenare corpo e anima, null’altro: il linfoma, invece di regredire, s’era fatto giorno dopo giorno più forte. Non era la prima volta che vedeva la morte. Per chissà quale atavico cieco istinto di sopravvivenza, l’uomo nel letto continuava a sperare che i dottori potessero strapparlo alle grinfie della morte.
Dalla Chiesa fu costretto a strappargli il campanello dalla mano scheletrica. Senza alcuna pietà rimase a fissare lo scheletro avvolto nel suo scomposto sudario. Dalle labbra secche serpeggiava fuori un sibilo. Non ne avrebbe avuto ancora per molto. Questione di ore, o di minuti forse. Nella notte avrebbe reso l’anima al suo Dio. Al collo teneva legato un crocifisso d’oro fin troppo pacchiano per passare inosservato.
Gli tastò il polso, fragile come un ramo secco. Quasi più non si sentiva il battito. Ma quell’ammasso di ossa e pelle che navigava nel suo pigiama non s’era ancora arreso all’evidenza; era chiaro che sperava in un miracolo, glielo poteva leggere negl’occhi, per quanto appannati e ormai scevri d’una qualsivoglia scintilla di forza vitale.
“E’ finita, è finita…”, mormorò il primario al morente. Quello scuoteva il capo, troppo debole per mandarlo al diavolo o anche solo per darsi a un pianto dirotto.
“Non t’affannare, non serve. E’ così che vuole il tuo Dio, non importa che tu sia stato un uomo buono o cattivo, non importa. E’ così che lui vuole”, aggiunse.
Gli voltò le spalle, ma non prima d’essersi assicurato che quel seccatore non potesse più rompergli l’anima. Il pover’uomo lo vedeva penzolare al di sopra del suo capo il campanello. Quel maledetto ch’era venuto con parole maligne in bocca gliel’aveva tolto di mano per legarlo alla testiera del letto.

Lungo il corridoio un’infermiera lo fermò per un breve attimo: “Mi scusi… ho sentito il campanello suonare…”.
Dalla Chiesa le sorrise mellifluo: “Ho già provveduto io. Alla venti c’era bisogno di un pappagallo”.
Prima che l’infermiera potesse ribattere qualcosa, Dalla Chiesa s’era già squagliato inghiottito nel budello del lungo e profondo corridoio del reparto, là dove non un filo di luce riusciva a penetrare.

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