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La lunga notte di Vincent Reed (un estratto)

Da Tuonolux
Questo testo è un estratto della prima parte di La Lunga Notte Di Vincent Reed: romanzo omaggio al noir anni quaranta e cinquanta. Non so ancora quando e come (ma soprattutto se) questa mia fatica vedrà la luce, quindi nel frattempo accontentatevi di queste poche righe. Commenti, critiche e consigli, come sempre sono ben accetti. Buona lettura. Percorremmo una rampa di scale dai gradini sporchi e scricchiolanti, su di essi stava distesa una moquette vagamente tendente al rosso e forata qua e là da cicche di sigaretta. Attraversammo un corridoio lugubre, illuminato da una sola lampadina ronzante e intermittente, poi ci trovammo davanti alla porta recante lo stesso numero inciso sopra le chiavi che, il vecchio demente alla reception, ci aveva consegnato mentre dava confuse indicazioni su dove si trovasse la stanza, tra un colpo catarroso di tosse e un tiro di sigaro. Aprimmo la lamentosa porta, e i nostri nasi si arricciarono all'unisono percependo l'odore nauseabondo che vi ristagnava oltre: una fragranza che era un alternativo mix di carogna e piscio di topo. Dalla finestra la luce rosea di un giovane sole filtrava attraverso un sottile tendaggio illuminando il pulviscolo. Premetti l'interruttore della luce e, davanti agli occhi ci apparve la più misera e sporca stanza d'albergo che mai uomo potesse immaginare. “Ce la farai a resistere bambola?” Chiesi ad Elizabeth, e voltandomi nella sua direzione notai la sua bocca storcere in una chiara smorfia di disgusto. “È solo per qualche ora. Io resisterò” disse, e si sistemò alcuni capelli dorati dietro all'orecchio. Era proprio il peggiore motel del mondo, ma lei aveva saputo cancellare tutto lo squallore in quel gesto. Mi avvicinai a quella bocca perfetta e la baciai, dopodiché lasciai cadere sul pavimento la valigetta che stringevo nella mano e, con un calcio la feci scivolare sotto al letto dove mi ci coricai esausto dopo pochi attimi. Non ricordai nemmeno di levarmi il soprabito e il cappello: mi fiondai su quel materasso polveroso senza altre attese, avevo soltanto voglia di riposare le ossa. “Ho portato qualcosa per festeggiare” disse il mio angelo biondo estraendo da una tasca del proprio cappotto una mezza bottiglia di bourbon, le strizzai l'occhio e le feci cenno di lanciarmela, la lanciò, la presi al volo e ne ingollai all'istante una generosa sorsata. “Vado un istante in bagno Vincent, ti raggiungo subito” disse, assumendo una ambigua espressione angosciata e pensosa che, percepii come una novità del suo volto. Qualche momento dopo sentii il suono melodioso della sua voce provenire dal bagno, riconobbi le note della canzone 'Somewhere Over the Rainbow', le quali mi cullarono piacevolmente per qualche decina di secondi, poi cercai di dire qualcosa, di complimentarmi con quella voce straordinariamente armoniosa, ma il bourbon sembrava avermi addormentato la lingua e le corde vocali, così mi produssi in un verso vagamente interpretabile; mi si offuscò anche la vista e, la luce che emanava la lampadina appesa al soffitto, sembrò calare d'intensità. “Sei una donna perfetta Elizabeth” riuscii a sussurrare, forse. Mi sembrò di udirla rispondermi dal bagno, ma non compresi nessuna parola, la percezione del suono si fece ovattata e una improvvisa stanchezza mi cementò gli arti. La bottiglia di bourbon mi scivolò dalla mano, cadde sul materasso, poi scivolò a terra e saltellò rumorosamente sulle tavole di legno del pavimento svuotandosi lentamente su di esse. Rimasi a guardare quel triste spettacolo, impotente. Una consapevolezza si fece strada nelle mie interiora, gravosa come un macigno si posò sul ventre, ed infine, una mera voragine prese il tutto. Un intenso odore di fogna mi rubò al pesante sonno in cui ero imbattuto. Quando rinvenni sentii la gola in fiamme e la testa dannatamente pesante. Non rammentai nell'immediato cosa mi era accaduto e nemmeno in quale luogo mi trovassi. Una bottiglia di bourbon vuota giaceva a terra, e un moscone vi ronzava attorno a ritmi irregolari, e il suono che emanava somigliava ad un brusio da osteria. Guardandomi attorno realizzai presto di essere in una stanza del Motel Martinelli: un motel di quart'ordine sistemato sulle colline a est della città di Santa Taisia, rappresentato da una squallida costruzione color ratto dagli intonaci rigonfi d'umidità e d'insetti con innumerevoli zampette. Il Motel Martinelli era noto per essere una tana per negri, tossicodipendenti, puttane a fine carriera, assassini, e chissà quale altra immondizia. Io non ero certo uno di quelli che si poteva definire un bravo cittadino, ma il fondo non lo avevo ancora toccato, non ancora almeno, e quel posto non lo meritavo. Barcollai verso il bagno, girai la manopola del rubinetto e vi accostai le labbra, le tubature si misero a gorgogliare tra le sottili pareti e schizzi intermittenti di acqua giallognola fuoriuscirono dal rubinetto rugginoso insieme ad un esemplare di millepiedi piuttosto cresciuto. Disgustato allontanai la bocca e osservai la bestiola attraversare a grande velocità la parete, sino ad una vistosa crepa, dove vi si infilò. Avvicinai nuovamente la bocca al rubinetto e bevvi una misera quantità di acqua. Quel tanto che bastava ad alleviare il bruciore alla gola e a sciogliere l'impasto denso di saliva che mi incollava la lingua al palato. Avrei bevuto di più, ma colore e odore di quel liquido ricordavano più il piscio che l'acqua, ed allora decisi di tenermi la sete. Controllai nelle tasche del soprabito che portavo ancora indosso e, nella tasca interna vi trovai il porta sigarette vuoto per metà ed una scatola di fiammiferi. Fumai, tra qualche breve colpo di tosse. Uscii dal bagno, cominciai a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza e qualche ricordo cominciò a riaffiorare. Pochi istanti dopo nacque la scintilla che diede vita alla lunga sequenza di ricordi più recenti. Mi lanciai a terra ed osservai sotto al letto, dove, con grande sollievo, trovai la valigetta. Come d'incanto rammentai le mie ultime ore, nel tempo di un fulmine. Aprii la valigetta: al suo interno un pezzo di carta ingiallito sul quale prendeva posto una calligrafia molto familiare: era la calligrafia di Elizabeth. Mi dispiace Vincent, avevo l'ordine di guadagnare la tua fiducia e di usarti per la rapina da Koltzinsky. Avrei dovuto ucciderti una volta in possesso dei diamanti, ma non ne ho trovato la forza. Voglio che tu sappia che quando dissi di amarti non mentivo. Scappa da questa città e dimentica tutto. Ho deciso di lasciarti in questo motel perché è un posto abbastanza sicuro. Fuggi lontano e costruisciti una nuova vita, sei un bersaglio facile a Santa Taisia, se qualcuno ti vedesse in vita tutti e due ne pagheremmo le conseguenze. Quindi ti prego, non venire a cercarmi. Ti ho lasciato l'auto e un po' di denaro, dovrebbe essere sufficiente a farti durare i vizi per qualche settimana. Non mi odiare, ti prego. Purtroppo il nostro amore è vittima di qualcosa di troppo grande. Forse in un'altra vita saremo felici. Addio. Elizabeth Per un istante, mentre scorrevo quelle righe d'inchiostro, mi sembrò di percepire il suo tipico e dolce profumo al gelsomino. Un profumo che ormai avevo imparato ad associare all'amore e alla fiducia. Puttana. Avevamo rapinato la gioielleria di Koltzinsky io ed Elizabeth, dopo settimane passate a progettare il colpo, ed ora mi ritrovavo nella peggiore stanza d'albergo del mondo con un pugno di mosche, o meglio: con un moscone ubriaco ormai prossimo alla morte. I sogni di ricchezza e di amore erano andati in frantumi. L'immagine di me ed Elizabeth in riva al mare a bere drink colorati adornati con pezzi di frutta e ombrellini svanì all'improvviso, ed il pensiero di ciò mi procurò una sgradevole fitta di dolore alla testa e alla bocca dello stomaco. Puttana. Quella puttana era scappata con i diamanti, dopo avermi sapientemente ingannato era scappata con i diamanti. Aveva drogato il mio bourbon la sera prima e poi mi aveva lasciato sul peggiore letto del pianeta. Mai fidarsi di una donna che ti offre da bere. Mai. Nella valigetta, come scritto da Elizabeth, trovai un sottile fascio di banconote e una chiave: era quella dell'auto. Mi avvicinai alla finestra che si affacciava sul parcheggio del motel. Era notte fonda, ma sul quel rettangolo d'asfalto flebilmente illuminato da una malconcia insegna luminosa, riconobbi subito la mia auto: quella ferraglia non valeva neanche una minima parte dei diamanti che Elizabeth mi aveva portato via. Notai il mio viso riflesso sul vetro della finestra rabbuiarsi. Dovevo fare qualcosa al più presto, prima che rabbia, delusione e nostalgia mi entrassero dentro all'animo con eccessiva forza da riuscire a prendere il sopravvento su tutto il resto. Intascai le banconote, la lettera e la chiave. Poi sul letto notai, incastrato tra il cuscino e il muro, il mio cappello accartocciato, cercai di fargli riprendere la piega originale dandogli un debole pugno all'interno e me lo poggiai sulla testa. Guardai nuovamente il mio riflesso: non brillavo certo per eleganza, non era solo il cappello ad essere stropicciato infatti, ma bensì tutto il vestito, e a guardare con attenzione anche il suo contenuto aveva qualche piega di troppo. Non ero proprio il ritratto della salute e della giovinezza. Mi mancava solo una fiaschetta colma di bourbon e una pistola carica per essere al completo. Purtroppo le armi usate per la rapina erano state gettate in un fiume a parecchi chilometri di distanza e quel poco di bourbon che avevo, si era trasformato in una triste pozzanghera giallognola. Al suo interno il cadavere del moscone galleggiava. Uscii dalla camera, non c'era nient'altro che mi potesse tornare utile in quello squallido luogo, restare lì avrebbe voluto dire perdere altro tempo prezioso e rendere la ricerca di Elizabeth più complessa. Mi diressi verso la reception del motel. Attraversai il corridoio e vidi un negro completamente nudo stringere tra le mani un sassofono: barcollava e guardava dritto davanti a sé, nemmeno sembrò accorgersi della mia presenza. Guardava la parete scrostata alla fine del corridoio e le andava incontro con lentezza, come se quel rettangolo di muro fosse chissà cosa. Gente strana, i negri. Proseguii la marcia facendo attenzione a non prendergli contro e scesi le scale. Il vecchio alla reception sfogliava un quotidiano e leggeva un articolo strizzando gli occhi e facendo fuoriuscire dalla bocca la punta della lingua, assumendo così una tipica espressione da subnormale. Notai disgustato prima gli angoli della sua bocca bianchi di saliva addensata, e poi l'articolo in prima pagina: Gioielleria Koltzinsky rapinata con un colpo da maestro, la polizia brancola nel buio. Sorrisi, eravamo stati in gamba io ed Elizabeth, il nostro colpo si era rivelato perfetto. La mia esperienza di rapinatore e la sua freddezza e lucidità avevano dettato le basi della rapina perfetta. Diamine! Elizabeth era una delle più sveglie e belle bambole che avessi mai avuto l'occasione d'incontrare nella vita. Questo era sicuro! “Quanto vi devo per la stanza?” chiesi al vecchio, il quale abbassò il giornale e rispose flemmatico: “è già tutto pagato signore, ha saldato la vostra donna questa mattina prima di andarsene, è una stranezza che non ve lo abbia riferito.” E tossì catarroso ripetute volte, senza avere nemmeno l'accortezza di coprirsi con la mano quell'orribile orifizio dalla scarsa dentatura. “Forse non voleva disturbarmi, ho dormito fino a poco fa come un ghiro. Ero molto stanco.” “Immagino signore, anche io mi sentirei spossato dopo una notte passata in compagnia di una donna così bella...” Disse, con l'intenzione di sorridere, ma quello che mostrò fu solamente uno spietato spettacolo di denti marci e gengive arrossate. Se avessi avuto qualcosa nello stomaco lo avrei di certo vomitato dopo quella visione. “Vi consiglio di rivolgervi al sottoscritto mostrando più discrezione!” Dissi. “Vi prego di accettare le mie scuse signore, non era mia intenzione mancarvi di rispetto...” “Lo spero bene, porco bastardo” dissi, e lui nel sentirmi assunse un'espressione ebete e tornò con gli occhi sulle pagine che stringeva tra le mani. Lo fissai disgustato per alcuni secondi, poi diedi le spalle al vecchio minorato senza sprecare altro fiato e uscii da quel luogo pulsante di miseria, frivolezze e sporcizia. Raggiunsi il parcheggio, guardai il cielo: catrame. Nessuna luna, nessuna stella a farmi compagnia. Meglio, le stelle e la luna erano roba per donnette, effeminati e marinai. Ed io fino a prova contraria non appartenevo ancora a nessuna di queste categorie. Osservai l'orologio che portavo al polso, segnava le otto in punto, ma era fermo: una lunga crepa attraversava il vetro. Non ricordai come diavolo avevo fatto a danneggiarlo, e nemmeno mi impegnai nel rammentare. Gli diedi due colpetti con l'indice. Niente. Le lancette stavano immobili. Strappai l'orologio dal polso senza avere nemmeno l'accortezza di slacciare il cinturino e lo lanciai con rabbia sull'asfalto facendolo dividere così in diversi frammenti. L'unica eredità di mio padre se ne era appena andata. Poco male. Quel bastardo ubriacone mi aveva cresciuto in un fienile a cinghiate e bestemmie. E ora che non avevo più al polso ciò che me lo faceva ricordare mi chiesi perché mi ero ostinato a tenerlo per così tanto tempo. Mi avvicinai all'auto, aprii la portiera cigolante, la quale si bloccò spalancata. Una volta seduto dovetti tirarla a me esercitando parecchia forza per riuscire a richiuderla. Come misi in moto un forte scoppio, simile ad uno sparo, fece uscire un nero nuvolone dal tubo di scappamento. Qualche uccellaccio si librò nell'aria gracchiando, come per protestare. Subito dopo ci fu un altro boato, ma questa volta proveniente dal cielo, e una fitta pioggia cominciò a tamburellare sul parabrezza e sul tettuccio dell'auto. La pioggia così all'improvviso mi sembrò una specie di messaggio di malaugurio lanciato dal Padre Eterno. “Mantieni la dannatissima calma Vincent!” Dissi tra i denti, digrignandoli così violentemente da rischiare di danneggiarli. Per un attimo mi assalì l'impulso di prendere a calci l'auto, di tornare dal vecchio alla reception e prenderlo a pugni sino ad aprirgli la testa come fosse un melone troppo maturo. Mi controllai appena scoprii che almeno l'autoradio funzionava, e che la ricezione non era male. Non sapendo con precisione da dove partire per cominciare la ricerca di Elizabeth e dei diamanti, decisi di fare un salto in un qualche posto dove potere affogare almeno un paio di pensieri sgradevoli in un buon bicchiere di bourbon, sperando di essere assistito dalla fortuna, perché era solo di quella che avevo bisogno dato che non avevo né un'arma, né una vera traccia da seguire. L'unica cosa che potevo fare era tenere gli occhi ben aperti e resistere alla voglia di sbronzarmi. E non era un'impresa da poco.

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