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La mela bucata (2/2)

Creato il 09 luglio 2010 da Pupidizuccaro

[la prima parte]

mela

Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s’era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo.
 Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un’intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l’altra affilammo il nostro piano.

Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient’altro.

Francesco Paolo era sbiellato: se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell’impeccabile condotta.

Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c’eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione.
 Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.

Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo.
 Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di “Settimo Cielo”. Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.

Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.

Francesco Paolo s’attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant’Ingnazio che cavalcava un’ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.

Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m’immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l’imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un’avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l’avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille.
 Maceravamo nel nostro sugo ormonale.

L’attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell’ora, noi facevamo lo stesso. Se c’era qualche dubbio, l’esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.

Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.

Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell’acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L’attesa era finalmente finita. C’erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l’ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell’edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l’uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.
Sotto il pavimento della cucina c’era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c’erano le condutture dell’aria condizionata.

A quell’ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.

Rivolgemmo un’ultima occhiata a Sant’Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.
Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d’amore. Da sempre mi dondolavo l’idea di regalare l’ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato.

Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell’immondizia per evitare di macchiarci e impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all’incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.
 Continuavamo a salire, uno sull’altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m’ero imbattuto nella nostra salvezza.
 I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s’avvicinava la nostra meta.

- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.

Io sono stato sempre pessimista, mi immaginavo che, pure che avevo tirato le ascisse e le ordinate per calcolare al millesimo il punto preciso dove iniziare a scavare, ci saremmo ritrovati sotto il culo rachitico di Padre barbone intento a sganciare le sue caccoline secche secche dentro alla tazza, seduto lì sudato col breviario in mano.

No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale.
 Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L’adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un’eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole.

Era sempre la solita faccenda, la distanza che separa i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: “tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia”. I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono sei, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l’iperbole era azzeccata come poche.

E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo fragili e scoperchiati. Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenne certezza quando Casimiro Sconzolato attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.

L’alba ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.

Una diversa versione di questo racconto è stata pubblicata nell’antologia curata da Fabrizio Piazza “Palermo. Geografie del mistero” della Giulio Perrone editore.


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