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LA MIA AFRICA - di Michelangelo Bartolo

Creato il 03 aprile 2012 da Ilibri
LA MIA AFRICA - di Michelangelo Bartolo LA MIA AFRICA - di Michelangelo Bartolo

Titolo: La nostra Africa
Autore: Michelangelo Bartolo
Editore: IoScrittore

Il corposo volume “La nostra Africa”, più di 400 pagine di viva testimonianza di lotta all’Aids, può esser letto in un soffio, in un gesto leggero; non esagero nel dire che può esser letto ridendo. Tutto è reso possibile grazie all’intelligenza dell’Autore che ne ha fatto sì qualcosa di lungo, ma anche di penetrante, di divertente, di mai banale.

Il libro ripercorre le tappe più significative dell’affermarsi del programma di cura DREAM (Drug Resourse Enhancement against Aids and Malnutrition) della Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con le autorità sanitarie locali africane, ed è suddiviso in tre parti contestualizzate in via spazio-temporale: la prima, Mozambico (2001-2006); la seconda, Tanzania (2005-2010); la terza, Africania (2009-2011). I dati, le statistiche li lascio al lettore che potrà consultarne ogni più piccolo aspetto disseminato nel testo e racchiuso in una breve appendice finale.

Questa suddivisione strutturale organizza una lettura “a campi” e introduce il lettore passo passo nell’universo africano, un universo che già s’indovina sfidante, logorante sin dalle prime pagine. La narrazione è condotta con andamento progressivo e segue, com’è naturale che sia, il continuo miglioramento del DREAM che minuto per minuto, giorno per giorno, macina risultati positivi nel curare sempre più malati di Aids, nello strappare alle braccia della morte persone già “condannate” e rigettate da comunità locali ancora non in grado di accettare “il malato” in quanto essere umano.

Colpisce la forza con cui medici, infermieri, volontari a vario titolo si scontrano con una burocrazia che definire kafkiana non è fuori luogo, a tratti appare questo il lato più duro. Curare il malato è difficile, sembra dirci l’Autore, ma più difficile ancora è combattere non contro il nemico bensì contro l’amico, contro colui che potrebbe aiutarti, che avrebbe i mezzi e l’autorità per farlo.

Innumerevoli sono, a tal proposito, gli episodi che s’incontrano nel libro: dai surreali colloqui con chi dovrebbe sbloccare, dalla zona porto, un container di macchinari per la creazione di un laboratorio di Biologia Molecolare (siamo in Mozambico), agli incalcolabili ammiccamenti di funzionari che agiscono solo a suon di mazzette, di allowance, come qui vengono chiamate (siamo in tutto il continente).

L’Africa accoglie il lettore mostrandogli due volti. Il primo è quello lento, labirintico; è l’Africa dei funzionari pubblici, quella dove gli incontri ufficiali con autorità politico-amministrative durano ore e ore… ma sono solamente ore d’attesa. L’Autore è chiamato a sopportare interminabili preamboli, lunghissime ore aspettando il funzionario di turno che non arriva mai, e che quando arriva liquida ogni problematica con poche parole, precedute sempre da un “but” in grado di tagliare le gambe alla più tenace speranza. È questa l’Africa esasperante, quella che ti viene in contro da lontano, da distanze siderali.

«Con il tempo ho capito una cosa: chiunque [in Africa] può fare un’obiezione e fermare o rallentare la tua pratica, ma nessuno ha il vero potere di mandarla avanti. Nessuno, neanche il ministro, che ha un rispetto spropositato per il parere del più piccolo direttore locale.» (pag.370)

Queste parole fanno a pugni con l’altra Africa, quella che compare all’improvviso e ha, non può essere che così, i volti dei bambini (già, tipo quelli delle pubblicità in televisione) in grado di comunicare con un corpo, il loro, devastato sia dalla malattia sia dalla violenza. Sono mani che lasciano le loro impronte sui finestrini delle auto che scortano i bianchi, sono mani che chiedono solo quando capiscono che qualcuno può dare, sono mani che cercano un contatto, che hanno disimparato a giocare con gli adulti. Toccanti, a questo proposito, i molti ritratti che costellano le testimonianze del libro e che è inutile anticipare in questa sede, togliendo al lettore il gusto dell’imparare. Sì, dell’imparare dal gesto più banale, più spontaneo… dell’imparare dalla testimonianza di chi quest’universo l’ha combattuto e aiutato contemporaneamente.

Si diceva Mozambico, Tanzania, Africania. Quest’ultimo Paese è chiaramente luogo simbolico e concreto insieme, specchio di un’Africa tutta che non sta solo sulle cartine geo-politiche ma anche nell’esperienza del volontario, di colui che ha deciso di scrivere per testimoniare racchiudendo in un’ultima partizione dell’opera un’esperienza simbolica, in grado di “tirare le somme”, di snocciolare dati. Già dati, statistiche, cifre: un consiglio al lettore è quello di non cadere nel luogo comune del: “i numeri non trasmettono passione”. Bisogna leggere questi numeri, è necessario incamerarli facendone esperienza, perché s’impara anche da quelli, s’impara anche dal lato più freddo e meno passionale quando si parla di Africa e di programmi di cura.

Un libro che s’aggiunge a una letteratura già vasta, ma che conserva la forza dell’unicità e che in quest’ottica va studiato.

Chiudo con uno sguardo al tratto distintivo del libro, quello dell’ironia. All’inizio di queste righe scrivevo che si ride, nel leggere questo libro. Infatti ogni pagina, contrariamente a quanto si può pensare prima d’iniziare a leggere, è pervasa da un forte umorismo. Ogni colloquio è spia per nuove battute di spirito; ogni parola, ogni gesto generano una situazione linguistica spiazzante. Stupisce la cosa? No, non stupisce. O meglio, non stupisce il lettore intelligente in grado di capire che quest’ironia nasce per esorcizzare il Male (con la Maiuscola), nasce perché chi vuole aiutare l’Africa ha bisogno di rimanere lucido, di non lasciarsi distruggere a sua volta. Non stupisce, perché questa è l’ironia di chi ha sofferto e che solo chi ha sofferto può permettersi d’adottare.

INTERVISTA ALL'AUTORE MICHELANGELO BARTOLO

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1) Iniziamo con una domanda non facile. La prima cosa che mi viene spontaneo domandarLe, dopo aver letto e apprezzato il Suo libro è: perché? Cosa spinge un medico affermato a spendersi (non parlo di soldi, parlo di energie, di forze di vita) per un progetto così vasto, così “sfidante”? Sicuramente la Sua prima riflessione andrà, com’è giusto e ovvio che sia, al salvare vite umane, ma allora mi chiedo e Le chiedo: può esserci un’altra motivazione oltre a questa?

Si, le motivazioni possono essere diverse ma mi soffermo solo su un paio di aspetti: credo che in noi occidentali dovrebbe crescere il senso del debito verso l’Africa. Spesso, invece, si ha un atteggiamento difensivo: si chiudono le frontiere, ci si rifugia nel localismo e ci si concentra solo sui nostri problemi e la nostra realtà. Ma oggi chiudersi e difendersi non è più possibile: viviamo in un mondo globalizzato, interconnesso, dove le notizie viaggiano in tempo reale. Un esempio forse banale: quando è morto Lucio Dalla io mi trovavo a Masanga, villaggio sperduto e minuscolo villaggio della Tanzania sconosciuto anche a Google heart ma dove, grazie ad un antenna satellitare e un impianto solare, avevo saputo prima dei miei colleghi romani della morte della popstar e li avevo avvisati con un sms. C’è una forza della storia, favorita anche dall’enorme sviluppo delle comunicazioni, che ci spinge a vivere insieme; c’è un destino comune, una interconnessione tra gli stati, tra i continenti irrefrenabile. C’è forse bisogno di costruire meno muri e più ponti e la via della cooperazione nella sanità può essere uno di questi ponti.

Ma forse c’è anche un’altra motivazione più banale, ma non per questo meno importante. La prima volta che sono andato in Africa era solo per rispondere alla richiesta di aiuto di alcuni miei amici che avevano iniziato prima di me quest’avventura. Sì, talvolta l’amicizia scatena energie imprevedibili.

2) In “La nostra Africa” viene puntato il dito contro una burocrazia incredibilmente farraginosa, macchinosa, a tratti kafkiana. Questa, insieme a strascichi di guerre appena finite – quando non ancora in corso – è solo una delle resistenze contro cui ha dovuto combattere… allora Le chiedo: vi sono mai stati momenti, momenti concreti intendo, in cui è stato sul punto di abbandonare tutto?

Si, soprattutto all’inizio ce ne sono stati. Nella mia prima missione ero partito con l’idea di andare a fare il medico e mi sono trovato a passare una ventina di giorni nel porto di Maputo a combattere con burocrazia e problemi reali per sdoganare il container che conteneva le apparecchiature per allestire il laboratorio di biologia molecolare. Lì, ancora una volta, se non fosse stato per il sostegno puntuale di alcuni colleghi che mi sostenevano, incoraggiavano, davano consigli, avrei sicuramente abbandonato tutto. Era troppo difficile e a tratti anche rischioso. Il lavorare insieme per un progetto comune ha un grande valore ed è un motore che ti spinge ad andare avanti e a superare tante piccole e grandi difficoltà. Ognuno da solo è più debole, questo è vero sempre, in ogni aspetto della vita. E’ forse una delle malattie di noi europei, troppo soli, a volte troppo tristi.

3) Nel Suo libro ci racconta principalmente di due Paesi, Mozambico e Tanzania, per poi portare la Sua testimonianza sull’Africania. Il continente africano, comunque, è composto da tantissimi Paesi che hanno alle spalle storie e passati non sempre identici. Quanto, quindi, ogni riflessione da Lei portata in questo libro può essere oggetto di “generalizzazione”?, quant’Africa c’è in ogni singolo Paese africano?

Ogni paese ha la sua storia, le sue tradizioni, le sue particolarità; non si può generalizzare. Non esiste un paese africano ma esistono tanti paesi che compongono l’Africa. Il Mozambico ha sofferto 16 anni di guerra civile e oggi sta vivendo un periodo di rapido sviluppo, la Tanzania ha un governo stabile ed è esempio di coabitazioni tra musulmani, cristiani e animisti, la Somalia vive il dramma di essere un paese dominato da bande locali senza un governo e potrei continuare. In ogni paese africano c’è un pezzo di Africa come in ogni paese europeo c’è un pezzo di Europa. Generalizzare induce a fare semplificazioni ma la realtà è più complessa; forse alcuni pregiudizi e luoghi comuni nascono proprio da facili e gratuite generalizzazioni. Ma la realtà e la storia sono più complesse. L’Africania raccoglie insieme solo alcune caratteristiche di diversi paesi e mi consente maggiore libertà nel racconto.

4) Molto intense sono le pagine in cui ci parla delle carceri (almeno quelle del Mozambico) e del rapporto gerarchico esistente tra detenuti di diverso “livello”. Avete poi avuto la possibilità di approfondire una conoscenza più diretta di queste realtà? Immagino evidentemente di sì, mi piacerebbe che ce ne parlasse.

Per rispondere è necessaria una premessa. Nel libro, per scelta, non ne parlo mai in modo esplicito ma il programma di cura è il programma DREAM della Comunità di S.Egidio, realtà nata a Roma nel ’68 ma ormai molto diffusa, specialmente in Africa. In Mozambico ci sono migliaia di volontari di S.Egidio che compiono un lavoro stupendo. Pur con pochi mezzi e poche risorse hanno sviluppato una presenza di supporto e vicinanza in 30 carceri mozambicani, aperto 4 infermerie e aiutano nel portare vestiti, sapone, alimenti quando necessario, cioè sempre. La terapia antiretrovirale per curare l’Aids è distribuita anche in alcune carceri è questo fino a qualche anno fa era qualcosa di impensabile. Ancora oggi le carceri sono un luogo tremendo: strapiene di ragazzini di strada, luoghi violenti dove la dignità umana è calpestata

5) Le pongo la stessa domanda anche in relazione ad altri luoghi, quali le miniere in Tanzania, nel suo libro presentateci come zone off limits non solo per “semplici curiosi” o turisti ma anche per volontari e persone del Suo livello. Potrebbe dirci due parole in più su quanto magari è stato fatto anche in relazione a queste diverse realtà?

La realtà delle miniere rimane una zona off limits. Mi ci sono avvicinato grazie alla conoscenza di un prete locale che mi ha raccontato la realtà dei suoi parrocchiani che lavorano in questi luoghi. Con lui, per curiosità e sicuramente con una discreta dose di incoscienza, ho provato ad andare a visitare una di queste miniere dove viene estratto un diamante molto prezioso, e per cercare di capire più da vicino questa realtà. Ma chiaramente ci sono interessi forti a cui è molto difficile avvicinarsi, impossibile per un semplice medico cooperante come me.

6) “La nostra Africa” presenta percentuali, dati, cifre che ho fortemente consigliato (al lettore) di studiare superando il classico luogo comune del “sono solo numeri”, consapevole del fatto che capire cosa avviene in Africa – e per la lotta contro l’Aids – deve passare anche attraverso una sempre maggior consapevolezza dei risultati ottenuti da chi, come voi, lavora sul campo. Le chiedo, c’è qualche dato che ad oggi può aggiornare, qualche “semplice numero” che ritiene di dover ulteriormente specificare per farci capire quali risultati state ancora conseguendo?

Sì, da quel piccolo e timido ambulatorio iniziato da un pugno di volontari in un sobborgo di Maputo nel 2001, si è oggi realizzato un modello per la prevenzione e la terapia dell’Aids in Africa che ha pochi precedenti. Il programma DREAM è oggi diffuso in 10 paesi dell’Africa Sub-Shariana, 170.000 pazienti in cura e poi c’è un dato molto eloquente. Oggi, grazie alla prevenzione madre bambino sono nati quasi 16.500 bambini sani da madre HIV positiva. Una nuova generazione che ridona futuro all’Africa. Sì, perché l’Aids colpisce non solo la salute di un individuo, di una famiglia ma è un freno anche per lo sviluppo del paese, della sua economia.

Se curare ha un costo, oggi ci sono studi molto accreditati che dimostrano, dati alla mano, che non curare ha un costo ancora più elevato.

Pochi mesi fa in Mozambico è stato firmato un accordo per estendere a livello paese il nostro programma di prevenzione madre bambino. E’ un risultato importante.

7) Lei ci narra spesso, tra le pagine di questa Sua testimonianza, di forme di ritrosia e diffidenza provenienti anche dalla stessa popolazione africana, soprattutto dove non ancora scolarizzata. Pare impossibile che esistano ancora sacche di resistenza culturale che vorrebbero poter curare l’Aids con patate, salassi o pratiche che noi non esiteremmo ad avvicinare alla più inconcludente credenza popolare. Quanto è importante offrire, a queste popolazioni, mezzi non solo tecnici (macchinari, ambulatori, farmaci, ecc) ma anche culturali per combattere l’Aids?

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Oggi, il nostro e il mio impegno principale nelle missioni africane è proprio quello di fare formazione. E’ un processo lungo che richiede, tempo, risorse, idee. L’Africa è una terra dalle tante contraddizioni ma è anche una terra in cui c’è un grande bisogno di scolarizzazione, di cultura che è un grande canale per lo sviluppo e per la crescita di ogni paese.

Moltissimi dei nostri pazienti hanno formato una un associazione di attivisti che parlano nei mercati, nelle scuole, nelle chiese, alla radio alla televisione proprio per comunicare una nuova cultura, una nuova coscienza civile.

Ci vuole tempo. È un processo lungo e appassionate, importante quanto la terapia antiretrovirale.

Ma c’è un processo culturale che riguarda anche il nostro paese. Troppo luoghi comuni, troppe facili affermazioni verso l’Africa e gli africani. Forse anche per questo ho scritto “La nostra Africa”

8) Impossibile non lasciarsi trasportare dalle descrizioni che fa di bambini malati e sani (guariti), di piccole creature in bilico tra la vita e la morte e di chi invece è riuscito a riappropriarsi di un futuro. Ha un aneddoto breve, magari che non ha trovato spazio nel libro, di cui vorrebbe raccontarci?

Qualche anno fa sono stato in Tanzania con mia moglie e mio figlio Matteo che passava le giornate a giocare con gli altri bambini che venivano a curarsi al nostro centro di cura. Ovviamente era l’unico bambino bianco tra decine di bambini neri. Dopo qualche giorno uno dei piccoli malati, indicando mio figlio, ha chiesto alla nostra infermiera: “ma i bambini bianchi fanno la cacca bianca?”

9) Una domanda proiettata in avanti, che ci permetta di capire come state muovendovi in relazione a questo vostro immenso impegno: progetti per il fututo? Che iniziative immaginate di poter prendere nei prossimi mesi (o anni)?

Il programma DREAM rappresenta ormai un modello a cui molti guardano con interesse. Abbiamo avuto varie richieste da parte di altre realtà africane che ci chiedevano aiuto per aprire nuovi centri di cura. Ma c’è un’oggettività: le risorse sono poche, e c’è un enorme problema anche nell’approvvigionamento dei fondi. Il mio lavoro e quello dei miei amici della Comunità di S.Egidio e di tanta gente di buona volontà che si è unita a noi è su base completamente volontaria. I pochi fondi a nostra disposizione ci pongono dei limiti ma non ci scoraggiano. Anzi, il lavoro compiuto si è potuto realizzare grazie al contribuito economico di singoli e realtà più grandi che hanno sognato con noi. Voglio citare solo un esempio; più di 100 produttori di ottimo vino italiano hanno creato “wine for life”: Comprando le bottiglie con il bollino rosso di “wine for life” si sostiene la cura dell’Aids in Africa e si beve vino di qualità.

10) Un’ultima nota, questa volta tecnica. Oggi tutto corre in rete, su internet: può dare ai nostri lettori qualche indicazione di siti internet vostri, che seguano le vostre attività, e/o di associazioni che siano a voi vicine in questi vostri progetti?

 www.dreamsantegidio.org

 www.wineforlife.com/

 https://portale.hsangiovanni.roma.it

 www.santegidio.org

Grazie, non solo per le risposte che darà ai nostri lettori, ma soprattutto per il Suo grande impegno.

Grazie a lei per la cura e la passione con cui ha preparato queste domande… Domande sicuramente impegnative a cui ho risposto con molto piacere.

  


 

 

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