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La morte e la fanciulla – Necrofilia al femminile di Bizzarro Bazar

Creato il 17 gennaio 2014 da Wsf

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Nella cultura occidentale, Eros e Thanatos sono interconnessi da sempre: il desiderio sessuale, che è esuberanza di vita, si rispecchia nel suo opposto, certo, ma talvolta vi coincide, trasfigurandosi. L’espressione francese la petite mort, usata per riferirsi all’orgasmo, fiorisce dall’idea che l’unione fisica sia una vera e propria fusione dei sensi – quindi annullamento dell’io e abbandono dell’identità singola. L’erotismo, scrive Bataille, “apre la strada alla morte. La morte apre la strada alla negazione delle nostre vite individuali”: per Foucault implica “l’esperienza della finitezza dell’essere, del limite e della trasgressione”, e nell’erotismo moderno le uniche forme di trasgressione ancora possibili sono quelle che vanno dal naturale al contro-naturale – verso la macchina, la bestia e il cadavere.

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La vicinanza di amore e morte è talmente presente nell’arte e nella letteratura (sopprattutto nell’800, si pensi al topos della “bella morta” che attraversa le opere dei preraffaelliti come di Poe, Baudelaire e dei romantici) che sorprende quanto invece le indagini psichiatriche sulla necrofilia siano, in confronto, rare e sporadiche.

Pur accettandone le versioni artistiche e in qualche modo mascherate dal simbolo, sembra quasi che il desiderio necrofilo fosse per gli studiosi il più orrendo e abominevole dei tabù: perfino Freud si rifiuta di parlarne approfonditamente e, dopo averlo menzionato in una sola frase, esclama: “Ma basta con questo tipo di orrore!” (La vita sessuale). Bisognerà aspettare il 1989 per il primo vero studio sull’argomento, ad opera di Rosman & Resnick, che analizzarono 122 casi e suddivisero questa parafilia in tre tipi: omicidio necrofilo, necrofilia regolare, e fantasia necrofila – distinguendoli ulteriormente dalla cosiddetta pseudonecrofilia (quando cioè l’atto necrofilo è opportunista o incidentale). Nel 2011 Aggrawal pubblica l’unica ricerca interdisciplinare davvero approfondita, Necrophilia: Forensic and Medicolegal Aspects, che suggerisce nuove e più dettagliate classificazioni.

Escludendo le derive più estreme (assassinio, mutilazioni, cannibalismo), nella maggioranza dei casi il necrofilo è una persona dalla bassa autostima, che ha provato il sesso tradizionale e ne è rimasto insoddisfatto o umiliato: la motivazione più comune che spinge il necrofilo a desiderare il contatto con i morti è il bisogno di un partner che non opponga resistenza e che non possa rifiutarlo. In altri casi, essendo stato esposto in giovane età al contatto con un morto, il terrore provato è stato trasformato in pulsione sessuale, come spesso accade nei feticismi. Seguendo la sua fissazione, il necrofilo ricerca occupazione in luoghi di lavoro che consentano un accesso più facile ai cadaveri, come ospedali o agenzie funebri. Non è raro che la necrofilia si sviluppi in direzione “romantica”, acquisendo cioè una componente di affetto reverenziale per la salma, che non viene semplicemente violata ma spesso accarezzata, confortata, come se fosse possibile donarle ancora gioia o piacere. Alcuni necrofili hanno espresso il loro disgusto per gli operatori funebri che mostrano poco rispetto per i morti: paradossalmente, nella loro fantasia, il cadavere non è un morto, e deve essere nuovamente umanizzato, “riportato in vita”, cioè considerato come una persona vera e propria.

Nella nostra immaginazione la figura del necrofilo è sempre maschile, e la sua “preda” una giovane e bella donna. Ma cosa accade quando la parte attiva è una donna, e il partner inerme e indifeso un uomo?

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Come nota Lisa Downing nel suo saggio sulla necrofilia nella letteratura francese dell’800, Desiring The Dead, il ripetuto focalizzarsi sulla penetrazione del cadavere negli scritti medici ha implicitamente relegato la necrofilia al regno della perversione maschile; pur essendo questa parafilia piuttosto rara (almeno stando alle statistiche forensi), la percentuale femminile si aggira attorno al 10-15% dei casi di cui siamo a conoscenza.

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Nel 1979 in California, all’età di 23 anni, Karen Greenlee era alla guida di un carro funebre: doveva consegnare una salma di un uomo di 33 anni al cimitero per il funerale. Decise invece di scappare con il morto, e venne trovata due giorni dopo, ancora in compagnia del cadavere. All’epoca non c’erano leggi in California contro la necrofilia, quindi la Greenlee venne denunciata per furto di autoveicolo e per disturbo di cerimonia funebre. Ma nella bara venne trovata una lettera in cui Karen dettagliava i suoi incontri erotici con altri 40 cadaveri maschili, e la donna fu bandita dalla professione. In seguito, la madre del morto che Karen aveva sequestrato la citò per danni morali ed emotivi, e la Greenlee venne condannata a un periodo di carcere, una multa e un forzato trattamento psichiatrico.

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Nel 1985, poco prima di ritirarsi a vita privata sotto nuovo nome, Karen Greenlee accettò di essere intervistata dal giornalista Jim Morton, in un articolo che diverrà noto con il titolo The Unrepentant Necrophile (“la necrofila impenitente”). Si tratta di un documento straordinario, per più di un motivo. Se inizialmente provava vergogna per i suoi desideri, all’epoca dell’intervista Karen sembra aver ormai accettato la sua condizione, e non è certo timida nel descrivere ciò che le piace:

il freddo, l’aura di morte, l’odore della morte, l’ambiente funerario… trovo l’odore della morte molto erotico. C’è odore e odore. Se prendi un corpo che ha galleggiato nella baia per due settimane, o una vittima di incendio, ecco, quello non mi attrae molto, ma un corpo imbalsamato di fresco è tutta un’altra cosa. C‘è anche questa attrazione per il sangue. Quando stai sopra a un corpo, tende a espellere sangue dalla bocca, mentre fai l’amore appassionatamente…

Nelle sue parole, il cadavere è oggetto d’amore e regala un’euforia particolare, quasi estatica; racconta inoltre di come si è introdotta di notte in obitori e tombe, e dice di essere stata sorpresa nell’atto più di una volta, senza conseguenze troppo gravi. Ma forse il momento più interessante è quando afferma che la domanda più comune che la riguarda è sempre la stessa: “come fa esattamente?”.

Per me non è un problema dire come lo faccio, ma chiunque abbia un po’ di esperienza sessuale non dovrebbe avere bisogno di chiederlo. La gente ha questo pregiudizio che ci debba per forza essere la penetrazione per la gratificazione sessuale, che è una stupidaggine! La parte più sensibile di una donna è comunque la parte frontale, e quella va stimolata. A parte questo, ci sono differenti aspetti dell’espressione sessuale: il contatto fisico, il 69, anche semplicemente tenersi per mano.

Il fatto che Karen Greenlee denunci la nozione fallocentrica e l’eccessiva importanza data alla penetrazione, è assolutamente in linea con la sua figura trasgressiva: questa donna infrange il tabù del sesso con i morti, e al tempo stesso inverte le gerarchie e i ruoli tradizionalmente femminili. Se n’è accorta Lena Wånggren, che nel suo saggio Death And Desire parla della necrofilia femminile come tragressione di genere: qui è la donna a “cacciare” e possedere, e il maschio diviene inerme e inanimato – l’esatto opposto della consueta figurazione che vede il maschio attivo e la femmina come passivo ricettacolo per la procreazione. La Greenlee non soltanto riduce il maschio a un oggetto, ma lo priva anche del mito del pene e della penetrazione.

In effetti, sembra che a suscitare scandalo sia proprio questo aspetto, ancor più che la necrofilia in sé: la Greenlee ricorda un fidanzato che, quando scoprì i suoi desideri, la schiaffeggiò e le disse che “non ero nemmeno una donna, e potevo andare a scoparmi i miei morti”. Ricorda anche uomini convinti di riuscire a “curarla”:

I ragazzi pensavano sempre che andassi alla ricerca di corpi morti perché mi mancava qualcosa, e che se fossi stata con loro mi avrebbero cambiato, e che loro erano quelli in grado di soddifarmi così tanto che non avrei più avuto bisogno dei cadaveri.

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La storia di Karen Greenlee ha ispirato nel 1992 il racconto We So Seldom Look On Love di Barbara Gowdy, da cui è stato in seguito tratto il film Kissed (1996) di Lynne Stopkewich. Entrambe le opere seguono piuttosto fedelmente la vicenda della Greenlee, e ne approfondiscono ulteriormente gli aspetti legati alla trasgressione dei comportamenti sessuali di genere.


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