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La morte: il buco nero della vita

Da Renzo Zambello
La morte

La morte

La morte e il pensiero umano

La morte è sempre stata un tema interessante per la filosofia, l’antropologia, il mondo artistico, la teologia e anche la psicoanalisi. ‘Ella’ è il nostro comune  inevitabile  destino.  E’  l’unica  certezza della vita.

Sul tema della morte sono stati prodotti un’enorme quantità di studi ed esperienze, atti a dare un senso, a svelare  “il grande mistero” della vita che  però è rimasto tale. Nessuno sa cosa vi sia oltre quella soglia e  ogni speculazione si basa solo sulla fede in positivo o in negativo. E’ sempre un atto di fede dire: oltre la morte non c’è niente. Chi lo dice ci crede, ma non ha nessuna prova. Così vale anche per gli altri.

Fin che non supereremo la soglia, possiamo solo fare congetture, pregare o, sproloquiare sul “nulla” ma non ci sottraiamo  all’ansia e alla  paura del vuoto. L’unica difesa che temporaneamente sembra funzionare è cercare di trovare i mezzi che allontanino l’evento,  o attivare la ‘negazione’ psicologica. Sprechiamo un’incredibile quantità di ‘energia mentale’ per negare la morte. Passiamo la vita facendo finta che non ci sia o per lo meno che non ci riguardi. E poi, quando ci interesserà,   non avremo tempo per accorgercene.

A poco son valse le acrobazie verbali,  soprattutto dei filosofi che,  fin dall’antichità,  hanno cercato  con sofistici ragionamenti di annullare   il problema. Ricordiamo Epicuro: “Non dobbiamo avere paura della morte perché quando ci siamo noi lei non c’è ancora, e quando c’è lei non ci siamo più noi.

La morte esiste e, non solo è l’antitesi della vita,   ma consumiamo  gran parte della vita  nella paura di essa. Aveva ragione Seneca quando diceva: “Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.

E’ proprio questo invito di Seneca ad imparare a morire, il campo di interesse della psicoanalisi.

Freud elaborò la sua teoria delle pulsioni, Eros e Thanatos,  rispettivamente la ‘pulsione di vita’ e la ‘pulsione di morte’  scrivendo “Al di la del principio del piacere” (1920),  dopo la prima guerra mondiale. Ciò che spinse Freud a scrivere   non fu tanto che la guerra si fosse rivelata  una immensa carneficina e che avesse fatto emergere un’aggressività che non poteva essere estirpata. A lui  interessava  la ricaduta a livello soggettivo del trauma bellico sui reduci e   l’esperienza traumatica della guerra. Anche se  venivano attivati   sia socialmente che individualmente  meccanismi di  negazione, essa ritornava  intatta nei sogni  convertendosi in  sintomi nevrotici. Era la ‘coazione a ripetere’ quello che aveva spinto  Freud ad elaborare l’idea di una pulsione non eliminabile dal soggetto: “la pulsione di morte”.

I tragici fatti di questi giorni, di quei poveri ragazzi a Roma, sembrano dargli ragione.

La morte, come un ‘buco nero’, non visibile e negata a livello cosciente, attrae e annulla ogni cosa che gli si avvicina, opponendosi al piacere, alla creatività,  cioè: alla vita. Ora se è vero che  nulla possiamo  rispetto alla ineluttabilità della morte e  forse mai ne conosceremo il perché, dovremmo però  cercare di ridurre il più possibile l’influenza nevrotica di essa sulla nostra esistenza. In realtà viviamo come se una parte di noi fosse già morta.

La nostra è un’epoca che rispetto alla morte vive un paradosso: la neghiamo e la nascondiamo. Nessuno vive più in contatto con i morti. Ricordo, quand’ero bambino, che il morto veniva esposto, la gente viveva il lutto che si protraeva per settimane. Vi erano segni e comportamenti che aiutavano ad elaborarlo. L’elaborazione del lutto è un passaggio obbligatorio a livello mentale. Oggi tutto è veloce, se è possibile, negato e nascosto. Non c’è tempo per ‘piangere’ i morti.

L’importante è vivere a lungo e sempre giovani e belli.

Che follia.

E’ questo negare l’importanza, il riconoscimento, la bellezza, l’unicità di quello che Il vecchio è diventato,  dopo un lungo cammino nella vita. Negare, non vedere e non amare la conoscenza che è nelle pieghe della sua pelle. Lo etichettiamo solo come non più giovane e bello,  non riconosciamo la ricchezza, la bellezza estetica di ciò che è diventato.

Cosa c’è di più bello di un viso segnato da rughe profonde che raccontano la storia?

E’ la morte che coltiviamo in noi,  che ci abbaglia e ci spinge a valutare in funzione di ciò che non è più e a non vedere ciò che è.

I vecchi dovrebbero essere esplorati”  come dice T.S. Eliot

Molti di loro, hanno trovato il segreto per sconfiggere la morte, ed è quello che traspariva in mia nonna. Mia nonna,  donna di 94 anni,  da anni bloccata in casa, una vita passata a lavorare e far figli.  Quando le chiedevo come si sentisse,  mirando a capire se era contenta,  mi guardava e con un sorriso di comprensione,  leggendo le mie ansie,  mi prendeva  la mano e diceva: “A me, questo po’ di luce, mi piace”.  Quello era il suo segreto: la gioia di vivere.

Poi venne il giorno, si sentì stanca. Il medico disse che era meglio ricoverarla. Il giorno dopo, un altro decretò che non c’erano speranze,  ma  lei lo sapeva. Chiese di vedere tutti e  tutti ci andammo. Non disse una parola in più. Parlava poco mia nonna. Volle dare un ‘bacetto’ ad ognuno e aggiunse:  “ora andate, non c’è altro”.

Dopo due ore era morta.

Mia nonna che non aveva fatto la quinta elementare, aveva raggiunto nella  sua vecchiaia  la conoscenza del grande Leonardo da Vinci quando scriveva: “Come dopo un’intensa giornata vissuta un sonno ristoratore è la cosa più gradita, così la morte dopo una vita intensamente vissuta”.

Di Renzo Zambello

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