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LA PAROLA PLURALE. “Ero(s)diade” di Antonino Contiliano. Saggio di Marta Barbaro

Creato il 24 gennaio 2012 da Retroguardia

LA PAROLA PLURALE. “Ero(s)diade” di Antonino Contiliano. Saggio di Marta BarbaroLa parola plurale. Ero(s)diade di Antonino Contiliano.

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di Marta Barbaro (1)

.

non dirmi più canto la poesia
dell’uomo o l’elegia del virtuale dolore
o va dove il verso ti porta delle ali
controcorrente per abbattere gli stealth
e il silenzio dei radar e delle veline
e le vergogne delle zattere e dei gommoni
o dei capannoni dell’ospitalità per le stragi
questa è una buona brava guerra!
Buona guerra (2)

.

Per presentare l’ultima raccolta poetica di Antonino Contiliano, Sergio Pattavina chiama in causa la satura latina della Roma imperiale e, servendosi delle parole di Hegel, punta l’accento sull’«appassionata indignazione» di un animo virtuoso che si trova impotente e adirato contro un mondo che «contraddice alle sue idee di virtù e verità» (3). L’accostamento alla satura si rivela particolarmente felice se si considera, unitamente all’aspetto ideologico e antagonistico, l’esito compositivo dell’Ero(s)diade di Contiliano (Quaderni di “Collettivo R/Atahualpa”, 2010), tenendo a mente la formula, coniata da Edoardo Sanguineti, di coincidenza fra Ideologia e linguaggio (4); la raccolta si presenta, infatti, come una mescolanza di tematiche e di misure espressive, di linguaggi e di discorsi, che sembrano aggredire il lettore per un eccesso di sapori.

In Ero(s)diade c’è di tutto: dalle guerre alle migrazioni, dall’invettiva anticlericale alla denuncia dell’economia neoliberista, dalle catastrofi ambientali all’11 settembre, dalla cronaca alla politica, con nomi, cognomi e fatti che interessano la vita italiana e mondiale; e ancora, attingendo dagli slogan della comunicazione televisiva così come dal cinema e dai linguaggi settoriali, e alternando le competenze di astronomia e di fisica quantistica con quelle del mondo informatico e tecnologico, si passa dal macro della storia e della cosmologia al micro delle particelle subatomiche e dei bit digitali. Non solo ogni testo investe un ambito o un problema diverso del nostro presente, così come ci indicano i diversi titoli, ma all’interno di ogni singolo componimento i temi e i codici s’intrecciano e sembrano generarsi gli uni dagli altri.

A condurre questi slittamenti di campo e di senso è un ininterrotto e vertiginoso gioco verbale che, facendosi protagonista e attore, esclude dalle sue trame, dal textum, l’intervento di un io lirico predisposto a filtrare e a disciplinare le informazioni e i saperi. Disarticolando la sintassi e la logica a favore dell’esuberanza del lessico, il poeta occulta la propria regia autoriale e lascia che a comunicare sia la materialità della parola stessa. La metamorfosi semantica si origina, così, per effetto di una manipolazione del significante che, ora insiste sull’ambiguità segnica della parola, ora insegue imprevedibili accostamenti fonici e fonologici dilatando lo spettro delle possibilità paronomasiche (5). Si va dalle combinazioni più semplici

privato è bello, è religioso mantello

il tasso è sceso basso, lascia il paradiso

la classe va in classe, siede e si declassa

sono pronti, sono protoni, sono plotoni (6)

dove basta aggiungere un prefisso (classe/declassa) o sostituire un fonema (protoni/plotoni) per ottenere uno spostamento di senso; a quelle più ardite, come in questa sequenza del componimento proemiale, dove l’impasto plurilinguistico fa appello all’abilità e alla malizia del lettore:

giacobino o bolscevico, mai Mao al club

del G8, may day mai dai venti se sei sei

good e beds, e n’est pas réseau d’egaux

nettezza spia e fermenta gli eventi

e sub-urbana è negotia bicamerale (7)

Se in una simile dispositio anche il lessema più neutro come venti può evocare associazioni non scontate – e perché no, anche alludere al club economico del G20 – va da sé che la decodifica del messaggio non si raggiunge cercando di ricostruire i nessi sintattici, ma si struttura intorno ad alcune parole chiave che orientano, per via subliminale, le inferenze del lettore. In Il serpente di Epidauro, ad esempio, lo scenario si apre sull’ospedale dell’Isola Tiberina, ma l’oscillazione della parola cura in curia/centuria/incuria fa scivolare il discorso verso un altro campo semantico che si va definendo per successive approssimazioni:

Il serpente di Epidauro ti fu sorgente

Tiberina, e cura per lebrosi e degenti

e poi colonna infame, madonna

e annona di ebrei in grazia di curia

per centuria e altre bambole di tortura

quelli che paparé in ghetto incuria

ha depurato escherichia coli 0157

l’ano medievale giubilante e ubi

di preti con omelia e liturgia in reti

annosi di penía e culomania ora (8)

È come se le parole camuffate – o sabotate – vogliano nascondere il significato, ma così facendo lo restituiscono rafforzato, fino poi a condurre a delle sentenze satiriche che colpiscono con nettezza i propri bersagli polemici:

nobis ti manca per le morti bianche

che Ratzinger bianco tutù

razzola ideologia e morti neri in sacrestia (9)

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma basti a svelare il meccanismo della raccolta l’insistenza del gioco omofonico sul tema collo che, da un componimento all’altro, dà origine a serie flessive del tipo collo/decolli/colli o decolla/decollato (10), dove decollato è il termine taciuto ma sottinteso già nel titolo Ero(s)diade (11). Contiliano, quindi – in modo più radicale rispetto alle precedenti raccolte poetiche, e con esiti che si avvicinano maggiormente alle prove di poesia collettiva che va sperimentando dal 2003 con Compagni di strada caminando – crea il suo testo come una rete dinamica di rapporti fonici, strutturali e semantici, e fa in modo che, una volta innescato, il processo di significazione scorra quasi da sé, nel suo libero e aperto movimento.

L’effetto d’insieme è quello di un piano sequenza eseguito ad alta velocità (12) che, se può inizialmente frastornare il lettore impedendogli di coglierne gli elementi discreti, riproduce alla perfezione la dimensione percettiva dell’umanità globale e tecnologica, e ci mette di fronte alla complessità del mondo in cui viviamo. La poesia si fa specchio di una realtà intricata e caotica che pare procedere da sola, fuori da ogni nostro controllo: da un lato come una memoria, un archivio dei contenuti espliciti e rimossi del nostro presente – ROM, read only memory, suggerisce il titolo di una poesia di Ero(s)diade – riversa contro il lettore l’orrore degli eventi e il dolore degli uomini; dall’altro, l’interconnessione dei linguaggi e dei piani dell’esistenza globalizzata si palesa direttamente nel disordine formale, specchio del disordine teorico, epistemologico e morale.

Il recupero dell’eredità più fertile delle ultime avanguardie – «poesia quale mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato» (13) – è esplicito, dichiarato, per altro, dal poeta stesso in numerosi interventi di carattere teorico-programmatico:

«L’opposizione della parola poetica allora deve funzionare – come quella di cui parla Stendhal in Rosso e Nero – alla stregua dello specchio che si trova all’interno di una gerla e sulle spalle di un uomo: «uno specchio che uno porta lungo una strada. Ora riflette l’azzurro dei cieli, ora il fango dei pantani. E voi accusereste di immoralità l’uomo che porta lo specchio nella gerla? Il suo specchio mostra il fango, e voi accusate lo specchio! Accusate piuttosto il pantano, e più ancora l’ispettore stradale che lascia stagnare l’acqua e formarsi il pantano».(14)

Ero(s)diade ci prospetta, quindi, una discesa in quella che Sanguineti definiva la Palus putredinis (15), non per proclamarne la resa, ma per uscirne «con le mani sporche» e con una nuova consapevolezza. Una mossa conoscitiva che fa leva innanzitutto sul linguaggio e usa il laboratorio linguistico come prassi contestativa e come denuncia di una condizione antropologica:

«La parola poetica, così, già in quanto parola è un’azione in pubblico e volta alla comunicazione quanto all’azione in comune; se poi in quanto parola d’avanguardia artistica ne sovverte il senso comune attraverso i diversi ‘schemi’ compositivi e figurativi, allora si propone anche come un ‘impegno’, un’ipotesi e una promessa d’azione volte a demistificare i sensi dell’omologazione standard che formatta le coscienze e assopisce il dissenso. Come engagement non può d’altro canto, se vuole modificare e orientare gli assetti percettivi e di azione in senso conflittuale e di opposizione, che lavorare sul linguaggio come pratica semiotica e significante dirompente e dissacrante». (16)

I versi citati in epigrafe, tratti dal terzo componimento della raccolta, dal titolo Buona guerra, sono una chiara dichiarazione di poetica, una precisa scelta di campo a favore di una poesia antagonistica, che sia sfida, provocazione, guerra contro la falsificazione del linguaggio e la degradazione dell’umano. Il rifiuto nei confronti di un verseggiare lamentevole e consolatorio, di una poesia elegiaca e del ripiegamento interiore, della fuga nel sogno metafisico, è netto («non dirmi più canto la poesia / dell’uomo o l’elegia del virtuale dolore / o va dove il verso ti porta delle ali»); un tale genere di poesia – afferma Contiliano in altro contesto (17) – che ruota attorno al soggetto “lirico-intimistico” non fa che riprodurre i rapporti di forza e le dinamiche relazionali dell’individualismo capitalistico, cui invano cercherebbe di opporsi. Per essere autenticamente «controcorrente», al discorso poetico s’impone, quale necessità storica, una compromissione con la realtà; il poeta deve sapere affinare lo sguardo e affilare le proprie armi, preparando una strategia d’attacco corazzata contro le astuzie mediatiche, che sappia ad un tempo riscattare la complessità e socialità del linguaggio e sottrarsi alle maglie omologanti del mercato estetico: occorre rispondere alla guerra con la guerra.

Ma di quali guerre parla Antonino Contiliano? Da una parte, delle guerre reali, dei genocidi e delle guerre civili, delle guerre etniche e di religione, delle guerre africane e di quelle esportate dai paesi occidentali in nome della pace e della democrazia, delle stragi operate dalla mafia e dalla fame; delle guerre che, trasmesse in diretta televisiva, diventano spettacolo per nutrire la pena, l’indifferenza e il senso d’impotenza degli uomini di ogni parte del mondo:

amo questa buona guerra brava

questa guerra europea pasciuta

non ultima tra cotanto dis-senno

per di-visione e tendenza bit in tele-visione

che fotogramma l’audience e si svena

per questo sparando pietà di cocco in web

e tende di profughi morti di fame e vivi

per libertà non più cara così caro a dirlo (18)

Il poeta, però, non si ferma ad uno scatto d’insofferenza e di ribellione irrazionale, e si serve di una ricca e aggiornata strumentazione teorico-filosofica – Marx e i filosofi della scuola di Francoforte, insieme a Arendt, Lacan, Bauman, Morin, Slavoj Žižek sono i nomi più frequenti nei suoi saggi – per tradurre in versi la sua analisi politico-sociologica e andare dietro, alla radice del disagio postmoderno. Dietro ogni guerra, denuncia Contiliano, vi è la «mano invisibile» del neoliberismo economico e finanziario che, in nome del libero mercato, della “trasparenza” e della “flessibilità”, semina ovunque povertà e distruzione – «crisi economiche e finanziarie virulente, crisi ambientale ed energetica, militarizzazione della vita sociale e criminalizzazione del dissenso politico» (19) – a beneficio dei pochi ricchi e potenti:

fredda calda evapora calura

pura la cultura del terrore

è solo calda ora, la guerra

il muro del suono è radio-

azione di fondo… uniforme

a chi, l’urlo

di questo macello ininterrotto

incendio meridiano e parallelo

infinito massacro di poveri

a chi la mattanza

rifiuti e dannati superflui

collaterali e danni, previsti

del sacro capitale orbitale

doge il mare scafista e vitale (20)

La «buona guerra brava» è, in definitiva, la guerra del capitale e del profitto privato, la «rivoluzione globale neoliberista», che per nutrire il proprio sistema parassitario ha bisogno di continuare a sfruttare gli antichi schiavi – nei continenti lontani pre-capitalistici – e di crearne di nuovi, quelli che negli stessi paesi occidentali alimentano l’economia del consumo immateriale e dei linguaggi. Da qui il sottotitolo della raccolta, La binaria dell’asiento (21), sistema postmoderno del mercato schiavistico, e possibile chiave di lettura di un percorso testuale volto a smascherare la natura di una libertà sottratta alle scelte degli uomini, in un mondo in cui l’economia capitalistica si presenta come l’unica scelta possibile.

Il primo verso del testo citato, Buona guerra, è – a nostro giudizio – emblematico: «Della siepe l’oltre elettronico / è muto,», una citazione leopardiana travestita, e traslata in un presente che non promette nessun dolce naufragio. Il progresso economico e tecnologico, infatti, che oggi ci consente di superare le barriere fisiche (la siepe) grazie alla comunicazione elettronica e digitale, non corrisponde affatto alla proiezione della fantasia e alla liberazione dell’immaginazione: l’infinito silenzio leopardiano è diventato un silenzio muto. Non si tratta di un’invettiva contro le risorse dell’informatica e della rete, di cui Contiliano è piuttosto un abile e consapevole pilota, ma della denuncia di una condizione d’impotenza, di una prigionia intellettuale e sociale, che può essere utile illuminare attraverso una riflessione di Zygmunt Bauman:

«Certamente, noi consideriamo la libertà umana, almeno nella “nostra parte” del mondo, un fatto ovvio e (salvo qualche correzione da apportare qua e là) una questione risolta nel modo più soddisfacente possibile; in ogni caso, non sentiamo il bisogno (di nuovo, a parte la blanda irritazione che ci prende ogni tanto) di scendere in piazza per rivendicare ed esigere una libertà maggiore o più completa di quella che ci sembra di possedere già. D’altro canto, tendiamo a credere con uguale fermezza di non poter fare molto – individualmente, con alcuni altri o tutti insieme – per cambiare il modo in cui vanno o sono fatte andare le cose nel mondo; inoltre, siamo convinti che, se anche riuscissimo a produrre un cambiamento, sarebbe vano, per non dire irragionevole, elaborare insieme l’idea di un mondo diverso da quello esistente e, qualora lo considerassimo migliore di quello in cui viviamo, impegnarci a fondo nella sua costruzione. Come si possa credere l’una e l’altra cosa al tempo stesso è un mistero per chiunque sia avvezzo a ragionare in termini logici. Se la battaglia per la libertà è stata vinta, come si spiega che la capacità umana di immaginare un mondo migliore e di far qualcosa per migliorarlo non è fra i trofei di quella vittoria? E ancora, che genere di libertà è quella che frustra l’immaginazione e tollera l’impotenza delle persone libere nelle questioni che le riguardano?» (22)

Di fronte a questo stato di cose, che priva il cittadino globale della dimensione sociale e politica e, di conseguenza, della stessa possibilità di pensare un futuro collettivo, s’innesca la contromossa rivoluzionaria e utopica propria di ogni avanguardia: contro il silenzio della rassegnazione e del vaniloquio mediatico – e «silenzio» è altra parola chiave della raccolta – si leva la voce del dissenso, alla guerra brava delle armi si oppone la buona brava guerra della parola poetica. E innanzitutto il potere della poesia, proprio per la natura dei suoi segni linguistici, è quello di rompere le catene dell’esistente e «cambiare percezioni, comportamenti e azioni» (23) degli uomini. Non solo agisce come forza critica, eversione esercitata dal linguaggio e sul linguaggio, smontaggio di significati falsi e normalizzati, ma in virtù della polivalenza e della complessità semantica che innesta nel discorso, estende le possibilità costruttive dell’immaginazione.

La rivoluzione è tale, così ha insegnato a noi postumi la tradizione della modernità, a partire dal sogno di un mondo alternativo a quello esistente, da un’idea di felicità possibile e condivisibile; la poesia – e in ciò consiste la sfida di Contiliano – in quanto spazio-tempo utopico per eccellenza, costitutivamente aperto all’imprevedibile e all’impensabile, deve farsi carico di questa istanza di liberazione e rigenerazione. Come ha ben evidenziato Francesco Muzzioli, alla pars destruens si affianca una pars costruens, al conflitto e all’accusa, succede l’utopia e il sogno collettivo: «e perciò a controcanto dell’ideologia della guerra, che sostiene pervicacemente che saremo sicuri solo quando “gli altri” saranno stati tutti eliminati, sta l’utopia della fratellanza, che ribatte la contro-argomentazione che non saremo salvi se non tutti insieme» (24).

Se ha ancora senso oggi, in epoca postmoderna (o post-postmoderna?), parlare di poesia d’avanguardia, occorre però aggiornare le nozioni e le strategie, adattandole ai contesti mutati; in questo senso Contiliano persegue la sua doppia utopia – volgendosi congiuntamente, avverte sempre Muzzioli, al corpo della parola e al significato, al tessuto verbale e a quello sociale – mettendo in atto strategie retoriche che fanno proprio il portato innovativo delle scienze e delle tecnologie contemporanee, piegandolo ad un uso poetico. Si comprende, allora, come l’apporto dei saperi e dei linguaggi scientifici nell’impasto lessicale valga anche come apertura a nuove configurazioni epistemiche, e come la compresenza di mondi-modi, evidenziata all’inizio, attivi dentro e fuori dal testo logiche alternative e polisemiche.

Le parole d’ordine sono complicazione (o “complessificazione”) e polifonia, dettate entrambe dalla necessità di trovare una via di uscita al silenzio muto della comunicazione e della vita postmoderne: di ribaltare la complessità come caos indifferenziato nella vitalità delle differenze, la “trasparenza” senza spessore nella concretezza dei fatti, la passività in creatività, l’identità dell’io privato nella pluralità del soggetto politico. Una poesia civile, quella di Contiliano, che vuole essere un’agora contemporanea – tornando ancora una volta a Bauman – spazio pubblico-privato, dell’incontro e del conflitto, spazio politico in cui l’io e il noi rinegoziano i propri significati.

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NOTE

(1) Nota. Il saggio di Marta Barbaro (La parola plurale. Ero(s)diade di Antonino Contiliano) è stato pubblicato sulla rivista “Arenaria- ragguagli di letteratura/cinque”  nel mese di luglio 2011. La collana di ragguagli di letteratura moderna e contemporanea è a cura del poeta Lucio Zinna.

(2) Antonino Contiliano, Buona guerra, in Ero(s)diade. La binaria dell’asiento, Quaderni di “Collettivo R/Atahualpa”, 2010, p. 19.

(3) Sergio Pattavina, L’indignazione di Contiliano. Introduzione a A. Contiliano, Ero(s)diade, cit., p. 10.

(4) Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1965; poi ristampato dallo stesso editore nel 2001.

(5) Sul laboratorio linguistico di Contiliano così si esprime Muzzioli: «Tutte le parole sono come passate dentro una pronuncia che le “mastica” (le manipola e le manomette), innanzitutto per strapparle alla loro banalità convenzionale e alla patina del consumo, e inoltre per scavarle e analizzarle nelle loro ulteriori potenzialità. Che questo avvenga attraverso la spezzatura, con il trattino (…) o con altri strumenti di interruzione, come le barre trasversali e le parentesi; oppure attraverso l’accostamento omofonico della paronomasia (…) fa poca differenza. L’importante è che le parole abbandonino la loro fissità e che, ritornando plastiche, si diano al gioco e all’infinita proliferazione» (Francesco Muzzioli, La doppia utopia di Antonino Contiliano. Introduzione a Antonino Contiliano, Tempo spaginato. Chi-asmo, Edizioni Polistampa, Firenze, 2007, p. 11).

(6) A. Contiliano, Thinks Tanks, in Ero(s)diade, cit., pp. 39-40.

(7) Id., Ero(s)diade, in Ero(s)diade, cit., pp. 15.

(8) Id., Il serpente di Epidauro, in Ero(s)diade, cit., p. 66.

(9) ibidem.

(10) «il dolore perde la voce e si abbatte / sui questi tuoi campi complici decolli / e dal collo ai fianchi non sosta / sta migrante ai colli le nude curve» (L’attesa, in Ero(s)diade, cit., p. 25) e «aggiotaggio enrangés i sanculotti / a mediaset medium l’emozional- / emoticon popular bandoliero decolla / il decollato nazional delle bandere nere / Giovanni cantiere delle libertà aperto / …» (Ero(s)diade, in Ero(s)diade, cit., p. 15); miei i corsivi.

(11) Non occorre ricordare che nel Vangelo secondo Marco, Erodiade è colei che vuole fare uccidere Giovanni Battista per metterne a tacere la voce e spegnerne per sempre il dissenso. La donna, disposta a tutto pur di rimanere al potere, si serve della figlia, della seduzione della danza di Salomè, per ottenere da Erode la testa del Battista servita su un piatto d’argento. Che già nel titolo della raccolta, Contiliano voglia alludere ad un potere occulto che taglia la testa al dissenso o, come sostiene Pattavina, «alla richiesta della testa del critico, che osi denunciare la trasgressione rispetto all’etica-estetica della tradizione letteraria» (S. Pattavina, L’indignazione di Contiliano, cit., p. 7), ciò che qui importa è che la parola allegorica attiva «una dimensione semantica demistificante e plurale» (A. Contiliano, Tempo Molteplicità Identità, in «Retroguardia»  Quaderno elettronico di critica letteraria a cura di Francesco Sasso, n°15, 2009, p. 31).

(12) A margine, è interessante notare – in ragione del precedente riferimento alle opere di poesia collettiva – come la tecnica compositiva del trittico di lavori formato da Compagni di strada caminando (Edizioni Riccardi, 2003), Marcha hacker/risata cyberfreak (Promopress, 2005) e ’Elmotell blues (Navarra Editore, Marsala-Palermo, 2007) non sia più quella del piano sequenza, difficilmente eseguibile a più mani, ma il montaggio di testi scritti da autori diversi, cui Contiliano imprime «una regia individuale molto sostenuta e caratterizzata in senso anarchicamente inventivo» (cfr. Mario Lunetta, Le corporeità plurali di Antonino Contiliano. Introduzione a ’Elmotell blues, cit., 2007, p. 5).

(13) Così Alfredo Giuliani nella Prefazione all’antologia de I Novissimi. Poesie per gli anni ’60 (1961; Einaudi, Torino, 1965, p. 9).

(14) A. Contiliano, Tempo Molteplicità Identità, cit., p. 7.

(15) Cfr. E. Sanguineti, Laborintus e Poesia informale?, in I Novissimi, cit., p. 95 e 204.

(16) A. Contiliano, Tempo Molteplicità Identità, cit., p. 7.

(17) Cfr. Id., Per una critica dell’economia poetica dell’Io, in «Retroguardia» Quaderno elettronico di critica letteraria a cura di Francesco Sasso, n°18, 2009.

(18) Id., Buona guerra, cit., p. 18.

(19) Id., Il teorema di Gödel e gli “Intellettuali radicali”. Le lezioni delle “cause perse”, in http://www.vicoacitillo.net/alexanderplatz/index.html, Napoli, 2010.

(20) Id., La veglia dei giorni, in Ero(s)diade, cit., p. 22. Il testo era già stato pubblicato nell’e-book Calpestare l’oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale per la resistenza della memoria repubblicana, a cura di Davide Nota e Fabio Orecchini, La Gru. Portale di poesia e realtà in collaborazione con Argo, L’Unità, Left, 2010, p. 34.

(21) Si cita la nota dell’autore al testo Binaria dark: «(Asiento) Ogni accordo (età moderna) tra lo stato spagnolo e privati assuntori di pubblici servizi, forniture, ecc. In particolare era la convenzione con cui la Spagna concedeva a una compagnia commerciale il monopolio dell’importazione di schiavi neri sulle colonie americane. Con il trattato di Utrecht (1713) il privilegio fu riservato alla britannica Compagnia dei mari del sud che lo mantenne fino alla metà del Settecento, quando il commercio schiavistico divenne sostanzialmente libero» (A. Contiliano, Binaria dark, in Ero(s)diade, cit., p. 17). Si noti anche come il titolo del testo in questione, Binaria dark, alluda contemporaneamente al titolo dell’intera raccolta (lo conferma il recupero del termine asiento nell’ultima strofa del testo) e al fenomeno astronomico del dark matter (espressione presente al v. 2): un altro esempio di come il discorso poetico di Contiliano fonda mondi-modi distanti per costruire le sue piste di senso.

(22) Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, 1999, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 9.

(23) A. Contiliano, Tempo Molteplicità Identità, cit., p. 7.

(24) Francesco Muzzioli, La doppia utopia di Antonino Contiliano, cit., p. 12.

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LA PAROLA PLURALE. “Ero(s)diade” di Antonino Contiliano. Saggio di Marta Barbaro
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