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La passione del “noi” tra il XX° e il XIX°

Creato il 05 maggio 2010 da Retroguardia

 La passione del “noi” tra il XX° e il XIX°

di Antonino Contiliano

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Alain Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano, 2006.

Giacomo Marramao, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

I due libri – Il secolo di Alain Badiou e La passione del presente di Giacomo Marramao – sono stati pubblicati in Italia a distanza di due anni l’uno dall’altro. I due lavori tematizzano, si può dire senza ombra di dubbio, il qui e ora, ovvero il reale e il presente del tempo storico di riferimento.

Il secolo di Alain Badiou è il XX° secolo con la sua volontà di potenza (ne fa fede la coscienza filosofica e politica che l’autore tratteggia attraverso vari documenti d’epoca: poesia, manifesti avanguardistici, opere d’arte…) come “passione del reale”, ovvero l’impegno e la lotta per la realizzazione dell’uomo e della società nuovi di cui il XIX° era stato l’anticipazione utopica o la promessa di nuova identità. Indicativo della marcia del libro può essere l’indice dei nomi che Badiou sceglie per le sue lezioni e le sue argomentazioni: questioni di metodo, la bestia, il non-riconciliato, un mondo nuovo: sì, ma quando?, passione del reale e montaggio della finzione, uno si divide in due, crisi di sesso, anabasi, sette variazioni, crudeltà, avanguardie, l’infinito, sparizioni congiunte dell’Uomo e di Dio.

La passione del presente di Giacomo Marramao attiene (ne fa fede l’indice del libro che sintetizza le voci sotto il titolo di: passaggi, dilemmi, costellazioni, confini, endiadi) invece il reale del XXI° con le sue drammatiche lacerazioni che investono la “forma” della realtà storica nostra e mondiale sotto il rullo compressore della crisi orizzontale e verticale contemporanea. Così sono messe a microscopio e lente d’ingrandimento categorie come: modernità-mondo e cosmopolis, identità e statuto pluriversale del sé, kairòs e sindrome della fretta, messianesimo e ontologia della libertà in Marcuse, humanitas e civitas, dall’ordine hobessiano al cosmopolitismo della differenza, postsecolarismo e multiversum, epifanie, la rappresentazione e il rimosso.

I due autori, rispettivamente, si soffermano dunque sul secolo uscente e quello nascente affrontando il tema del reale come presente e del presente come reale in una con il rapporto che le soggettività individuali e sociali vi innestano con la loro potenza trasformatrice e il problema dell’identità in senso lato. Un rapporto che si consuma ora come riduzione dell’io al noi, fusi o antagonisti, ora come identità singolari conflittuali ma irriducibile differenza.

Potremmo dire, volendo azzardare un’esemplificazione significante,  che Badiou affronta la volontà del secolo XX° come realizzante la forma dell’identità monolitica, una. Un’identità perseguita all’insegna di un’idea comunque astratta. Poca o nessuna differenza faceva l’ordine dell’universo di provenienza; religioso, tecnico, politico, filosofico, culturale, economico, sociologico etc. fosse l’origine, l’idea centrale era, e doveva rimanere, quella di omogeneizzare secondo i termini del modello prescelto e perseguito obbligando vita e storia a coincidere fin dall’hic et nunc.

 Marramao, attraversando la civitas della realtà municipale che ha segnato la nascita del “comune” nell’Italia postmedioevale e moderna, invece parla della portata modellante concreta che hanno avuto i flussi migratori per la costruzione di una identità individuale e sociale fuori dagli schemi precostituiti.

Crogiuolo vivo e quotidiano, i flussi migratori contemporanei globali, di ieri e di oggi (“Passaggio a Occidente”), interni ed esterni, hanno costruito  le identità come un tessuto che autonomamente e liberamente intreccia/va fili sociali diversi per natura e provenienza.  Non era un caso che la verità del quotidiano vivere nelle città comunali di allora significativamente si sintetizzasse nell’espressione “l’aria della città rende liberi”.

Una libertà che si andava consolidando man mano che l’essere-insieme era il risultato di un miscelarsi reciproco e consequenziale al processo di ibridazione che dava vita a un’identità pluralizzata. Ognuno, in un mutuo scambio soggettivamente rielaborato e socialmente rimesso in circolo per una significativa relazione cooperativa in itinere, dava, riceveva e ritornava quanto modificato. L’identità non è mai qualcosa di sostanziale e immutabile, quanto invece un processo relazionale dinamico.

La civiltà comunale italiana così realizzò, e propose alla storia, un modello chiasmatico tra individui e contesto che nulla ha delle rigidità e delle chiusure proprie al XX° e ai cortili di casa propria del XXI°. Nonostante l’abbattimento delle frontiere, la libera circolazione, il diritto all’emigrazione e la pretesa che reale e presente coincidano in tempo reale, i muri si fanno più alti. In un presente che fa coabitare e concrescere miscelandoli contemporaneo e non contemporaneo, simmetrico e asimmetrico, sincronico e diacronico, infatti, si ritorna a dividere tra cittadini e barbari e a stigmatizzare l’identità dello straniero come minaccia e pericolo per la sicurezza di casa propria.

Un chiasma, si potrebbe dire, così accomuna i due autori – il reale è il presente o il presente è il reale; l’io è il noi compatto o il noi è l’io plurale –, mentre, per usare un’espressione di Marramao, una sola mano (il XX°) scrive che l’unica identità deve essere quella dell’“universale” della razionalità occidentale, lì dove il XXI° deve invece scrivere con una mano la parola “universale” e con l’altra “differenza”. Universale è solo la differenza, batte e ribatte Giacomo Marramao nel suo libro “La passione del presente”.

Una passione incommensurabile ma non per questo incomparabile e incompatibile, specie oggi in cui il tempo dei flussi migratori e delle identità mescola e vive della mutua interazione cooperativa e orizzontale. L’ibridazione sociale e culturale di fatto mostra come interagiscano attivamente e cooperativamente le diverse identità lì dove non intervengano le politiche securitarie e chiuse dei morenti Stati nazionali. La sicurezza cioè privatizzata e privatistica che, dietro gli sfondamenti del libero mercato, della privatizzazione della vita pubblica e dei rigurgiti identitari etnico-razziali (rifatti con la stoffa della culturalizzazione escludente), si dimentica che l’etica del bene comune, oggi, è relazione inclusiva e a livello planetario.  

L’ibridazione funziona tuttavia come un chiasma poli-asimmetrico attivo, e ciò nonostante gli scongiuri e gli anatemi delle vecchie simmetrie riduzionistico-identitarie difese dal filo spinato territoriale. La delimitazione cioè che divide gli amici dai nemici, l’hostes dall’hospes, lo straniero dal cittadino.  Indigeno e straniero invece coabitano e convivono pacificamente a dispetto di chi si prodiga diversamente, e il chiasma funziona perché appunto multi-pluri-verso.

Una storia polisemantica agente, questo chiasma (e disimmetrico) che attraversa gli ultimi due secoli del nostro mondo con la forza e la potenza della passione culturale e politica dell’identità (ampio senso). Un’identità vista ora nel suo aspetto sostanziale e di sintesi dialettica omogeneizzante, ora nella sua dimensione di relazione plurale di sintesi disgiuntiva o con-essere-insieme di singolarità eterogenee. Differenze plurali, come plurale è l’identità di ciascun io in quanto processo continuo di relazioni storiche e determinate. Un divenire di rapporti e intrecci che ibridandosi reciprocamente stanno insieme conflittualmente in maniera strutturale e permanente, in quanto l’universo, dice Marramao,  è un multiverso che a noi si para davanti con il timbro inconfondibile dell’universalità della sola differenza. La differenza è universale, non l’identità monolitica di una presunta sostanza individualistica e/o comunitaristica.

Non regge più, continua Giacomo Marramao, la pluralità delle differenze sostanzializzate e tipiche del multiculturalirismo etnocentrico, dei fondamentalismi religiosi o laici occidentalizzanti della postmodernità capital-liberistico-globalizzata.

Né tanto meno i consensi populistico-emozionali, che hanno confuso il mercato e il bene comune con gli interessi privati di un individuo, riconosciuto con la carta d’identità dell’universale occidentale, e la sovranità con il potere personale di un capetto carismatico divinizzato, possono essere presi a sostegno di verità belligerante per democrazia e giustizia.

Neanche se questo capetto veste la tiara di papa Benedetto XVI benedicente “Caritas in Veritate” a suffragio dello sviluppismo capitalistico predatorio e omicida. L’universalismo della chiesa cattolica, in fondo, non è stato, e non è, meno deleterio e distruttivo di quello del capitalismo e della sua “mano” occulta.

Dall’altro lato, Alain Badiou, già notava che il secolo XX°, oscillando tra un’insanabile articolazione dell’Uno che si divide in due e del Due che vuole l’Uno, – nonostante la violenza e la crudeltà del potere monocratico e dittatoriale dei campi di sterminio nazisti o delle purghe staliniane, – non solo non aveva fatto approdare alla risoluzione del noi nell’io del capo o del partito, ma aveva lasciato aperto il campo della differenza lì dove – come ha scritto e pensato Mao – le contraddizioni in seno al popolo non seguono la stessa linea di condotta applicabile al nemico di classe.

I due autori e filosofi naturalmente ricorrono a fonti diverse per sostenere la loro tesi. Un discorso che portano avanti con acume e dovizia di fatti, documenti e analisi in situazione. Ed entrambi gli autori qualificano la loro indagine con la potenza della “passione”, piuttosto che con una categoria teoretica o ideologica astratta.

È la passione concreta e viva dei corpi individuali e sociali eterogenei – sia indigeni che stranieri, i quali si formano e trasformano nelle determinazioni e nelle condizioni storiche determinate –, e che pongono come azione discriminante interpretativa e all’opera.

Non vale più, infatti, il solo luogo dell’astrazione universalizzante quanto falsamente conciliante della razionalità occidentale identitaria  vs quella orientale e “barbara” dei corpi, dei gruppi, dei blocchi separati e oggetto di civilizzazione forzata.

Entrambi gli autori, francese l’uno ( Alain Badiou,  drammaturgo, romanziere e filosofo che dirige il centro di studi di filosofia presso l’École normale superiore) e italiano l’altro  (Giacomo Marramao, docente di Filosofia teoretica e Filosofia politica all’Università di Roma Tre), infatti, mettono a fuoco la loro tematica passando attraverso la “passione” identitaria assoluta o problematizzante.

Una passione che progetta l’identificazione assoluta dell’io con il noi (Badiou) o l’assimilazione dell’altro (diverso o straniero), quale fu il destino dei regimi totalitari (nazifascismo e stalinismo) e delle loro organizzazioni politiche, sociali e culturali di riferimento.

Una passione che progetta invece l’irriducibilità dell’identità dell’io e dell’altro in quanto differenza singolare plurale (Marramao). L’io e l’altro non sono immagini mobili di una identità unica, fissa e universale, ma una stratificazione di relazioni storico-dinamiche determinate. Una molteplicità di variabili non declinabili secondo il modello dell’universale unico del vecchio razionalismo moderno e occidentale.

Solo la differenza – dice Marramao – è universale. L’identità stessa di ciascuno o di una comunità è la molteplicità variegata, e non l’omogeneità densa e compatta, sì che la passione del reale/presente nello spazio-tempo glocal – che oggi ci ingloba tutti – è la “relazione” che tiene l’io, l’altro e il noi – come direbbe Gilles Deleuze – in una “sintesi disgiunta”. La soggettività e la soggettivazione nostra e altrui hanno percorsi di socializzazione e universalizzazione che scavalcano la logica dei fondamentalismi e degli universalismi terroristici che hanno caratterizzato il XX° e che, purtroppo, continuano a terrorizzare il XXI°.

 Alain Badiou, analizzando la soggettività del XX° secolo (Il secolo), infatti, ne filtra la complessità come “passione del reale” volta alla fusione delle differenze sulla base di un’astrazione universalizzante e violenta. La “linea di condotta”, il poema didascalico di B. Brecht – la storia di un gruppo di compagni comunisti che sacrificano la vita di un compagno divenuto dissidente –,  che non vede salvezza dell’io al di fuori del noi, e dell’altro se non nella dimora della civilizzazione colonizzante dell’europeo, infatti, è uno dei documenti utilizzati dal filosofo francese in tale direzione.

Giacomo Marramao, nel passaggio dal XX° al XXI°, vagliando invece il secolo della globalizzazione o della mondializzazione attraverso i flussi migratori e meticci del nostro tempo, inquadra “la passione del presente”  come il portato di identità differenti e ibridanti che nulla hanno di sostanzialistico e universalizzante se non la differenza metamorfosizzante. Sì che l’universale cui bisogna fare riferimento non è quello “terroristico” della fusione o della riduzione all’identità dell’Uno, ma quello della differenza e della relazione tra eterogenei. Ogni identità è infatti essa stessa una singolarità plurale e una storia stratificata e molteplice di mutazioni che pur nel conflitto, come arma di comunicazione e coabitazione, non hanno il consenso overlapping ma il mutuo dialogo dell’argomentazione e della narrazione reciproca.

In tutti e due i pensatori (e filosofi), però, “reale” e “presente” sono termini che rimandano al qui ed ora della realtà in divenire. Il reale è il presente in atto, e il presente è il reale che si concretizza nella forma o nelle forme che ne dà la soggettività (individuale e collettiva) del secolo di riferimento.

E sebbene il tempo reale e la “forma” stessa che lo imbastisce non possono più fare riferimento agli stessi assiomi e allo stesso “universale”, sia Badiou che Marramao mettono a fuoco la soggettivazione del “noi”, dell’Io e la loro relazione come una dinamica tra identità e differenza in vista di ciò che ogni secolo, di cui si occupano i due filosofi, intende per uomo nuovo e società nuova.

Badiou, nel presentare il suo lavoro, precisa che suo intendimento non è quello di perorare (il secolo saprebbe difendersi da solo) o condannare il ventesimo secolo. Il secolo già giudicato e condannato come il “secolo del terrore totalitario, delle ideologie utopiche e criminali, delle illusioni vuote, dei genocidi, delle false avanguardie, dell’astrazione ovunque sostituita al realismo democratico”. Desidero, precisa il filosofo francese, esaminare solo “ciò che questo secolo ‘maledetto’, dall’interno del proprio divenire, ha detto di essere. Voglio aprirne il dossier, così come si è costituito al suo interno e non come noi, giudici sapienti, pretendiamo sia stato”.

Per parte sua il filosofo italiano, Giacomo Marramao, riprendendo il pensiero di  Hegel, – per cui compito e responsabilità della filosofia era comprendere il proprio tempo, – dice che “che questa responsabilità, caratteristica dell’epoca moderna, non è demandabile oggi ad altri saperi, e tanto meno cedibile a chi si proclama depositario delle risorse di senso […] il precetto hegeliano va rideclinato al di fuori di statuti privilegiati” lasciando ogni logica di supremazia con eguale assunzione di responsabilità. La responsabilità cui si fa riferimento, precisa Marramao, è però quella dell’insegnamento dell’ultimo Derrida. Responsabilità è infatti “rispondere a piuttosto che rispondere di”, ovvero una responsabilità che si concretizza sempre come relazione “con”. Senza l’altro non c’è né io, né tu, né noi.

Il presente allora si lascia significare come un essere interpellati dal suo reale con-essere-con-gli-altri (globalmente) e intensificando “il tenore dialogico della riflessione”. Significa “dislocarsi come interrogante”, perché i fraintendimenti della mondializzazione competitivo-etnocentrica culturalistica, con le sue nuove rigidità ideologiche identitarie, sono solo delle polarità patologiche inadeguate a capire e ad amministrare la prassi dell’ibridazione globale del nuovo secolo.

Occorre invece una sfera pubblica globale che si riconosca nell’unico universalismo non omologante che è l’universalismo della differenza. Occorre partire dalla singolarità con la sua unitarietà plurale irriducibile, e non dalla riproposizione dell’identità chiusa e monocentrata sul se stessa occidentale.

Il filo spinato dei confini netti delle diverse configurazioni comunitarie, statuali, etniche o linguistiche pratica la logica dell’esclusione e dell’eliminazione, lì dove necessita invece la logica dell’inclusione, che non è certamente assimilazione omologante.


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