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LA PAURA di Pippo Delbono

Creato il 27 febbraio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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La paura di non risollevarsi più. Che per sollevarsi, qui da noi, bisognerebbe che prima si tornasse a vedere. Ad accorgersi della schizofrenia della situazione. Tra doppimenti che parlano di obesità e ginnici polli da allevamento palestrato, tra vite rom da cani e cani da compagnia pieni di risibili cure parentali, tra miserie razziste e ministri degli interni di bassa populista lega, la necessità di documentare, quella di polemizzare, di insinuarsi nelle ferite aperte del nostro impantanato paese – essere indiscreti per non essere addomesticati – ha bisogno di forme non asservite al fascismo estetico dell’hd, (retorica parata tecno-militare celebrante in pompa magna di pixel la presunta migliore delle visioni vedibili). E allora solo un cellulare contro ogni alta definizione totalitaria di sorta. Per ravvederci in qualche modo della nostra “serva Italia” piena di pagliacci feroci e di vetero-freak da corrida. Di ipocriti. Di poco avveduti.

Nel suo lavoro low (no) budget, Pippo Delbono si muove con la sfrontatezza naif , l’irriverenza tecnico-estetica di chi in quanto uomo di teatro apprezzato da anni sul suolo culturale mondiale, non sente il peso e le clausuoe delle gabbie produttive del cinema (di casta) professionale.

Nella perlustrazione attenta e al contempo errante di quel che era lo stato contrito e contraddittorio delle cose italiane già nel 2008, La paura si nutre della bipolarità disturbante e a volte cortocircuitante tra due mondi, quello ovattato e truccato dei set tv, tra poltrone d’ospiti e collier in bella mostra e quello in cui il battito della vita, seppur stremato e disorientato, si muove ancora con aneliti di autenticità non vetrinizzata.

Un’indignazione etica che si traduce in scelta estetica: il fremito incontrollato (o meglio non pre-stabilito) della camera a mano contro il controllo totale della macchina tipico della confezione produttiva da tappeto rosso.

La scrittura filmica, lirica e rabbiosa nel suo farsi, per una volta leggera come Zavattini suggeriva in tempi profeticamente remoti, è l’irrompere impreparati in un contesto andando a vedere con i mezzi a disposizione, intercettando le emergenze sensoriali del momento e non recedendo dai propri stimoli per sudditanza alcuna.

De-formalizzarsi. De-formarsi. Essere maleducati. Scorretti ancora. Eticamente non accondiscendenti. Valicare le cornici trite d’unità spazio-tempo-azione macchinate ad arte da spot televisivi e ricominciare a restare a guardare. Degradando l’immagine e l’immaginario. Senza il frenetico assillo del colpo di scena spettacolare.

Se il precedente Grido (2006), si chiudeva con un <<non ha senso avere paura. L’inverno si trasforma sempre in primavera>>, qui la fiduciosa apertura d’orizzonti di tale affermazione sembra segnare il passo, riversandosi nell’oscuro contrappasso di questa nave italiana “sanza nocchiero e in gran tempesta”.

Salvatore Insana


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