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La posizione della Serbia nello scacchiere internazionale e geopolitico

Creato il 22 ottobre 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

La Serbia, nel corso dell’ultimo secolo, a seconda del periodo storico e dei governanti, ha mutato varie volte la propria politica estera. Durante la Guerra fredda, la Jugoslavia socialista riuscì a sfruttare a proprio vantaggio la peculiare posizione di Paese cuscinetto tra i due blocchi. In effetti, il governo di Belgrado ottenne vantaggi ricevendo generosi prestiti dall’Occidente (a cui faceva comodo avere un Paese socialista “eretico”) senza però mai dimenticare Mosca (che lo riforniva di combustibili in cambio di prodotti manifatturieri jugoslavi).

Per via del decentramento amministrativo della Federazione jugoslava del 1974 (anno dell’introduzione della nuova – ed ultima – costituzione), ogni singola repubblica e provincia aveva ampi margini di manovra anche nelle proprie relazioni internazionali. Allo stesso tempo, il Movimento dei Paesi non allineati divenne, assieme al mito dell’autogestione socialista, uno dei simboli della mitologia politica di Tito. A ben vedere, la presunta neutralità del regime socialista non era veramente tale. Sotto un profilo strategico, il vertice politico jugoslavo temeva un’invasione dell’Unione Sovietica analoga alla Primavera di Praga o all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Non è un caso che, ancora negli anni ’80 del secolo scorso, si temesse lo scoppio della Terza guerra mondiale a partire dal territorio sloveno (si veda il libro del Generale John Hackett, The untold story: the third world war, 1982) piuttosto che dall’escalation delle tensioni interetniche in Kosovo. La Serbia, in quel periodo, aveva allacciato ormai ottimi rapporti economici con l’Occidente; basti pensare che lo stesso Slobodan Milošević, durante la sua attività di banchiere (tra gli anni ’70 e ’80) intrecciò ottimi rapporti anche personali negli Stati Uniti (un esempio per tutti fu Lawrence Eagleburger, ex ambasciatore a Belgrado ed ex Segretario di Stato). In altri termini, l’Occidente era un partner essenziale per la Jugoslavia, Serbia inclusa.

Sul finire della Guerra fredda e, successivamente, sulla scia del crollo del Muro di Berlino, la tradizionale politica di supporto incondizionato degli Stati Uniti verso la Jugoslavia, per via della sua funzione strategica in chiave anti-sovietica, giunse al termine. Gli Stati Uniti erano distratti dall’evoluzione politica in Unione Sovietica, dai grandi mutamenti nell’Europa orientale e dalla Guerra del Golfo. Per quanto il Segretario di Stato James Baker III, durante i suoi viaggi a Belgrado, sostenesse l’integrità della Jugoslavia, dichiarando il sostegno americano per libere elezioni, la Serbia, gradualmente, mutò il proprio approccio verso Washington.

Al vertice della Lega dei comunisti, nel 1986, salì al potere Slobodan Milošević (venne imposto dal suo mentore Ivan Stambolić). Egli raggiunse il massimo del sostegno popolare nel 1989, dopo aver estromesso i propri rivali politici in Serbia tramite un uso magistrale delle proteste popolari nelle strade e nelle piazze, eliminando così i corpi intermedi e creando un collegamento diretto tra il leader e le masse (durante la cosiddetta Rivoluzione antiburocratica nel 1988-1989). Milošević riuscì abilmente a cooptare alcune istanze della minoranza serba e montenegrina del Kosovo, divenendo virtualmente il loro paladino agli occhi dell’opinione pubblica serba. Nel suo agire politico impetuoso e irriverente, il giovane comunista Milošević riuscì a rimuovere l’autonomia politica delle due province della Serbia, ossia la Vojvodina ed il Kosovo. Con questa manovra, culminata nel marzo del 1989, Milošević, nel difendere i diritti dei Serbi del Kosovo, oppresse i diritti della maggioranza albanese, attraverso un uso massiccio delle forze dell’ordine e militari nel reprimere le proteste degli Albanesi e rimuovendo l’autonomia della Provincia.

Negli Stati Uniti la strategia di Milošević venne criticata, soprattutto da alcuni membri del Congresso USA. Per questa ragione Milošević a lungo non volle incontrare l’allora nuovo Ambasciatore americano a Belgrado, Warren Zimmermann (come egli stesso ricorda nel suo libro Origins of a catastrophe: Yugoslavia and its destroyers. America’s last Ambassador tells what happened and why, 1999).

In seguito alla dissoluzione della Jugoslavia prima, e della guerra in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina successivamente, la posizione della Serbia (che nel 1992 costituì, assieme al Montenegro, la Repubblica Federale di Jugoslavia) nei confronti dell’Occidente mutò radicalmente. La Serbia, per via del proprio supporto, diretto ed indiretto, ai Serbi “ribelli” della Krajina (Croazia) e della Repubblica Serba di Bosnia, venne sanzionata dalle Nazioni Unite tramite l’embargo (con l’avallo della Russia). In altri termini, divenne una sorta di paria all’interno della comunità internazionale per aver deliberatamente fomentato un conflitto altrimenti evitabile. Dietro spinta degli Stati Uniti e dell’amministrazione di Bill Clinton, la NATO intervenne militarmente, dietro mandato ONU, nel bombardare le postazioni dei Serbi di Bosnia che assediavano ormai da anni Sarajevo. Tuttavia, ciò non impedì (anzi, fu in realtà una spinta decisiva) la partecipazione di Milošević e degli altri leader ex-jugoslavi agli accordi di Dayton nel 1995, che portarono la pace in Bosnia ed Erzegovina.

Il presidente serbo, con molto pragmatismo, divenne uno dei garanti della pace nei Balcani; ma il conflitto sarebbe riesploso nel 1998 in Kosovo. Nuovamente si acutizzò l’antagonismo tra la Serbia ed il suo leader che professava tesi nettamente anti-imperialiste nei confronti del resto del mondo, ed in particolare criticò aspramente gli Stati Uniti e l’Occidente (che nel frattempo si premurarono di supportare l’opposizione interna a Milošević, senza peraltro troppi successi). La Serbia, impoverita e indispettita, cercò vecchie o nuove improbabili alleanze, molto spesso verbali e simboliche, con la Cuba di Castro, con l’Iraq di Saddam Hussein, la Bielorussia di Lukashenko e così via. Nel pieno dei bombardamenti NATO nell’aprile del 1999, il governo di Belgrado annunciò la creazione di un’unione tra la Serbia, la Russia e la Bielorussia. Invece il governo russo, per via di una intrinseca debolezza interna, non sostenne, se non verbalmente, il governo serbo. Il primo ministro russo Primakov, il 24 marzo 1999, mentre era in viaggio per una visita ufficiale a Washington, decise, per protesta nei confronti della decisione di bombardare la Serbia da parte della NATO, di annullare la visita e tornare indietro. Quando Milošević, nell’ottobre del 2000, dovette cedere il potere in seguito alle proteste nelle piazze della capitale, proteste animate dal movimento studentesco Otpor (supportato dall’Occidente), Vladimir Putin, allora neo-presidente della Federazione Russa, decise di non sostenerlo. In altri termini, sino all’autunno del 2000, le relazioni esterne della Serbia, a causa della propria politica interna ed in particolare della crisi in Kosovo, furono relativamente limitate e prevalentemente circoscritte a Paesi sottosviluppati retti da regimi autoritari.

Una svolta sostanziale avvenne a partire dalla fine del 2000, quando un nuovo governo salì al potere a Belgrado. La Serbia venne nuovamente accolta in seno alla comunità internazionale. Le relazioni con l’Occidente tornarono ad un livello accettabile e, dopo quasi un decennio dominato dal conservatore Vojislav Kostunica (un nazionalista moderato che non si è mai compromesso con il regime socialista) e dal Partito Democratico del premier Zoran Đinđić (filosofo e imprenditore assassinato nel 2003), il lento e accidentato cammino della Serbia verso l’Unione Europea, nonostante i problemi legati alla perdita fattuale del Kosovo, seguiti dalla secessione del Montenegro, prosegue sino ad oggi.

Come si può vedere, le relazioni della Serbia con il resto del mondo, ed in particolare con i Paesi più influenti, sono state in larga misura determinate non tanto e non solo dalle influenze esterne (innegabili), quanto piuttosto dalle scelte di politica interna delle elites politiche serbe. Nel momento in cui i leader serbi, ed in particolare Slobodan Milošević, scelsero di legittimare il proprio potere politico utilizzando l’euforia nazionalista serba, con vigore crescente, causando una destabilizzazione della regione balcanica, i rapporti con l’Occidente si deteriorarono gravemente. Nello stesso periodo, ossia negli anni ’90, i rapporti con la Russia, nel complesso, non furono determinanti, perché la Russia stessa, anche se avesse desiderato supportare Belgrado, si venne a trovare in una posizione di debolezza sul piano internazionale. Mosca si limitò ad un supporto simbolico, ad esempio offrendo asilo politico alla moglie di Slobodan Milošević ed al generale Veljko Kadijević, oppure in esibizioni di forza. Infine, la stessa partecipazione di volontari russi nel conflitto in Bosnia ed Erzegovina a fianco dei Serbi, in concreto, non fu determinante. Forse, il supporto maggiore è stato nel non riconoscere l’indipendenza del Kosovo, sebbene questa presa di posizione sia perlopiù legata ai problemi interni della Federazione Russa e nel Caucaso (in questo simile alla posizione della Spagna o della Romania, che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia per timore di ripercussioni a casa loro, in Catalogna e in Transilvania).

Negli ultimi anni, la Serbia ha riscoperto una apparente vocazione neutrale (per quanto possa essere non programmatica e, tutto sommato, solamente un desiderio di una certa parte politica conservatrice piuttosto che una politica del governo), divenuta forse più visibile mediaticamente in concomitanza della crisi ucraina e dell’annessione della Crimea alla Russia. Per quanto la posizione neutralista della Serbia possa evocare un ritorno ai tempi del Movimento dei non allineati, la questione è più complessa.

La neutralità militare della Serbia si fonda su un principio elementare basato sul consenso politico: dato che la Serbia venne bombardata dalla NATO nel 1999, sarebbe impopolare, ancora oggi, avanzare l’ipotesi di adesione all’Alleanza atlantica, sebbene le forze armate della Serbia abbiano già preso parte ad attività congiunte con la NATO (Partnership for Peace). Non è una coincidenza che i partiti politici serbi che propugnano una Serbia neutrale siano quelli nazionalisti, come ad esempio il Partito Democratico Serbo dell’ex premier Vojislav Kostunica oppure il Partito Radicale Serbo di Vojislav Seselj. Tuttavia, i sostenitori della neutralità militare della Serbia di norma coincidono con quelli di una neutralità anche di natura politica, e conseguentemente sono contrari all’ingresso della Serbia nella UE perché andrebbe, secondo loro, a vantaggio del Kosovo indipendente da Belgrado (in realtà la questione è più sfumata e complessa).

Con ogni evidenza, nonostante alcuni tentennamenti, Belgrado, aspira ad una piena adesione all’Unione Europea, dunque le affermazioni di segno contrario, come ad esempio una maggiore vicinanza della Serbia alla Russia, sono poco credibili, sebbene non possano essere minimizzate. Gli elementi più interessanti, nel corso degli ultimi anni, si pongono su due livelli distinti. Il primo ha a che vedere con l’attuale classe dirigente serba e la più o meno genuina conversione ai valori dell’Unione Europea di quest’ultima. Considerando il recente passato politico degli attuali leader, sembra scarsamente credibile una conversione così netta e radicale verso l’Europa. In secondo luogo v’è un’influenza della Russia nei confronti della Serbia: all’aumentare della tensione tra l’Occidente e la Russia, quest’ultima pare voglia simbolicamente fomentare le passioni in Serbia e nei Balcani, perlomeno nei Paesi abitati da cristiani ortodossi.

L’attuale leadership politica della Serbia, che professa instancabilmente il cammino del proprio Paese verso l’Unione Europea, ha un passato politico quantomeno singolare. Sia il Presidente della Repubblica, Tomislav Nikolić, sia il Primo ministro Aleksandar Vučić, hanno fatto parte del Partito Radicale Serbo di Šešelj, attualmente detenuto presso il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia. L’attuale Ministro degli esteri e primo vice-primo ministro, Ivica Dačić, è stato un giovane leader del Partito Socialista Serbo durante il regime di Slobodan Milošević negli anni ‘90. Il filo conduttore del loro passato politico è l’esser stati nazionalisti e anti-imperialisti. Emblematico è il caso di Vučić, che nell’arco di circa venti anni è passato da un nazionalismo virulento ad un approccio estremamente favorevole all’UE. Il loro evidente e netto trasformismo politico, maturato nel corso di vari anni e di mutamenti radicali della scena politica serba, lascia quantomeno perplessi sulla genuinità della loro conversione ideologica.

Il ruolo della Russia nella Serbia contemporanea ha visto, nel corso degli anni, una serie di sviluppi ed eventi che possono in qualche modo essere ricondotti ad una forma di influenza indiretta, tra le quali: esternazioni dell’Ambasciatore Russo a Belgrado a favore del Partito Progressista Serbo di Aleksandar Vučić; l’apertura di un “centro congiunto serbo-russo per la reazione a situazioni di emergenza” (una sorta di protezione civile) presso la città di Niš (percepito da alcuni come una potenziale base militare russa); esercitazioni militari congiunte tra la Serbia e la Russia; la questione del gasdotto South Stream; la visita del Presidente russo Putin a Belgrado in occasione del 70° anniversario della liberazione dal fascismo e i ripetuti proclami di Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba di Bosnia, in merito alla desiderata indipendenza ed eventuale secessione dalla Bosnia ed Erzegovina, spesso cercando un supporto morale e mediatico con i vertici politici russi 1. Questo elenco, che non vuole essere a nessun titolo esaustivo, offre uno squarcio su alcuni elementi che pongono in evidenza un problema fondamentale per Belgrado: come poter difendere il proprio interesse nazionale, ottenendo il massimo sia dall’UE, sia dalla Russia (in termini strategici e di investimenti, con la conseguente creazione di posti di lavoro).

La Serbia, in quanto piccola nazione dell’Europa sudorientale, come già altre volte è accaduto nel proprio passato, si trova ad essere influenzata nella propria politica interna, più o meno direttamente, da potenze straniere e a dover scegliere da che parte allinearsi. Il fatto stesso che la Serbia non abbia voluto sanzionare l’annessione della Crimea alla Russia è un chiaro indice dell’imbarazzo nel quale si trova il Paese, senza scordare che la Serbia, in più occasioni, ha riconosciuto l’integrità territoriale dell’Ucraina (perché, anche se la Russia supporta la Serbia non riconoscendo l’indipendenza del Kosovo, Belgrado teme che il riconoscimento del distacco della Crimea dalla Ucraina potrebbe avere su di sé un effetto boomerang). Dunque, gli eventi verificatesi negli ultimi anni, ed in particolare negli ultimi mesi, non sono altro che sintomi dello scontro tra gli Stati Uniti e la Russia, che ben poco hanno a che vedere con la Serbia. Nella peggiore delle ipotesi, si tratta di strumentalizzazioni.

Le varie speculazioni giornalistiche che si rincorrono sul fatto che Putin abbia offerto il proprio supporto all’indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia, e sul diniego di tale supporto da parte del Premier della Serbia Vučić, devono necessariamente essere lette come una strategia della tensione tra l’Occidente e la Russia. Mentre lo scorso mese l’ambasciatore tedesco in Serbia, Heinz Wilhelm, sostenne che la Serbia non è neutrale perché ha scelto l’UE, in una recente intervista, l’ambasciatore americano a Belgrado, Michael Kirby, ha sostenuto di non comprendere la ragione della presenza di Putin in occasione dei festeggiamenti per il 70° anniversario della Liberazione dal Fascismo, tenutesi a Belgrado il 16 ottobre. Le pressioni dell’UE, in questo caso della Commissione Europea, si sono concretizzate, a loro volta, in un messaggio del Commissario per le Politiche Regionali, Johannes Hahn, nei confronti della Serbia a proposito della propria posizione nei confronti della Russia, e sono giunte in concomitanza della prevista visita di Putin in Serbia.

In questa guerra fredda mediatica le affermazioni poco diplomatiche si susseguono quotidianamente. Lo scorso 26 settembre, il ministro degli Esteri russo Lavrov ha affermato che l’espansione della NATO nei Balcani è un errore e una provocazione. Così, Vučić, nel tentativo di non scontentare i propri partner, si divide tra proclami di impegno nel processo delle riforme richieste dall’Europa, e rassicurazioni verso Mosca, affermando che non volterà le spalle alla Russia. Tuttavia, è ragionevole supporre che l’interesse primario e strategico della Serbia sia legato a Bruxelles, nonostante le immancabilmente numerose critiche.

Infine, non va scordato che la Serbia ha stipulato una serie di investimenti consistenti degli Emirati Arabi nel Paese, che non possono essere ricondotti, come nel caso della Russia, a mere questioni di affinità elettive tra il popolo serbo e quello russo. Dunque il governo serbo ha avviato una strategia ad ampio spettro per attrarre investimenti stranieri e raccogliere capitali.

La Serbia, al di là di considerazioni sentimentali e nazionaliste, punta alla UE e non alla Russia, anche se quest’ultima è un partner economico rilevante. La Serbia non prende apertamente posizione, perché reputa sia nel proprio interesse coltivare i rapporti con tutti, Russia inclusa. Il destino geopolitico della Serbia, date le condizioni attuali, sino a prova contraria, dovrebbe essere l’Occidente, senza con ciò negare il suo ruolo di porta d’accesso verso l’Oriente.

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