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LA PRATICA E’ IMPORTANTE, RIFLETTERE LO E’ DI PIU’ di Gianfranco La Grassa

Creato il 08 giugno 2015 da Conflittiestrategie

 

Il leone insegue la gazzella, tutto sommato solo per mangiarsela; perché ha fame e ha bisogno di nutrirsi, non vi è nulla di malvagio, né vi è smania di potere nel territorio in cui il leone viene detto, ma dagli uomini, Re. Lui non lo sa e non gli interessa essere un Re. Deve solo nutrirsi e semmai nutrire la leonessa e i leoncini. Non è tuttavia questo che mi interessa di questo povero animale, cacciato per farsene trofeo con ben poco merito da animali effettivamente crudeli e privi del bisogno impellente di alimentazione. La gazzella tenta di sfuggire all’inseguimento con brusche, improvvise e in pratica continue inversioni di rotta. Il leone è veloce ma anche lei lo è. Il leone in genere si adegua a questi rapidi cambiamenti di percorso e più o meno segue lo stesso zig zag della gazzella. Può capitare, ed infatti capita, che si stanchi prima della sua preda, che non riesca a raggiungerla; in tal caso, quest’ultima può respirare: è salva, per questa volta non sarà mangiata.

Immaginiamo adesso che il leone venga dotato di ragione, di capacità di pensare e riflettere; non semplicemente di scrivere e parlare a vanvera in internet e nei telefonini, ma proprio sia in grado di riflessione; di fermarsi, pensare e poi prendere nuove decisioni. Insomma che non segua lo schema stimolo/risposta, tipico appunto dell’inseguimento leonesco della gazzella, proprio dell’animale che non ha vero pensiero, non ha la ragione. Adesso invece ne viene dotato. Occorre pur sempre che un leone insegua la gazzella, non le dia requie. Sia per stancarla (anche se si stanca pure l’inseguitore), ma soprattutto per costringerla a tutte quelle inversioni di fuga. Quel leone ha però adesso la possibilità di chiedere l’intervento di un secondo, che se ne sta invece fermo, dotato magari degli strumenti adatti a seguire le varie fasi dell’inseguimento. Egli cercherà di capire se la gazzella si muove veramente a caso oppure se, pur inconsciamente, segue un certo schema nel suo apparentemente caotico agitarsi. Cerca di studiare la frequenza temporale delle inversioni, il loro avvenire a destra o sinistra e con quale irregolarità (che a volte ha una sua regolarità), con quale angolazione vengono effettuate, ecc.

Alla fine, almeno in molti casi, riesce a ricostruire un certo percorso (non quello reale, solo costruito idealmente, teoricamente; quindi una teoria che non riproduce affatto la realtà, ma l’interpreta tramite costruzione pensata); magari non sarà del tutto una linea retta, anzi con alcune curve, ma insomma nettamente più breve di quella zigzagante che sta seguendo il leone cacciatore (quello dedito alla “pratica”, che i superficiali e chiacchieroni sostengono valga più della “grammatica”). Una linea, ovviamente, che nel tempo dato, e calcolato con maggiore o minore approssimazione a seconda dei casi, infine incocci la gazzella o comunque consenta di affibbiarle qualche bella artigliata cosicché essa, ferita e sanguinante, perda presto energie e divenga più facile preda. E’ ovvio, però, che è indispensabile trasmettere al leone in corsa gli ordini necessari ad abbandonare il suo zig zag e a seguire quella data linea più breve. Bisogna, dunque, anche costruire le reti di comunicazione delle informazioni, date con sempre maggiore precisione e tempestività; altrimenti queste informazioni non servono a nulla e il lavoro del “leone pensante” è pura perdita di tempo.

In determinate contingenze storiche, la gazzella è il potere, quando è ormai sclerotizzato e sempre più aborrito dal “popolo” o almeno da una sua parte attiva e grintosa. Il leone inseguitore può essere questa parte, incazzata e irosa, che ha deciso di ribellarsi o comunque di manifestare sempre più energicamente il suo vivo malcontento. Tuttavia, l’esempio non sarebbe completo se non si dicesse che pure la gazzella in fuga ha ricevuto il dono della ragione. E per di più è quasi sempre assistita da un’altra che pensa e riflette, restando abbastanza ferma ad osservare le mosse del leone inseguitore, per studiarne eventuali debolezze, alcuni piccoli ritardi di reazione allo zig zag della fuggitiva, una maggiore o minore robustezza delle sue zampe nelle virate, ecc. ecc. A questo punto è ancora più indispensabile che il leone in movimento (le “masse”) abbia “alle spalle” il “leone pensante”, valutatore delle mosse della gazzella (e a questo punto ben conscio dell’esistenza dell’altra gazzella di sostegno e di ciò che essa può escogitare per difendere la sua compagna in fuga). Il leone pensante è in questo caso l’“avanguardia”, in senso più proprio l’élite che deve dirigere “le masse” affinché conseguano l’obiettivo: afferrare la preda, cioè prendere il potere, togliendolo alla fuggitiva e rendendo vani i tentativi di difesa escogitati dalla “gazzella pensante”.

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L’animale dotato di pensiero ragionante è l’uomo, una delle varie specie di homo (quella sapiens sapiens); al momento non se ne conoscono altre. E quest’animale non ha come finalità suprema quella di mangiare. Deve certo mangiare per vivere, ma non usa il suo pensiero se non in misura relativamente ridotta per procacciarselo. Ha pure altre finalità “supreme”. Sarebbe possibile dire – ma sempre con una certa superficiale approssimazione – che, in ultima analisi, insegue un qualche tipo di potere; in particolare, che gli preme conquistare una posizione di preminenza in differenti ambiti, laddove ognuno degli individui appartenenti a quella società esercita la sua specifica attività. Il potere è la preminenza o, se vogliamo dirla in altro modo, l’attribuisce a qualcuno rispetto agli altri (sugli altri). Il modello dell’azione umana è in effetti meno simile a quello del leone che insegue la preda; più spesso sembra la lotta tra due (o anzi più) animali della stessa specie per assumere il comando del branco cui appartiene.

Nella teoria marxista tradizionale – in questo seguendo Marx, non tradendolo nella sostanza del suo pensiero – il mangiare la preda è fondamentalmente il produrre i beni. E la specie umana ha creato continuamente nuove strumentazioni per accrescere le sue capacità di produrre; dunque non soltanto per produrre i beni più direttamente indispensabili alla vita in quella data società, ma per produrre pure strumenti capaci di accrescere la capacità di produzione dei vari beni (di consumo e di produzione) e per creare organizzazioni in grado di ampliare le conoscenze atte a rendere sempre maggiore questa capacità produttiva; e le organizzazioni richiedono a loro volta nuove strumentazioni per poter sussistere e migliorare la loro efficienza, e così via. E non può esserci nessuno dei fenomeni appena considerati se la stessa società non si viene strutturando in base ai rapporti che legano fra loro gli individui che la compongono; e gli individui non sanno esistere in società se non riunendosi in gruppi “funzionali”, tra i quali si vanno creando forme diverse di relazioni ora di collaborazione ora di conflitto, ecc. ecc.

Arrivati a questo punto, il mangiare (e dunque anche il produrre dell’uomo primitivo) si allontana sempre più dal suo essere il fine umano per eccellenza. Certamente, non si può non produrre. Tuttavia, è molto limitativo quanto Marx scrisse a Kugelman (luglio 1868): “Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa”. Appena, però, il bambino esce dalla sua infanzia, apprende pure che non è in grado di fare alcunché se non accresce le sue conoscenze in fatto di produrre e se non si mette nelle condizioni necessarie a perseguire questo scopo. Poi si accorge della necessità di porsi in relazione con altri “bambini cresciuti”; e queste relazioni implicano sia una collaborazione sia una competizione. Si creano così gruppi sociali più o meno coesi, con mutevoli forme di rapporto fra loro. Diventano allora fondamentali quelle che sono state chiamate “sovrastrutture”: l’organizzazione politica, l’elaborazione di ideologie varie in ambiti sempre più numerosi, la trasmissione dei saperi acquisiti e accumulati, ecc. ecc.

In tutto questo processo ci si trascina dietro logicamente le due finalità d’origine: mangiare, cioè produrre, e assumere la guida del branco, cioè avere il potere di comando nelle varie organizzazioni e strutture politiche e ideologiche. Nella specie umana, queste due finalità non possono mai più essere conseguite riducendo all’osso le modalità della loro sempre più complessa articolazione. Quest’ultima continua a differenziarsi, acquisisce nuove energie e vitalità e poi progressivamente sfiorisce, si sclerotizza, diventa un ostacolo e deve essere modificata più o meno radicalmente. Quelle che vengono dette sovrastrutture non possono certo essere pensate come qualcosa che si pone al semplice servizio delle due suddette finalità (che si pretende siano quelle “primarie”); la loro complicatezza diventa tale che diviene essa stessa una finalità. Il pensiero si concentra su di esse, e la loro adeguatezza o meno non si misura solo in base ai loro scopi primigeni. Sì, “in ultima analisi”, questi continuano a sussistere; ma molto “in ultima”. Guai se il pensiero si ponesse nel semplice percorso che arriva soltanto a riflettere su come meglio produrre e su come meglio assumere la supremazia nel “branco”. Bisogna allontanarsi dal pensiero delle due finalità in oggetto, quasi dimenticarle; e allora si produrranno le vere “novità” del vivere umano, comprese quelle più utili e idonee al conseguimento di quelle finalità “primitive”.

Il leone pensante, posto dietro a quello “pratico” in caccia, non deve essere un semplice “tecnico” che studia il percorso migliore per abbreviare il percorso (e il tempo di percorrenza) per arrivare alla preda in fuga. Deve sdoppiarsi, in definitiva chiamare in causa un terzo leone, che pensi ai motivi per cui è indispensabile costruire una “realtà” diversa da quella della gazzella in fuga – che, a sua volta, ne ha un’altra tesa a conservare non solo la sopravvivenza di quest’ultima, ma a dimostrare come in definitiva la sua “specie” (il suo “gruppo di potere”) non si faccia sopraffare dall’altra – al fine di riuscire ad ottenere la sua finalità definitiva. Solo che questo terzo leone deve ben concentrarsi, come sua finalità specifica, sul perché la realtà della gazzella in fuga non è quella da considerarsi la “realtà” più essenziale da conoscere. No, vi è un’altra “realtà”, non reale, la cui conoscenza – costruita via ipotesi e poi “provata” – produce effetti assai più “pratici” in termini di conseguimento di determinati successi. Non ci si deve però scordare che non si tratta della “realtà reale”; non bisogna innamorarsi di tale “realtà costruita”, altrimenti poi i successi svaniscono se la gazzella pensante induce quella in fuga a mutamenti di percorso.

Insomma, spero che ci siamo grosso modo capiti, al di là di leoni e gazzelle.

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Arrivati a questo punto, si dovrebbe abbandonare definitivamente l’analogia con il comportamento animale e concentrarsi esclusivamente su quello umano. Ma non si può parlare così in generale; bisogna in realtà riferirsi a specifiche teorie che cercano di spiegare l’umano in ciò che ha di più specifico: i rapporti intercorrenti tra i diversi appartenenti a tale specie animale, rapporti che, essendo assistiti dal pensiero e dall’azione sorretta da una teoria (la “pratica” deve basarsi su una “grammatica”), si strutturano secondo specifiche modalità di carattere evolutivo, mutevole (“storico”). Personalmente mi sono formato nell’ambito di quella teoria detta marxismo poiché alcuni postulati fondamentali – quelli da cui si parte per costruire il complesso teorico – sono stati posti appunto da Karl Marx. Come già ricordato egli dette importanza primaria, e fondante tutto il rimanente, alla sfera produttiva, cioè ai rapporti sociali di produzione.

Non ci si faccia ingannare, come una parte decisiva dei marxisti, dal cosiddetto primato delle forze produttive, in quanto più mobili e dinamiche e supposte quindi quale causa ultima del mutare dei suddetti rapporti di produzione. Certamente Marx scrive (“Miseria della filosofia”): “Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società con il signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale”. Però subito dopo afferma: “Le macchine non sono una categoria economica più di quanto lo sia il bue che trascina l’aratro. Le macchine non sono che una forza produttiva. La fabbrica moderna, che si basa sull’applicazione delle macchine, è un rapporto sociale di produzione”. Sembra quindi più significativo questo rapporto.

Le scoperte scientifiche e tecniche, con l’affermarsi di nuove forze produttive, sono indice dell’evolversi, del trasformarsi, delle strutture dei rapporti sociali intercorrenti tra le varie classi, le differenti categorie, sociali. E con il mutare dei rapporti, muta la forma di società, la formazione sociale. Continuare a chiedersi che cosa viene prima, tra forze e rapporti di produzione, assomiglia al famoso quesito: è nato prima l’uovo o la gallina. Ciò che è mutato è il DNA di date specie animali dando origine ad un certo punto a quello che caratterizza i polli e la loro riproduzione. Il vecchio, e ormai noioso, dibattito tra primato delle forze produttive (marxismo ultratradizionale) e primato dei rapporti di produzione (marxismo critico, ad es. quello althusseriano) ha avuto un senso quando ancora si pensava che la forza rivoluzionaria del movimento comunista si andasse affievolendo e si cercava perciò di contrastare questo processo.

Ricordo bene un importante snodo di tale dibattito (cui partecipai come althusseriano) nel 1972-73 in “Critica marxista”. I forzaproduttivisti erano quelli ormai riformisti come la stragrande maggioranza dei partiti comunisti, in specie europei, che pensavano alla progressiva trasformazione del capitalismo in socialismo (assistita da pratiche di lotta parlamentare e al massimo sindacale) per l’oggettivo imporsi di forze produttive richiedenti l’indispensabile cooperazione dei “produttori”. I “rivoluzionari” avevano afferrato che questi comunisti si adattavano alla riproduzione della società capitalistica così come si era andata configurando dopo la seconda guerra mondiale; e sostenevano che decisivo era invece il rivoluzionamento dei rapporti di produzione da condurre verso la forma socialista.

Tutti discorsi ormai inutili; e ci accorgiamo bene che erano inutili fin da allora, che non hanno ridato alcuna vitalità ad alcun processo di rivoluzionamento della società detta genericamente (e generalmente) capitalistica. Semmai sono serviti ad isterilire ancor di più le pratiche di pretesa trasformazione sociale, consentendo la vittoria completa di questo capitalismo e l’affossamento definitivo del preteso socialismo. Bisogna afferrare perché siamo arrivati ad una simile conclusione di un processo iniziato oltre un secolo e mezzo fa con il “Manifesto del partito comunista”. Occorreva accettare uno spostamento netto di paradigma: la centralità della sfera produttiva comportava quella della proprietà o meno dei mezzi di produzione. Dalla decisività di tale carattere della società detta capitalistica discende la divisione d’essa nelle due classi fondamentali della borghesia (i capitalisti proprietari) e del proletariato (i lavoratori semplici possessori della loro forza lavoro venduta come merce). E tali classi furono pensate come irriducibilmente antagonistiche, quindi protagoniste della lotta che avrebbe condotto alla trasformazione del capitalismo in socialismo e comunismo; poiché da tale lotta sarebbe emerso infine un rapporto sociale di cooperazione nella sfera produttiva, rapporto indispensabile all’ottenimento di quella trasformazione.

Nulla di questo si è verificato; e allora si sono escogitate brillanti ipotesi ad hoc (fra le migliori quelle di Lenin a mio avviso, per cui non era errato parlare di marxismo-leninismo) che hanno però ritardato la comprensione dell’errore fondamentale. La sfera produttiva (il “mangiare”) non è quella decisiva nella trasformazione della società umana. Le cosiddette “sovrastrutture” sono più dinamiche di quanto pensasse il marxismo. Tuttavia, porre al primo posto la sfera culturale (con le sue varie ideologie di riferimento) ricrea una contrapposizione analoga a quella tra forze produttive e rapporti di produzione. Viene prima la “base economica” o le “sovrastrutture politico-ideologiche”? E tra queste sovrastrutture deve essere data preminenza agli apparati della sfera politica (in primo luogo quelli strutturanti lo Stato) o a quelli ideologici e culturali in genere, quelli della trasmissione dei saperi, dove magari poi si identifica chi ha il potere (il dominante) con chi possiede il sapere, ecc. ecc.? Sentite l’eco di tante discussioni degli ultimi decenni? Anche magari di Foucault, e non solo?

Mi dispiace, ci siamo arenati; e si fanno tante discussioni, anche utili per certi versi, molto raffinate senza dubbio, ma in definitiva non molto convincenti né concludenti. E allora direi di scartare “di lato”. Nessuna sfera viene prima di altre; per ognuna vale quanto detto circa il primato dell’uovo o della gallina. Mutiamo DNA; produciamo una nuova specie di teorizzazione. Da qui l’introduzione del principio del “conflitto tra strategie” per la supremazia. Dove le strategie sono politica, ma nel senso delle mosse da compiere per vincere un conflitto. Per cui questa politica è alla base della dinamica di tutte le sfere sociali: di quella economica, di quella politica (Stato, partiti, ecc.) con la sua appendice militare, di quella ideologico-culturale. E’ allora in definitiva la ben nota lotta che esprime la “volontà di potenza”?

No, non è una volontà di tal genere. Non c’è il presunto innato desiderio di prevalere, di schiacciare un avversario. Non c’è la superbia di affermarsi vincitore. Il problema è completamente diverso: è che non c’è altro modo di agire, di esercitare una “pratica” senza questa specifica “grammatica”. Dobbiamo stabilizzare un campo in cui agire, altrimenti sbandiamo continuamente, caschiamo, ci facciamo travolgere dalle onde come un surfista inetto. Non siamo però soli, non siamo tanti Robinson come pensa il liberista. Proprio per questo, ogni stabilizzazione di un campo nuoce ad altri, crea difficoltà ad altri; in un certo senso continuiamo ad invadere il campo d’altri. Non è tuttavia la virtuosa competizione nel libero mercato come pensano (con vero o finto ottimismo?) i liberisti/liberali. E’ una penosa situazione di contrapposizione. E gli individui, non sempre ipocritamente (anzi credo più frequentemente in modo sincero), aspirerebbero a non inimicarsi nessuno, a stabilire buoni rapporti di “vicinato”. E’ brutta, logorante, la lotta. Rende cattivi, ma non perché non si vorrebbe invece praticare la bontà. Eppure ci si urta. Se ciò accadesse nel vorticoso flusso squilibrante del “reale”, tutto sommato non ci si sentirebbe nemmeno tanto nemici. Ci si toccherebbe a caso, ci si saluterebbe solo per un attimo, non si farebbe a tempo a scambiarsi una parola e si andrebbe incontro ad altri sempre capovolgendosi su se stessi, senza mai trovare un punto d’appoggio.

Non possiamo agire così, proseguire così la nostra vita. Dobbiamo fermare il “mondo”; e lo fermiamo con la nostra attività di pensiero, con la riflessione multipla (non stimolo/risposta) che costruisce strutture che stabilizzano campi in cui svolgere la propria azione. Ma siamo come quelli che andavano a colonizzare l’ovest americano. Sì, tanti piccoli produttori agricoli che stabilivano i confini dei propri campi. Poi questo non basta, i confini sono sempre attraversati e ci si scontra, si litiga, arrivano nuovi colonizzatori e anche loro vogliono il loro campo. Ecc. ecc. La lotta comincia, ma non si combatte da soli, ci si riunisce in gruppi, si fanno alleanze, a volte vere amicizie, ecc. E molto spesso la riunione deve avvenire per affinità di attività svolta, quindi per le funzioni e i ruoli ricoperti in quella data società. Ed ecco strutturarsi i rapporti della formazione sociale. Attraverso la lotta per la costruzione dei campi stabili in cui poter essere attivi.

Non siamo naturalmente cattivi, non siamo assetati di potere, non vogliamo prevalere sugli altri e subordinarli a noi. Non abbiamo una “natura” definita, non è il DNA che ci conduce alla lotta, al conflitto, al pensare le mosse strategiche adatte a sconfiggere gli altri. Lo facciamo perché così si agisce in quella stabilità senza la quale saremmo sempre come gli oggetti e gli uomini, ecc. in assenza di gravità. L’abbiamo visto in tanti film, no? Si volteggia ed è allora complicato agire con fini preordinati e ben definiti. E dobbiamo perciò rassegnarci a quanto ho appena detto. Ci stabilizziamo e ci urtiamo; e inizia il conflitto.

E qui, carissimi, mi fermo. Questo mutamento – da me compiuto all’interno del marxismo: dalla centralità della sfera produttiva (e della proprietà dei mezzi produttivi) alla politica come insieme delle mosse di un conflitto che riguarda tutte le sfere della società – butta senza dubbio all’aria la transizione al socialismo e comunismo; rende ridicole le affermazioni circa la giusta aspirazione che animerebbe l’UOMO e che alla fine si affermerebbe rendendo la società armonica, felice, piena zeppa di bontà (da far perfino schifo). Da qui deve prendere le mosse una diversa teorizzazione. Volevo solo indicare, sinteticamente, i processi di pensiero che mi hanno condotto a tale spostamento teorico. Tutto lì per il momento. Divertitevi a pensare pure voi.


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