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La regionalizzazione del commercio euro-atlantico: la TTIP tra sfide e opportunità

Creato il 21 ottobre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Davide Borsani

È iniziato a Miami l’11° round dei negoziati della Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’area di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea. È la prima volta che le due parti si riuniscono dopo che Washington e i governi di altri undici Paesi di America, Asia e Oceania hanno raggiunto l’accordo sull’istituzione della Trans-Pacific Partnership, ossia il trattato “gemello” della TTIP che – se approvata dai Parlamenti nazionali – legherà commercialmente le due sponde del Pacifico. TTIP e TPP sono accordi tra loro convergenti in termini politici ed economici; insieme contribuirebbero al definitivo superamento dell’internazionalismo della World Trade Organization (WTO) in favore di una regionalizzazione del commercio. Tuttavia, mentre la TPP è prossima alla sua conclusione, il TTIP è un progetto più complesso e già in passato, sotto altre forme, è incorso in fragorosi fallimenti.

Tra i primi a proporre un’iniziativa simile dopo la Guerra fredda vi fu l’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger. Le “condizioni sono propizie”, scrisse nel 1995, “per la creazione di una North Atlantic Free Trade Area” in grado di sostenere globalmente il principio del libero scambio e favorire la cooperazione tra Stati Uniti ed Europa. Pochi mesi più tardi il Presidente americano Bill Clinton e quello della Commissione europea Jacques Santer accolsero il consiglio di Kissinger e adottarono la New Transatlantic Agenda, che tra i suoi cardini auspicava proprio la creazione di una New Transatlantic Marketplace con lo scopo di estendere «le opportunità di commercio e di investimento e [moltiplicare] i posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico». Non ancora un’area di libero scambio compiuta, ma certamente pareva l’inizio di un cammino promettente.

Tre anni dopo, nel 1998, Stati Uniti ed Unione Europea firmarono a Londra l’accordo per l’avvio della Transatlantic Economic Partnership (TEP) volta ad armonizzare standard, regole e procedure col fine di approfondire ulteriormente il dialogo euro-atlantico e, neanche troppo velatamente, per spingere verso la creazione di quella che fu chiamata Trans-Atlantic Free Trade Area (TAFTA) sul modello del North-American Free Trade Agreement (NAFTA) tra Stati Uniti, Canada e Messico. Tuttavia, la rinnovata attenzione della Casa Bianca verso i mercati asiatici sommata a quella dell’Europa verso l’approfondimento e l’allargamento dell’Unione si saldarono alle intrinseche difficoltà nell’armonizzare i differenti sistemi normativi e alle resistenze dell’opinione pubblica europea (a partire da quella francese). Ciò fece naufragare il progetto della TAFTA [2].

Nel 2006, dopo la crisi transatlantica sull’Iraq, l’allora neo-Cancelliere tedesco Angela Merkel rilanciò l’iniziativa con l’auspicio di riavvicinare Europa e Stati Uniti. Sotto la spinta tedesca, nell’aprile dell’anno seguente il Presidente George W. Bush, quello della Commissione europea José M. Barroso e la stessa Merkel firmarono l’accordo con il quale si istituiva il Transatlantic Economic Council (TEC), per rafforzare gli scambi e gli investimenti e la capacità di entrambe le economie di innovare e competere sui mercati globali.

Tenuto in naftalina per oltre quattro anni, UE e USA rispolverarono il TEC nel novembre 2011 di fronte alle crescenti difficoltà causate dalla crisi economica su ambo le sponde dell’Atlantico. Gli fu commissionato un Report per valutare nuove opportunità di stimolo per la crescita e la creazione di posti di lavoro in Occidente. Le conclusioni del lavoro consentirono al presidente Obama di annunciare durante il discorso sullo stato dell’Unione del 2013 la volontà di avviare i negoziati con l’UE per l’area di libero scambio transatlantica.

Nell’estate 2013 presero quindi il via le trattative diplomatiche per istituire ciò che fu ribattezzata Transatlantic Trade and Investment Partnership. La TTIP è nata come un progetto più ambizioso della TAFTA sia in termini economici che politici. Da un punto di vista economico, non solo intende liberalizzare il flusso di merci e servizi, ma anche quello più cospicuo degli investimenti. Se è vero che attualmente le tariffe protezionistiche transatlantiche sono già basse (5,2% per l’UE, 3,5% per gli USA), le barriere non tariffarie costituiscono ancora il principale ostacolo ad una maggiore integrazione delle due economie. La Camera di Commercio degli Stati Uniti ha infatti stimato che la loro eliminazione incrementerebbe il PIL combinato di USA ed UE di circa il 3% su base annua. In più, la TTIP sarebbe in grado di creare 7 milioni di nuovi posti di lavoro oltre a fornire nuovi stimoli per aumentare la produttività e la competitività [4]. Eliminando congiuntamente dazi doganali e barriere non tariffarie, il Centre for Economic Policy Research (CEPR) ha poi valutato che il beneficio per l’economia europea ammonterebbe a 119 miliardi di euro l’anno, pari in media a un introito aggiuntivo del valore di 545 euro per ciascuna famiglia. L’economia americana ne ricaverebbe un utile supplementare di 95 miliardi euro annuali, pari a 655 euro per famiglia [5]. La TTIP potrebbe perciò rappresentare il volano della crescita che consentirebbe ai mercati euro-atlantici di invertire (o quantomeno rallentare) il passaggio a livello globale da «una posizione di preminenza ad una di predominanza [che oggi è] ancora considerevole, ma meno schiacciante rispetto al passato» [6].

Da un punto di vista politico, la riproposizione del progetto dell’area di libero scambio transatlantica indica che Europa e Stati Uniti hanno ormai riconosciuto il fallimento del Doha round e, più in generale, la ridotta efficacia del multilateralismo del WTO. A differenza della fine degli anni Novanta, infatti, la rapida ascesa dell’Asia e la conseguente riduzione delle quote di mercato di Europa e Stati Uniti hanno cambiato le regole del gioco, rendendo il WTO meno soggetto alle volontà dell’Occidente. Riconoscendo la supremazia del principio del libero mercato in chiave occidentocentrica, ciò che Obama sta perseguendo altro non è, quindi, che la direzione già indicata dal suo rivale repubblicano nelle scorse elezioni presidenziali, Mitt Romney, per il quale l’avvio di un’ambiziosa area di libero scambio con rigorosi requisiti democratici e liberisti per farvi parte (che avrebbe voluto chiamare Reagan Economic Zone) avrebbe dovuto funzionare come magnete globale in sostituzione del WTO. Come ha affermato il politologo di Harvard, Richard N. Rosecrance, il WTO ormai «è un fallimento. Se l’unione transatlantica prenderà corpo, al contrario, sarà talmente potente da creare i presupposti per una concertazione globale, a cui tutti vorranno aderire» inclusa «la Cina, spinta dalla necessità di operare con grandi economie di scala» [7].

La considerevole ambizione del progetto rischia però di incorrere in difficoltà di varia natura che potrebbero impedire in toto o, più probabilmente, in parte il raggiungimento dell’accordo. Il primo e più ovvio è la condizione strutturale del mondo euro-atlantico che, in quanto entità solo in parte inquadrabile entro confini economici e politici univoci, è regolarmente attraversato da faglie che tendono a ridurre la portata di una eventuale azione concertata. In aggiunta a ciò, la stessa UE e, dunque, i suoi Stati membri divergono fortemente sui rispettivi interessi economici, il che rende ulteriormente difficoltoso armonizzare a livello politico le posizioni dei futuri ‘vincitori e perdenti’ della TTIP. Il secondo aspetto, invece, riguarda la narrativa che circonda la TTIP e, quindi, di riflesso, la ‘legittimità’ del rafforzamento del legame euro-atlantico. Se le incertezze dell’opinione pubblica furono uno dei motivi del fallimento della TAFTA, a distanza di oltre quindici anni i governi dovrebbero riflettere sul non commettere lo stesso errore. Come per la TPP, infatti, anche il trattato della TTIP per entrare in vigore, dopo le firme dei negoziatori, dovrà essere ratificato dai singoli Parlamenti nazionali. Un fatto, questo, tutt’altro che scontato in ambo i casi.

* Davide Borsani è OPI Research Fellow e Head area USA e Americhe

[1] H. Kissinger, For US leadership, a moment missed, in ‘The Washington Post’, 12 maggio 1995

[2] Cfr. G. Lundestad, The United States and Western Europe since 1945. From “Empire” by Invitation to Transatlantic Drift, Oxford University Press, New York 2003, p. 264; D. K. Bandler – P. Rashish, The Trouble with TAFTA, in ‘The National Interest’, 6 febbraio 2007

[3] The Economist, Tricky weather: Germany’s role in Europe is changing, 11 gennaio 2007

[4] US Chamber of Commerce, Transatlantic Economic and Trade Pact, 2012, p. 2; IstitutoAffariInternazionali, A Deeper and Wider Atlantic, Documenti IAI 1301, febbraio 2013

[5] J. Francois, Reducing Transatlantic Barriers to Trade and Investments. An Economic Assessment, Centre for Economic Policy Research, marzo 2013

[6] D. Hamilton – J. Quinlan, The Transatlantic Economy, Volume 1: Headline Trends, Center for Transatlantic Relations, 2012

[7] La Stampa, “Se salta l’accordo Usa-Ue a vincere sarà Pechino”, 4 luglio 2013

[8] Cfr. il report di Confindustria, Accordo di Libero Scambio UE-USA. “Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP”. Analisi e Osservazioni, maggio 2013, pp. 36-37

 [10] La Stampa, cit.

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