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La Repubblica Democratica del Congo e il problema dei movimenti ribelli

Creato il 04 dicembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Danilo Giordano

Gli ultimi attacchi compiuti ai danni della popolazione civile della Repubblica Democratica del Congo, verificatisi giovedì 20 e venerdì 21 novembre in alcuni villaggi nei pressi della città di Beni, nella regione orientale del Nord Kivu, hanno causato la morte di almeno un centinaio di persone. Il bilancio esatto delle vittime è tuttora da definire: mentre Juma Balikwisha, deputato dell’opposizione congolese, ha dichiarato di aver «contato 95 corpi interrati in una fossa comune», Albert Baliesima, rappresentante della maggioranza al governo, ha affermato che «il bilancio definitivo oscilla tra i 70 e i 100 morti» aggiungendo inoltre che le forze di sicurezza «non hanno voluto che si continuasse a cercare, per evitare ulteriori ritrovamenti».

Questa ennesima carneficina porta ad oltre 200 il numero totale delle vittime provocate, nell’ultimo mese, dagli assalti indiscriminati delle milizie ribelli dell’Allied Democratic Forces (ADF) – gruppo ribelle islamista ugandese che dal 1996 si oppone sia al regime di Musuweni a Kampala, sia al governo centrale di Kinshasa – ai danni della popolazione civile inerme. Preoccupato dalla situazione, il Presidente congolese Joseph Kabila si è recato personalmente a Beni per cercare di rassicurare la popolazione, promettendo di sconfiggere al più presto i ribelli.

Tuttavia la sensazione generale è che l’esercito congolese, le Forces Armées de la République Démocratique du Congo (FARDC), non sia all’altezza della minaccia. Una considerazione confermata il giorno dopo il rientro di Kabila nella capitale Kinshasa, quando un altro assalto dell’ADF ha prodotto la morte di altre 11 persone, facendo scoppiare la rabbia popolare. In realtà, esercito e governo non si aspettavano una tale capacità offensiva dell’ADF: inoltre, gli accordi siglati un anno fa dall’esercito con un’altra milizia ribelle, l’M23, che prendono il nome dal primo accordo di pace siglato con il governo il 23 marzo del 2009, sembravano, piuttosto, far presagire l’avvio di un processo di pacificazione per il Nord Kivu. Il problema è che soltanto nell’est della Repubblica Democratica del Congo sono presenti almeno 50 gruppi ribelli, frutto della instabilità quasi perenne di queste aree di confine del Paese.

L’instabilità della Repubblica Democratica del Congo trova la sua miglior interpretazione nella storia del Paese, una storia che racconta di una dominazione coloniale belga particolarmente feroce e vessatoria nei confronti della popolazione locale. Il raggiungimento dell’indipendenza, il 30 giugno del 1960, non ha evitato al Congo di andare incontro a situazioni difficili, simili a quelle di altri Stati africani affrancatisi dalla dominazione coloniale: carestie, crisi nazionali, tentate secessioni, lotte intestine per la conquista del potere e naturalmente guerre. Dal 1971 al 1997, il Paese vive l’era assolutista di Mobutu che prende il potere con un colpo di Stato nel 1965, dopo aver ucciso i suoi avversari politici, e sottopone il Congo al più rigido e crudele dei regimi. Tra il 1996 e il 2003 il Congo affronta due guerre: la prima (1996-97) si conclude con la vittoria delle forze ribelli ruandesi e ugandesi comandate dal generale Laurent-Désiré Kabila, che poi diventerà Presidente, mentre la seconda (1996-2003) – definita dalla stampa internazionale come la prima guerra mondiale africana –, vede lo scontro tra i Tutsi, sostenuti dal Ruanda, e il Presidente Kabila, sostenuto da Angola, Namibia e Zimbabwe. Il risultato di questi conflitti è un Paese diviso in due: a occidente l’esercito di Kabila, a oriente le milizie ribelli, sconvolto, periodicamente, da feroci e sanguinose guerre civili.

Nonostante dal 1999 l’ONU abbia dispiegato una propria missione in Congo (MONUSCO dal 2010), l’organizzazione, forte di circa 20.000 effettivi, è accusata di incapacità e di “impropria vicinanza” con alcuni gruppi ribelli e con i Paesi che li sostengono. Di certo i militari onusiani sono in difficoltà: mercoledì 21 novembre, una pattuglia di soldati indiani, appartenenti al contingente della MONUSCO, è stata sottoposta al fuoco diretto di un gruppo di ribelli pesantemente armati, mentre in precedenza tre caschi blu ucraini erano stati arrestati, poiché trovati in possesso di uniformi delle FARDC. I nuovi sanguinosi attacchi di ottobre hanno scatenato la rabbia della popolazione locale contro l’ONU: centinaia di persone hanno sfilato a Beni il 22 ottobre, chiedendo la smobilitazione completa della missione. L’ONU non si è dovuta scontrare soltanto con la popolazione, ma anche con le autorità governative: il Ministro degli Interni del governo di Kinshasa, Adolphe Lumana N’Sefu, ha dichiarato “persona non grata” Scott Campbell, il Direttore dello UN Joint Human Rights Office (UNJHRO), il giorno dopo la pubblicazione di un report che accusava le forze di sicurezza congolesi di pesanti violazioni dei diritti umani.

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Missione Monusco in RDC – Fonte: Atlante Geopolitico Treccani 2014

Le accuse dell’ONU fanno riferimento all’operazione Sokola che le FARDC, appoggiate dalla brigata d’intervento della MONUSCO, hanno lanciato il 16 gennaio scorso contro i combattenti del gruppo ribelle ugandese dell’ADF, sull’onda dell’entusiasmo seguito alla firma dell’accordo di pace con il Movimento M23. Inizialmente, i bastioni dei ribelli ugandesi sono stati distrutti e il governo si vantava di aver messo in fuga anche quest’altro nemico, ma dopo nove mesi dall’inizio di una offensiva armata molto dispendiosa dal punto di vista militare e delle vite umane, il gruppo non è scomparso, anzi ha ripreso la sua strategia terroristica. Secondo Thomas d’Aquin Muiti, Presidente della Société civile du Nord Kivu – piattaforma civile che raggruppa ONG, sindacati e associazioni indipendenti –, il problema è che «sia la MONUSCO che l’esercito congolese non hanno compreso che l’ADF è una vera e propria organizzazione terroristica, e non un gruppo armato come gli altri», da cui la decisione, frettolosa, di sospendere l’operazione Sokola. Alcuni osservatori locali sostengono, invece, che l’offensiva si sia fermata in seguito alla morte improvvisa e brutale del Generale Jean-Lucien Bahuma, comandante della regione militare del Nord Kivu che gestiva direttamente e con grande competenza l’operazione.

L’altro fronte caldo è rappresentato dalle Forces Democratiques de Liberation du Rwanda (FDLR)  – gruppo separatista ruandese di etnia Hutu – che nel dicembre del 2013 si sono offerte di portare avanti un disarmo per tappe in modo da rientrare nella legalità e dialogando con le autorità centrali ruandesi. Le FDLR sono gli eredi delle milizie hutu Interahamwe, ovvero di coloro che nel 1994 diedero vita al terribile genocidio ruandese che in soli cento giorni causò la morte di circa 800mila persone di etnia Tutsi. Ma, un anno dopo la promessa di disarmarsi, un certo numero di loro ha ripreso le armi, perché stanchi di attendere un reinserimento nella società che non si è mai concretizzato. Il 2 luglio scorso si è tenuto a Luanda, capitale dell’Angola, un summit congiunto di due organizzazioni regionali, l’International Conference of the Great Lakes Region (ICGLR) e la Southern African Development Community (SADC), che ha concesso alle FDLR un ultimatum di sei mesi per completare il disarmo. Dopo tre mesi i risultati sono tutt’altro che incoraggianti: soltanto centottantasei ribelli si sono registrati al centro di Kanyabayonga, il punto di raccolta indicato dalle Nazioni Unite. Ora, dopo che è trascorso più della metà del tempo concesso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha espresso tutta la sua preoccupazione per la scarsità di risultati del processo di disarmo e ha sottolineato che il 2 gennaio 2015 rappresenta un termine ultimo, che non può essere ulteriormente derogato. In una dichiarazione pubblica resa il 5 ottobre a New York, il Presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, l’argentina María Cristina Perceval, ha chiesto esplicitamente al governo e alla MONUSCO di essere pronti a lanciare delle operazioni contro quei dirigenti e membri delle FDLR che ostacolano il processo di disarmo. Messi alle strette dalla comunità internazionale, i dirigenti delle FDLR hanno inviato il 3 novembre, una comunicazione a Joseph Kabila, Presidente della RD Congo, a Martin Kobler, capo della MONUSCO, nonché ai rappresentanti della SADC e della ICGLR, nella quale annunciano «la loro disponibilità ad effettuare una visita di ricognizione sul sito finale di acquartieramento di Kisangani», verso il quale dovranno essere convogliati i circa 200 già smobilitati e i successivi.

Altra situazione di impasse si è verificata nei confronti dei ribelli “pacificati” del movimento M23, la cui smobilitazione, tanto reclamizzata dal governo, è avvenuta solo in parte: più di 1500 ex-combattenti si sono spostati in Uganda e circa 300 in Ruanda. Il sospetto del governo congolese è che, a distanza di molti mesi dalla firma del cessate il fuoco, Ruanda e Uganda continuino a sostenere gli ex-combattenti del M23, nonostante una parte di loro abbia già beneficiato di una legge di amnistia.

La situazione di insicurezza non riguarda soltanto il Nord Kivu, ma anche la regione del Katanga, dove, negli ultimi mesi, ha ripreso piede la ribellione di un gruppo conosciuto come Mai-Mai Bakata Katanga, che rivendica il possesso di questa regione, grande quanto la Spagna e ricchissima di risorse minerarie. Il portavoce dell’UNHCR, Cecile Schmitt, ha lanciato un appello a tutte le organizzazioni umanitarie a favore dei rifugiati congolesi del Katanga che, negli ultimi tre mesi, sono stati costretti a lasciare in massa le proprie abitazioni, ottenendo scarsa assistenza e pochissime cure mediche.

Se a tutto questo aggiungiamo che il Paese si appresta ad affrontare un percorso difficile verso le elezioni presidenziali nel 2016, è facile comprendere che non c’è molta speranza in un miglioramento delle condizioni di stabilità politica per un territorio immenso e dalle importanti e pressoché inesplorate potenzialità economiche.

* Danilo Giordano è Dottore in Politica Internazionale e Diplomazia (Università di Padova)

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Photo Credit: Reuters/Julia Sestie

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