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La scomparsa dell’infanzia. Tornerà il suo ricciolo d’oro?

Da Lundici @lundici_it
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Dall’infanzia velocizzata di bambini che vogliamo subito adulti consumatori, alla riscoperta del gioco e della felicità di un’età che non si deve cancellare…dai bambini del sabato ai bambini della domenica

1. I bambini del sabato

L’INFANZIA VELOCIZZATA. Sul palcoscenico della società della New economy si recita, oggi, un unico copione teatrale: la celebrazione del liberismo/Far-west nel nome del dio maggiore della razionalità economica. Si tratta della visione totemistica della vita sociale che idolatra la stagione/adulta a età Regina. Insediata sullo scranno più alto (conta-di-più) perché dà le ruote alla globalizzazione dei mercati e dei consumi.

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In metafora, l’Adultità assume il volto del “sole” (raffigura l’età dell’oro), mentre le altre stagioni – infanzia, adolescenza, giovinezza, senilità – sopravvivono da Pianeti dalla luce riflessa (raffigurano l’età del bronzo).

Attenzione, però. I tre pianeti che precedono l’ingresso nell’Adultità sembrano colpiti da un destino comune. Soffrono una precoce delegittimazione esistenziale, in quanto stagioni della vita consigliate ad anticipare – velocizzare – l’uscita dalle proprie età evolutive per raggiungere al più presto la stagione paradisiaca dove campeggia l’adulto/lavoratore.

Si tratta di un’operazione di chirurgia generazionale praticata, per l’appunto, tramutando i bambini in adulti in-piccolo. Siamo all’infanzia-bonsai: ammirata come infanzia/nana in tutto e per tutto simile all’Adultità/gigante.

BAMBINI CHE SEMBRANO ADULTI. Un’infanzia velocizzata trasforma i bambini in tante “minicopie” del mondo dei Grandi. La sua mission diventa l’approdo anticipato nel luna-park dei consumi/adulti: scimmiottati nell’alimentazione, nell’abbigliamento, nel tempo libero, nella comunicazione (a partire dall’elettronica) e nei sentimenti (a partire dalle telenovele). Parliamo di una società tutta-economia che sembra riprodurre il mondo del pittore Fernando Botero. Popolato di bambini che sembrano adulti e di genitori con l’espressione di chi non vorrebbe mai crescere per non entrare nel tunnel senza ritorno della vecchiaia. Sono nature morte che vivono nella “rotondità” (è l’uomo, deriso da Nietzsche, simbolo dell’alienazione) e accomunate dalla stessa uniformità, da un’unica condizione di visibilità: l’essere-di-serie.

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Nello scenario buio delle prime stagioni della vita, l’agguato dell’anticipo dell’obbligo scolastico – la Scuola primaria a cinque anni, anziché a sei -preoccupa moltissimo perché concorre alla scomparsa dell’infanzia. Costretta a portare precocemente sul naso lenti/adulte, non sintonizzate con i suoi dispositivi di comprensione delle conoscenze e di interiorizzazione dei sentimenti. Parliamo di “lenti” che la porteranno ad assecondare i desideri e i compiacimenti di quei genitori che la vogliono anzitempo capace di vedere e di ragionare come gli Adulti. Il prezzo salatissimo che i bambini pagheranno al guardare con gli occhi di tanti/ometti è l’infelicità, perché percepiranno tutto in modo confuso, annebbiato e sdoppiato. Questa, la denuncia pedagogica: si vuole imporre – per Legge – l’abbandono precoce di una stagione evolutiva piena di immaginari, di incanti e di sogni. L’invito pressante ai genitori è di fare indossare ai figli l’abito del sabato, e non più la veste inamidata della domenica. Il penultimo giorno della settimana simboleggia (come nelle odierne pratiche sportive) l’anticipazione – e forse la cancellazione – della giornata della festa. Nella quale l’infanzia ha sempre potuto bere, fino all’ultima goccia, il calice del suo mondo magico e straordinario: popolato di scoperte e di richiami inattuali.

Verdetto finale. L’anticipo dell’obbligo scolastico è una minaccia di “infelicità” che, con il suo volto diabolico, volteggia sulla bambina e sul bambino. Accelera le loro età evolutive (fino a farle scomparire) spalancando le porte a quella pseudofilosofia dell’educazione che le considera stagioni esistenziali dalle quali sbarazzarsi in fretta.

2. I bambini della domenica

La nostra tesi è ben altra. Il giardino della Felicità è di scena nel teatro dell’educazione dove si recita il copione intitolato ai bambini della domenica. Siamo al cospetto di infanzie felici che assaporano, fino all’ultima goccia, il calice della creatività e del gioco. Parliamo della dimensione esistenziale sia fantastico/euristica (la creatività), sia corporea e contromano (il gioco). L’una e l’altra godono di rotture cognitive e di logiche divergenti. Espulse, con dileggio, dal monitor della Scuola tradizionale, noi le inondiamo di luce pedagogica.

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LA CREATIVITÀ. La Scuola tradizionale – per lo più imbrattata di conoscenze pedantesche – rimuove e censura un’istruzione colorata di Creatività. Al punto da relegare in soffitta i codici della manualità, della motricità, del gestuale, del musicale, del pittorico e dell’iconico.

La Creatività alla quale dà ospitalità è la controfigura – spesso la parodia – di qualsivoglia grammatica dell’immaginario e della fantasia.

Quali le cause dell’identità caricaturale del “creativo” a Scuola? Ci sembra di potere rispondere che sul banco degli imputati va posto il suo alfabeto rigidamente mnemonico delle conoscenze. È un modello verbalistico e libresco che soffre un inesorabile rovescio della medaglia: il confinamento e il declassamento dei linguaggi espressivi ed euristici al ruolo occasionale di esperienza compensava, di stampella di sostegno. Sviliti nel furfantesco compito di disintossicare lo stress mentale accumulato durante l’istru­zione ufficiale: cioè a dire, quando la Scuola indossa abiti nozionistici ed enciclopedici. Cosicché, i linguaggi grafico/pittorici, musicali, iconici, teatrali e manipolativi anziché essere testimoni di competenze alfabetiche (“lenti” con le quali guardare-capire-reinventare il mondo) vengono relegati, a mo’ di Cenerentole, ad accudire la bassa cucina dell’intrattenimento degli allievi negli spazi/break dell’insegnamento ufficiale. Di qui la deriva amara. Negli spazi curricolari della classe, alla Creatività viene fatta indossare la veste giullaresca di un clown. A questo, si assegna il compito di distrarre gli allievi – per qualche attimo – dalla cultura ufficiale: ovvero, dai Programmi ministeriali. Fino a insellarli in groppa alla fantasia prima di ricondurli nel banco in attesa del rintocco canonico delle lezioni frontali: arroganti proprietarie del palinsesto dell’istruzione ufficiale.

Morale tutta pedagogica. Se blindate nei banchi, immobili e in silenzio, le nuove generazioni scivoleranno lungo la china dell’infelicità.

IL GIOCO. Tendenzialmente, la Scuola tradizionale rimuove e censura un’istruzione colorata di Gioco. Il motivo? E’ imbrattata di insegnamenti pedanteschi che la obbligano a mimare, in un canto, quel sorriso e quella felicità che gli allievi spengono, forzatamente, quando si trovano al cospetto di alfabeti coccodé e signorsì.

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Relegato ad alleviare la sedentarietà da banco, al Gioco si impone la maschera (tragica) della sua caricatura. Una spremuta di quattro salti all’aperto – condita con una microesplosione di motricità e di libertà – permette di ricevere al ritorno nelle aule alunni silenziosi, concentrati e disciplinati.

Siamo al cospetto di una grottesca parodia. La pratica programmata (i dieci minuti dell’intervallo) del Gioco spontaneo si fa remunerativa per una Scuola che la usa da valvola di scarico della fatica mentale accumulata ascoltando la lezione dell’insegnante e leggendo il libro di testo.

Sì. È molto salato il prezzo pedagogico fatto pagare al tempo del Gioco. Semaforo verde a qualche sua momentanea presenza didattica (nei break delle lezioni) per poi subire stabilmente il semaforo rosso che respinge fuori dalla classe la sua fragranza alfabetica. Parliamo dei suoi canoni semiologici e semantici, delle sue grammatiche e sintassi, del suo gusto per l’imprevisto e per l’avventura, della sua voglia inesauribile dell’emozionante, dell’azzardo, del comico, del magico.

Domande. Sarà possibile divulgare ancora negli spazi ufficiali della Scuola il profumo ludico? E ancora. Tra i banchi si potranno incontrare allievi con-la-testa-all’insù?

Forse, sì. Ma a patto di denunciare, senza rimorsi, un sistema di istruzione verbalistico e libresco che impone un inguardabile rovescio della medaglia: il declassamento del Gioco al ruolo occasionale di esperienza “compensativa”. Alla quale delegare il compito – a quota/zero di gioia personale – di disintossicare lo stress mentale generato da Programmi ministeriali mille miglia lontani dal mondo di cose e di valori delle giovani generazioni. Un replay ancora. I linguaggi targati Gioco – “saporiti” perché cucinati di Fantasia – anziché essere elevati a dignità cognitiva vengono relegati nella Scuola, in guisa di Cenerentole, ad accudire la bassa cucina dell’intrattenimento negli spazi break della lezione del docente. Al piacere ludico non resta che indossare la veste del clown con l’esplicito compito di distrarre gli alunni dalla cultura ufficiale.

Una spremuta di linguaggi ad elevati tassi di spontaneità, emotività e libertà può avere di ritorno in classe allievi silenziosi, concentrati e disciplinati? Probabilmente sì. Allora battiamo le mani, con amarezza, alla libera motricità quando si fa mera occasione di “scarico” della fatica mentale da addebitare alla memorizzazione di conoscenze stampate nelle pagine del libro di testo e del computer.

Ne siamo consapevoli: la testa all’insù che auspichiamo impone una condizione inaccettabile. Che resti fuori dalla vita di banco – è il prezzo didattico da pagare – l’inebriante profumo dei suoi codici semiotici e semantici, delle sue grammatiche e sintassi, del suo gusto per l’imprevisto e per l’av­ventura, della sua voglia inesauribile dell’emozione, dell’azzardo, del comico, del non-sense.

Il gioco e la creatività sono alfabeti troppo trasgressivi ed eversivi per una Scuola tuttora ancorata al molo delle conoscenze canoniche, precostituite e inossidabili.

Per questo diamo loro il cherosene per salire verso quel cielo che raffigura il paradiso perduto – felice – delle nuove generazioni.

IL SOTTOSCALA DELLA BEFANA. Ridotto alla povertà pedagogica, al Gioco – si è detto – viene fatta indossare la maschera della sua caricatura.

Diamo voce a un interrogativo. È possibile divulgare negli spazi didattici della Scuola il piacere di giocare? Sì, soprattutto se la Scuola dell’infanzia (nido-più-materna) e la Scuola dell’obbligo danno cielo all’aquilone della Ludoteca.

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Chi è questo Carneade? È la biblioteca del giocattolo, una sorta di paese dei balocchi. Una libera vetrina di materiali ludici che ha il pregio di sottrarre il budget time del gioco infantile dalle ipoteche di cui si è detto: un tempo sistematicamente in ostaggio alla società dei Grandi. Non è una contro-Befana, ma l’altra/Befana. È il diritto al gioco trecentosessantacinque giorni l’anno.

Dunque, la Ludoteca è l’angolo del giocattolo situato vuoi nella Scuola del preobbligo e dell’obbligo, vuoi in spazi/comuni delle macroresidenze urbane. Parliamo di minibiblioteche (banche del gioco) dove le nuove generazioni possono prendere in-prestito materiali ludici per poi giocarli sia in spazi di interclasse, sia in luoghi domestici, sia in auspicate mini/zone condominiali.


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