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La scuola è finita: andate in pace

Da Maddalena_pr

IL VERO GUAIO È CHE, PER LA PRIMA VOLTA, STIAMO PARLANDO DI BEN 3 MESI DI “VACANZA”. E CHE, PER QUANTO AMI I MIEI FIGLI, SONO UNA MADRE, NON SONO UN CAMMELLO.

Da qualche sera fatico a prendere sonno. Non è solo per via di una rinite che fa figo chiamare così (trattasi di comune raffreddore, che “comune” non è affatto, in quest’epoca), degli acari che pasteggiano e scorrazzano su lenzuola cambiate troppo di rado, della canicola che affligge tutti negli ultimi tempi. È piuttosto una sorta di ansia, un brivido incerto che mi tormenta, insidioso come una zanzara: la scuola è finita.

Un attimo di dovuta nostalgia: Patrick torna in classe come ci è entrato, nove mesi fa, lo zaino leggero, un astuccio, il diario. Senza libri, senza fatica. Il primo anno di questa nuova, grande sfida, si chiude.
Bene, ho già lacrimucciato abbastanza.
Adesso però siamo seri: l’inizio delle sue vacanze è la fine delle mie.

Certo, sentimentale come sono, chioccia all’italiana, l’idea di godermi i figli così completamente è allettante. Malauguratamente, però, il senso pratico che ho sapientemente sviluppato con la maternità m’induce alla realtà, meno poetica, di giornate destinate a diventare lunghissime, e di tempi liberi pronti ad accorciarsi irreversibilmente come quando lavo un maglione a sessanta gradi.

Il vero guaio è che, per la prima volta, stiamo parlando di ben 3 mesi. 3 figli e 3 mesi.
E che, per quanto ami i miei figli, sono una madre, non sono un cammello: non è che posso fare scorta di bambini, un’abbuffata di tempo insieme, le riserve in vista dell’inverno. Qualsiasi forma d’amore ha bisogno di equilibri, di dare e prendere, avere e non avere.

Se poi la Isabelle dovesse decidere di abbandonare proprio ora il sonnellino del mattino, puntello irrinunciabile del mio cazzeggio salva-vita, sarò costretta a essere quello che, in fondo, non sono mai completamente: una mamma a tempo pieno. Ma pieno davvero.

Ricordo quando ero bambina io, l’entusiasmo delle ultime ore, poi varcare quel portone che cominciavo a detestare, e via… verso la Terra Promessa: somiglia all’eccitazione che leggo ora negli occhi di Patrick e di orde di altri scolari come lui. Peccato non essere altrettanto entusiasta. Vedi come cambia la prospettiva, passando da figlia a madre: ho saltato il fosso, all’eccitazione si sostituisce una smorfia vagamente tesa.

Chi lavora deve trovare dove piazzare la prole. Chi non lavora lavorerà più che mai. E tutte (tranne forse un paio di madri destinate alla beatificazione) già sudano all’idea.
Perché sì: non sei la sola che l’ha pensato. Non sei la sola che si chiede come sopravvivere. Non sei la sola che si sente un pochettino stronza.

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