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La Sesta Edizione del Bari International Film Festival 2015 ricorda il maestro del cinema italiano Francesco Rosi

Creato il 24 marzo 2015 da Alessiamocci

Giunto ormai alla sesta edizione il Bari International Film Festival si sta inserendo nel panorama internazionale come un rilevante momento culturale ed un festival cinematografico di ampio respiro.

Il 21 marzo, ad apertura del Bif&st, è stato proposto “Midnight Express” di Alan Parker cui è seguita una master class del regista coordinata dal critico cinematografico Derek Malcolm.

Nella serata inaugurale al Teatro Petruzzelli di Bari è stato presentato in anteprima internazionale “Tempo instabile con probabili schiarite” di Marco Pontecorvo, a suggellare una giornata fitta di incontri, proiezioni e laboratori.

Giornata del 22 marzo con Jean-Jacques Annaud: nella mattinata proiezione al Petruzzelli di “Seven years in Tibet”- cui è seguita una master class del regista coordinata dal critico cinematografico Michel Ciment -, in serata premiazione con il Fipresci 90 Platinum Award e proiezione del suo ultimo film “Le Dernier loup”.

Il pomeriggio del 22 marzo è stato dedicato al grande Maestro del cinema italiano Francesco Rosi con due incontri presso il Teatro Margherita di Bari.

Il critico cinematografico francese Michel Ciment ha presentato il suo “Dossier Rosi” giunto ormai alla terza edizione: un importante saggio critico sull’opera omnia di Rosi corredato da una raccolta di interviste, documenti, fotografie.

Ma Ciment ha anche raccontato Rosi e il suo cinema. A partire dall’esemplarità e dalla novità di “Salvatore Giuliano”,  vero e proprio “shock culturale” nella sua sensibilità di giovane appassionato di cinema. Per Ciment Rosi è l’erede diretto di Visconti (per il senso estetico) e di Rossellini (per la matrice neorealista). Tutti i film di Rosi sono attraversati da una tensione conoscitiva: il suo è un realismo critico che supera il realismo puro attraverso un continuo interrogarsi sulla realtà che viene raccontata, un interrogarsi di cui rende partecipe lo spettatore. Ciò che più conta, continua il critico, è che in Rosi non c’è mai uno schierarsi a favore dei “buoni rivoluzionari” contro i “cattivi borghesi”, nessun manicheismo: il suo cinema non fornisce risposte ma stimola lo spettatore alla riflessione.

Con la morte di Rosi – nello stesso periodo dei tragici eventi in Francia – Ciment ha dichiarato di avere pensato che la realtà stesse imitando l’arte superandola. Ed ha chiarito: in tutti i film di Rosi la morte è un elemento cruciale. In “Salvatore Giuliano”, ne “Il caso Mattei”, in “Mani sulla città”, in “Lucky Luciano” ed ancora nei due progetti mai realizzati – su Che Guevara e Giulio Cesare – la morte è sempre l’elemento da cui parte l’analisi di Rosi cineasta politico, poeta e metafisico, autore di opere che non invecchiano, di opere che coinvolgono i giovani e li stupiscono.

Ciment ha poi sottolineato quanto Rosi abbia influenzato il cinema americano come nel caso di “Nixon” diretto da Oliver Stone – in particolare fonte di ispirazione per gli americani è “Il caso Mattei” in cui il regista più che sulla scoperta dell’identità degli omicidi spinge verso un’analisi delle cause economiche e politiche dell’assassinio -.

Nonostante gli ultimi anni siano stati caratterizzati dalla programmatica volontà di “uccidere i padri” – Ciment ha fatto riferimento a Goffredo Fofi – per il critico francese è fondamentale che le nuove generazioni di registi non distruggano l’albero genealogico del cinema perché, come diceva Cocteau “un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico“.

Massimo Ghini, protagonista de “La tregua” di Francesco Rosi, tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi – un film che Ghini ha definito difficile, girato in una Ucraina difficile – ha ripercorso alcuni momenti del suo lavoro con il regista: l’attore, da “operaio della filiera produttiva del cinema”, ha ricordato il “professore” – come veniva chiamato Rosi sul set – soffermandosi sulla precisione e sul rigore del pensiero che, coniugati con l’estro e la fantasia, davano vita alle opere di Rosi, sempre moderne ed attuali, opere dal carattere epico, ha precisato Ghini, che hanno poi ispirato Coppola e tanti altri.

All’incontro con Ciment e Ghini – coordinato da Angela Bianca Saponari - è seguito quello con Ettore Scola e Giuseppe Tornatore, autore del libro-intervista a Francesco Rosi “Io lo chiamo cinematografo”, con la partecipazione commossa di Carolina Rosi, figlia del grande cineasta.

Un libro-intervista che per Scola è tanto più speciale per la stima reciproca tra Tornatore e Rosi: un libro che introduce alla passione del fare cinema, tratto distintivo di entrambi i registi.

Un progetto che ha rappresentato, come ha ammesso la stessa Carolina Rosi, un percorso di rinascita profonda per Francesco che ha rivisto se stesso, ha potuto ripensare al proprio lavoro partendo anche dal ricordo del suo primo ciak per “Camicie Rosse” di Alessandrini.

Un percorso durato due anni e mezzo che ha rappresentato per Tornatore una immensa fonte di ricchezza: per il ragazzo che sognava di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha raccontato, senza mai potere frequentare la scuola per varie ragioni, Rosi è stato una scuola fondamentale in cui prendere consapevolezza del legame profondo tra cinema e vita privata.

Rosi è stato una scuola fondamentale per capire quanto spesso sia necessario tornare sul proprio lavoro: quando vedevano insieme un film, per esempio, il grande maestro era perfino crudele con se stesso nel riconoscere che una determinata scena, in quel determinato film non era all’altezza delle sue intenzioni. Tornatore ha così interiorizzato l’infinita possibilità di prospettiva del mestiere di regista, mestiere che non si possiede mai davvero, ha concluso il premio Oscar che ha galvanizzato un pubblico attento e partecipe con la sua simpatia e la forza del suo contagioso sorriso.

Tornatore stesso, come ha sottolineato Ettore Scola è sempre molto attento alle infinite possibilità espressive dell’animo umano e preferisce – come Rosi – campi lunghi a primi piani poco totalizzanti.

Tornatore si è soffermato sull’uso dell’obbiettivo, sulla vera e propria filosofia estetica di Rosi che razionalizzava l’aspetto tecnico per analizzare il contesto in cui la storia si svolgeva ed il personaggio stesso che in quel contesto agiva: Rosi si documentava perché la sua costruzione fosse inattaccabile e per questo era convinto si dovesse aspettare almeno dieci anni per raccontare un evento, conosceva a fondo ogni dettaglio.

Francesco Rosi, oltre ad avere creato una nuova “grammatica” cinematografica, pensava al futuro: era convinto che una visione civile, una coscienza nei giovani dovesse essere sviluppata a partire dai primi anni di scuola, nella scuola. «Assicuriamoci che in futuro possano vedere i nostri film» ripeteva Rosi a Scola e ai colleghi, un “vedere” che il Bari International Film Festival assicura con un “sentire” ed un “conoscere per capire”.

Written and Photo by Irene Gianeselli


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