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LA SIGNORA DELLA NOIA | Splendori e miserie della Marchesa Casati | Venezia, Palazzo Fortuny

Creato il 03 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

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Splendori e miserie della Marchesa Casati

di Massimiliano Sardina

CAPOLETTERA
Luisa, classe 1881, fu innanzitutto una bambina timida e solitaria, e ricca, maledettamente ricca. Secondogenita dei facoltosi Amman (proprietari di grandi cotonifici e industrie tessili nella zona di Pordenone), nacque a Milano e visse fino alla prima adolescenza negli agi e nei lussi della principale residenza di famiglia in zona Brera; il destino però volle che rimanesse prematuramente orfana di entrambi i genitori all’età di quindici anni. Nel 1896, insieme alla sorella Fanny, Luisa passò quindi sotto la tutela dello zio Edoardo Amman, e per i quattro anni successivi visse tra la bella residenza milanese in zona Porta Comasina e la Villa Amelia di Erba. Nel 1900 sposa Camillo Casati Stampa di Soncino, un matrimonio tanto sbrigativo quanto malassortito; quasi fin da subito i due condussero vite separate, misero al mondo una figlia (Cristina, che crescerà perlopiù in collegi esclusivi) e divorziarono nel 1924. Di Camillo Luisa salvò una cosa sola, il cognome, che strinse a sé come un marchio fino alla fine dei suoi giorni; il titolo nobiliare Luisa l’aveva già acquisito per linea paterna (Alberto Amman, per i successi imprenditoriali, fu fatto conte dal re Umberto I alla fine dell’Ottocento). Assolti i cenni biografici passiamo ora a introdurre, magari sulle note dei Carmina Burana di Orff, la divina Marchesa Luisa Amman Casati Stampa, meglio nota come la Marchesa Casati. Eccola avanzare, funerea e regale, ammantata d’oro e d’ombra come una regina nera. Inseguì tutta la vita un ideale estetico estremo e personalissimo, e lo inseguì con i mezzi (potentissimi) di cui disponeva: i suoi soldi, un patrimonio di proporzioni colossali, apparentemente inesauribile, che prosciugò letteralmente nel giro folle d’un trentennio di eccessi e capricci.

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Ma chi era realmente la Marchesa Casati? Cosa agiva in lei, cosa la muoveva? Il proposito wildiano: “fare di se stessi un’opera d’arte” fu l’onomatopeico leitmotiv di tutta la sua esistenza imbevuta di macabri barocchismi. Alla superficie sfacciata e impietosa dello specchio la Casati consegnò la sua icona inquieta, pari tempo sovraesposta e sottoesposta come un rayogramma di Man Ray. Visse ogni singolo giorno della sua esistenza serotina e crepuscolare come un’orchidea nera tra le lattughe, fiore oscuro e pericoloso, figlia del buio e sposa della notte. Le tinte oscure ben tratteggiano la figura funebre della cupa marchesa, appassionata di esoterismo e scienze occulte, più a suo agio su un catafalco egizio o su un triclinio stile Antica Roma che sulla prevedibilità d’un sofà borghese. Un solo imperativo rimbombava nella sua mente: sbalordire, scioccare, stupire a tutti i costi; e, com’è noto, come tramandano aneddoti certi e speziate leggende, la Marchesa a tutto badò fuorché alle spese (quello che dilapidò, tra feste e affini, fu un vero e proprio tesoro da marajà). Basti pensare che per uno dei suoi eventi mondani la Casati arrivò ad affittare per una notte persino Piazza San Marco a Venezia. Attratta dapprima dalla Persia, e più in generale dal gusto orientale, la Marchesa Casati stabilizzò negli anni la sua uniforme in un total-black da bislacca vedova esotica, non di rado con rettili al collo e felini al seguito. Un travestimento nel segno del pleonasmo, quasi tautologico nel suo eccesso, ammiccante più a certo gotico carnevale che allo sfoggio d’un’eleganza elitaria. Un pavone nero striato d’oro e di bianco sfolgorante, un’ancella di Thanatos, una sfinge (senza segreti?) scolpita nell’opale. Centellinò la sua impulsiva inquietudine tra le sfarzose residenze di Roma (il villino di Via Piemonte), Venezia (Palazzo dei Leoni, poi di Peggy Guggenheim), Parigi (Palais Rose a Le Vésinet, vicino Versailles), Capri (qui in affitto, nella villa del medico e scrittore Axel Munthe)… fino a Londra, dove spirò logora e squattrinata nel peggiore dei tuguri. Splendori e miserie, per l’appunto, della Marchesa Casati.

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In Memorie di un’opera d’arte: la Marchesa Casati (edito da Skira) Luca Scarlini ripercorre – con quel piglio brillante e colto che sempre più gli compete – tutti i passi azzardati dalla divina, dal cotonificio (nel quale non entrò mai) alle dorate passerelle fino all’orlo del baratro che la inghiottì definitivamente nel 1957. Una vita in perenne tensione performativa spesa a pedinare un’identità tanto marcata quanto labile, e a rincorrere, inesausta, il fantasma di se stessa. La sua immagine, immolata a una perpetua ritualistica riformulazione, non conobbe mai pace. Più degli abiti, degli orpelli e della ricercata alta gioielleria, più della circense fauna da compagnia e più delle coreografie da strascico, più di tutto questo della Marchesa colpiva lo sguardo, dilatato dall’atropina e copiosamente bistrato, uno sguardo carismatico e magnetico, ipnotico (e distante, come solo sa esserlo quello d’un’algida diva); le fotografie a fatica ne restituiscono la perforante pregnanza, ma certo contribuiscono a rendere l’idea. Un contrasto perfetto quello tra il rimmel nero e il biancore del volto incipriato di pallore lunare, il tutto incoronato da una chiassosa chioma rossa, accesa da reiterati impacchi d’henné (e più in vetta un curioso copricapo nero a guisa di cilindro). Più che una mise un paludamento, una bardatura, una divisa indossata a mo’ di seconda pelle, in sintonia con una personalità altrettanto stilizzata e piegata a certa drammaticità. Virò lo Jugendstil verso un allure smaccatamente cimiteriale, e non di rado fece proprie le simbologie lugubri del barocco funebre. Spettrale mannequin, mezza strega e mezzo clown, la Casati spinse la sua estenuante ricerca estetica ben oltre i confini dell’eleganza tout court, sposando il grottesco, il kitsch, la parodia. Alle prudenze della sobrietà e del minimalismo oppose sempre l’eccesso, l’accessorio, la sublime ridondanza del superfluo. Dove volesse arrivare e cosa volesse suscitare, nel profondo, è difficile stabilire. Certo è che visse da assoluta protagonista ogni giorno della sua vita, in bella posa sui piedistalli e sui palcoscenici che ebbe cura di allestire con minuzia e dedizione maniacali. Pressoché incurante del giudizio altrui, anzi corroborata da quell’ilare disappunto che spesso accompagnava le sue performance nei salotti del bel mondo, la Marchesa non rinunciò a questo singolare febbricitante travestismo nemmeno nel chiuso delle sue sontuose residenze. Al floreale curvilineo dell’Art Nouveau, imperante nei primi lustri del Novecento, preferì una profusione scenografica di arredi oro-bianco-nero, certo più confacente alla sua tensione verso l’oscuro e l’estremo.

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Amò disordinatamente, lasciandosi trasportare dall’estemporaneità delle fugaci passioni. Tra le sue relazioni amorose figurò persino Gabriele D’Annunzio, che invano tentò di ribattezzarla con uno dei suoi nomignoli (la chiamò Coré, come la dea degli inferi, e in più occasioni anche “la Lontana”, vezzeggiativo a indicare che il loro fu più che altro un amore a distanza); il sommo esteta scambiò con “la Lontana” una fitta corrispondenza, ed eccone qui uno stralcio indicativo: «Io posseggo, mia cara, la poesia che ti ritrae in ogni tua prospettiva.». D’Annunzio ripianò anche alcuni debiti contratti dall’esosa signora. Il nome della Marchesa Casati compare (ora dichiarato, ora mascherato) tra le carte di numerosissimi importanti protagonisti del primo Novecento, valga per tutti il nome di Jean Cocteau, che nel 1935 fu tra i primi a tracciarne un ammirato profilo biografico («[…] La Marchesa Casati aveva saputo crearsi “un tipo” all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere. Nemmeno di stupire. Si trattava di sbalordire.» dai Ritratti-ricordo di J. Cocteau). Rimandiamo all’esaustivo già citato saggio di Luca Scarlini – e agli interventi di Daniela Ferretti, Gioia Mori, Fabio Benzi, Luca Massimo Barbero, Paola Bonifacio, Claudio Marra, Raffaella Castagnola, Doretta Davanzo Poli, Jorge Lozano, Lodovica Rizzoli, Scot D. Ryersson e Michael Orlando Yaccarino contenuti nel catalogo della mostra veneziana – per un più puntuale quadro delle relazioni sociali, artistiche e amorose intrecciate dalla Casati tra Italia, Francia e Inghilterra.

Alta all’incirca un metro e settantacinque, segaligna (e per usare un’espressione di Gioia Mori, tra le curatrici della mostra: “anoressica nel corpo e bulimica nella mente”), androgina, con una leggera gobba sul naso; non particolarmente bella, una ieratica mortuaria femme fatale in netta antitesi con i modelli di bellezza femminile in voga tra Belle Époque e post-Belle Époque. Un suo rovescio in chiave soave e mediterranea fu la bella rivale Rita Lydig, ammirata da Cecil Beaton, Boldini e Sargent. Per visualizzare compiutamente l’immagine della Casati dovremmo operare un coraggioso innesto tra le spigolosità ligneo-sanguigne di un Egon Schiele e le estreme stilizzazioni bianco-nere di un Aubrey Beardsley, il tutto qua e là stemperato nella sintesi lineare e decorativa di un Erté. Le fotografie, specie quelle di Man Ray (tecnicamente non proprio riuscitissime) ci restituiscono una fisionomia tesa e allucinata, tratti rigidi, freddi, nessun cedimento di sensualità. Il Kajal, steso abbondantemente quasi a mo’ di mascherino (sorta di veletta-bautta cosmetica) cerchia un’espressione atterrita e attonita, spalancata su platee altrettanto esterrefatte. All’indole timida della prima giovinezza la Casati sovrappose un carattere forte, determinato, che con l’andar degli anni si fece anche difficile e dispotico. La costruzione del personaggio Marchesa Casati, all’indomani delle nozze e della sbrigativa gravidanza, si concretizzò in tempi brevissimi; tra le “divine” del passato che più la ispirarono ci fu Virginia Oldoini, meglio nota come la Contessa di Castiglione.

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Assai arduo individuare un diretto precedente assimilabile alla Marchesa Casati, così atipica, così nuova per l’epoca, pur se al tempo stesso demodé. Di certo ai forti contrasti della sua immagine contribuì non poco la nascente estetica cinematografica (si pensi al bianco-nero fortemente contrastato delle dive del muto tra fine ‘800 e fine anni Venti). Nei primi decenni del ‘900 lo spettacolare era dunque veicolato dall’iconografia cinematografica, dal vibrato di quei chiaroscuri scaturiti come da una realtà magica. La Casati proiettò sulla sua figura composita questa patina di suggestioni foto-filmiche e le piegò al diktat del suo stile. Non era né una scrittrice, né una poetessa, né una pittrice, né una cantante, né un’attrice… nulla di tutto questo, ma a modo suo fu un’artista o per lo meno ambì ad esserlo. La sua frase più celebre fu: “Voglio essere un’opera d’arte vivente”. Un’artista prolifica e inesauribile, mai seriale. Fu innanzitutto una musa (inquietante) per un nutrito stuolo di artisti, più o meno noti, che la ritrassero in tutte le salse, in tutte le tecniche e in tutti i formati. Negli anni la Marchesa collezionò l’immagine polimorfa di se stessa in una “galleria”, tempio autopromozionale di un’iconografia ispirata alla sua misterica vedovanza. Giovanni Boldini la ritrasse per ben due volte, cogliendone ora l’austerità eterea della silhouette (1908), ora la trista cupezza dello sguardo (1911-1913). Del ritratto di Vittorio Corcos, purtroppo, non resta traccia. Non tutte le riproduzioni avanguardiste della Marchesa sono ospitate nell’itinerario della mostra, sparse e disseminate come sono tra l’America e l’Europa. Ai fini del nostro racconto ci limitiamo a menzionare la seguente carrellata di ammirati ritrattisti (pittori, scultori, fotografi), in un arco temporale che va grosso modo dai primi anni del Novecento fino alla metà degli anni Trenta: Léon Bakst (1912), Mariano Fortuny (1913), Alastair (1914), Paolo Troubetzkoy (1914), Catherine Barjansky (1914), Giacomo Balla (1916 e 1920), Depero (1917), Jacob Epstein (1918), Augustus Edwin John (1919), Renato Bertelli (1920), Federico Beltràn Masses (1920), Romaine Brooks (1920), Kees Van Dongen (1921), Man Ray (1922 e 1935), Jean De Gaigneron (1922), Mario Natale Biazzi (s.d.), Ignacio Zuloaga (1923), Joseph Rous Paget-Fredericks (1927, 1940 e 1949), Sarah Lipska (1930), e a questo elenco si aggiungano anche i contributi di Paul Francois Elleu, Adolf de Meyer, Roberto Montenegro, Lolo De Blaas, Gustav–Adolf Mossa, ecc…. Un capitolo a parte merita Alberto Martini, che nutrì per l’icona poliedrica della Marchesa una febbrile e servile ossessione, tale da rappresentarla in numerosissime versioni. Una curiosità: in una scena del film Ludwig anche Visconti la omaggiò ispirandosi alla celebre fotografia di Man Ray che la ritrae tra i due cavalli impennati. In questi ritratti sono gli occhi a farla da padrone, soprattutto nei dipinti di De Gaigneron, Biazzi, Van Dongen, Beltràn-Masses, John (scelto come locandina della mostra), Zuloaga… occhi zebrati di tenebra, inzaccherati di pulviscolari penombre, censurati dal maquillage buio pesto e insieme risospinti verso un abbaglio. Occhi da maga, medusei, impassibili, fissi a rimirar l’altrove. La Galleria Casati – allestita nel Palais Rose dal 1923, ultima residenza dello Charlus proustiano Robert de Montesquiou – contava circa centotrenta “versioni” della divina Marchesa, dal Simbolismo decadente al Surrealismo magico, dall’Espressionismo Fauve fino al Futurismo, una galleria di specchi più che una quadreria, supremo trionfo di un’egolatria indomita e multiforme. La collezione però cominciò a disperdersi già verso la fine degli anni Venti. Tutto il noir sberluccicante della Marchesa Casati diede i primi seri segni di intermittenza nel 1927, tra il magnifico (e riuscitissimo) Bal de la Rose d’Or e il disastroso Bal de Caiostro (funestato da un improvviso temporale).

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La parabola della Corè può emblematicamente inscriversi tra questi due estremi: lo splendore e la caduta. Il rovinoso dissesto arriverà qualche anno dopo, nel 1934. La fotografia di Man Ray del 1935 La Marchesa Casati come Elisabetta d’Austria ne coglie a pieno la fiera (e forse inconsapevole) decadenza: sulla monumentale impennata dei cavalli bianchi si staglia una domatrice temibile ma segnata, attempata, con un piede già nell’oblio; anche Augustus E. John nel ritratto del 1942 (uno degli ultimi) fa echeggiare i passati splendori, anzi vi aggiunge sullo sfondo una nube presaga. Sempre nel ’42 Carl L. T. Reitlinger fotografa una Luisa Casati ancora in perfetto stile “vedova tenebrosa”, fasciata di nero, con trucco marcato e fitta veletta, ma la mise sa già di parodia, di autocitazione. Gli scatti “rubati” da Cecil Beaton nel 1954 mostrano impietosamente la senescenza di una reine-clochard, un po’ ridicola nel patetico travestimento di se stessa, ma ancora tenacemente aggrappata al suo mito. La miseria era sopraggiunta, violenta e irreversibile, dopo anni di sistematico sconsiderato sperpero e spregio del denaro; semplicemente dei soldi si era sempre disinteressata, così come della politica e di tutte quelle questioni che esulavano dalla sua missione performativa. Se avesse gestito la sua lucida follia in modo più oculato non sarebbe finita a sopravvivere di elemosine. Negli ultimi dieci anni portò indosso lo stesso logoro vestito di velluto nero con inserti in leopardo, una divisa che la accompagnò anche nella tomba. Morì di ictus il primo giugno del 1957, all’età di settantasei anni, nel suo piccolo appartamento londinese al 32 di Beaufort Gardens. L’epitaffio sulla sua tomba, nel cimitero di Brompton, reca le seguenti parole: “L’età non può avvizzirla né può l’abitudine rendere stantia la sua infinita varietà.” (dall’Antonio e Cleopatra di Shakespeare). Nella tomba, a farle compagnia, fu deposto uno dei suoi cagnolini impagliati. Oltre a una sparuta cerchia di appassionati di occulto, furono i barboncini e i pechinesi i suoi ultimi e inseparabili compagni, meno esosi dei ghepardi e dei pitoni degli anni d’oro. Madame la Nuit consumò i suoi ultimi anni tra i fumi d’incenso delle sedute medianiche, convinta di poter comunicare telepaticamente con i morti (l’interesse per lo spiritismo fu una costante di tutta la sua vita). Il personaggio Marchesa Casati ha ispirato e continua a ispirare tanta letteratura, tanta arte, tanto cinema, e naturalmente anche tanta alta moda (si pensi alla collezione del 1998 di John Galliano per Christian Dior, ispirata per l’appunto alla gotica eccentricità della obscura Corè).

“Il mondo venera gli originali” e ci piace pensare che fu questo il suo ultimo pensiero prima di entrare definitivamente nell’ombra (qualcuno forse avrà colto il riferimento alla Contessa Sanziani della Nina di Vincente Minnelli, 1976).

La mostra La Divina Marchesa: arte e vita di Luisa Casati, dalla Belle Époque agli anni folli, allestita nelle belle sale veneziane di Palazzo Fortuny, chiuderà i battenti nel mese di marzo 2015.

Massimiliano Sardina

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