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La sposa, di Mauro Covacich

Creato il 12 maggio 2015 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Inizio con una banalità: tutto scorre. Inizio con questa dichiarazione ovvia perché La sposa mi è piaciuto, e non solo. Mi ha toccata, mi ha scossa in qualche modo: non che sia stato un urto da spezzare, piuttosto un tocco leggero ma in un punto sensibile. E quando mi innamoro delle parole scritte in questo modo, le mie vengono a mancare. Da qui la necessità di iniziare a parlarne pian piano, con un certo pudore. Tutto scorre, quindi.

Come acqua su una lastra di vetro, la vita si frammenta in piccole gocce, scivola, cade e ben poco resta. Riuscire a rallentare questo scorrimento continuo, che non lascia tracce, dove una goccia sostituisce l’altra senza sosta, senza solchi, è compito di pochi, ed è compito dell’Arte. L’artista riesce –con il pennello, lo strumento musicale, le parole- a fermare la goccia e a farne lente di ingrandimento su un concetto, a farne luce nell’oscurità, punto fermo, àncora e zattera nel flusso indistinto.

Così è la scrittura di Mauro Covacich ne La sposa: gocce su gocce, e poi una due tre gocce che diventano altro, riflessione, momento imperdibile, storia di umane e disumane vicende. Si ingrandiscono e occupano lo spazio del lettore, lasciando senza fiato nella loro lucente chiarezza, nel disincanto spietato. Cronaca e pensiero intimo si fondono, autobiografia indistinguibile dalla narrazione che, pur divisa in racconti apparentemente scollegati, trova un senso, una concatenazione: un’artista che diventa sposa che diventa vittima che diventa speranza di salvezza che diventa sconfitta. I figli mai avuti aspettando il momento, il momento che fugge, la fuga della felicità. E un crudele safari che uccide, che salva. Forse salva. Forse apre una possibilità. Forse no. Un uomo che nasconde esplosivo nei supermercati, una ragazza dei centri sociali, un funzionario molto per bene e una figlia con i dreads tagliati. E la verità deflagrante.

Ma non c’era sintonia tra lui e la vita, c’era spasmodica, dolorosa distonia, chiunque se ne sarebbe accorto. E temo proprio si potesse affermare lo stesso di me. “Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il male che è in noi.” Sarà vero, cara Simone Weil? E il tizio (o la tizia) che dopocena si ritira in cantina a fabbricare piccole amorevoli bombe come velieri in bottiglia? E l’arte forse ancora più minuziosa di questo operaio del comune? E la mia?
Ogni mattina quando lo lasciavo di nuovo solo nel parco, avrei voluto dirglielo. Guardi che lei non lo sta facendo perché sta bene, perché è una brava persona. Lei lo sta facendo perché sta male. Come me.

in L’Uomo-che-soffia (nevrosi aerobica 3)

I protagonisti dei racconti, uomini e donne comuni –per quanto possan considerarsi comuni l’alienazione, il disagio, la ferocia e la sofferenza, il “male di vivere” insomma- sono delineati con realismo macroscopico; ma è questo sguardo ravvicinato che rende la scrittura poetica, come se avvicinando sempre più lo sguardo ad una nitidissima fotografia in bianco e nero (perché non ci sono molti colori, in questi ritratti) il soggetto perdesse via via di contorno e contrasto, pur mantenendo la sua essenza. Sofferenza, narrata  con umanità. Non distacco, non partecipazione, neanche compassione: semplicemente il riconoscere le sfaccettature dell’animo umano come tutte, se non ammissibili, possibili.

Cullata dalla voce di Covacich, pulita e scorrevole, ho letto i diciassette racconti che compongono il volume voracemente: spesso ho pensato al libro chiuso durante la giornata, altrettanto spesso ho sentito l’urgenza che un racconto continuasse, che mi portasse fino alla fine della storia. Invece i personaggi –la sposa, il cardiologo, la ragazza con i dreads, il borgataro, il dirigente, i cacciatori- restano sospesi, gocce a loro volta sul vetro delle infinite possibilità, e forse per questa essenza incompiuta non dimenticabili.


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