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La strategia per l’Africa di Obama, nel segno della continuità

Creato il 20 settembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Luca Barana

La strategia per l’Africa di Obama, nel segno della continuità
Il Presidente Obama è un uomo impegnato. Sembrerebbe una banalità, riferendosi al Presidente degli Stati Uniti d’America, ma non è così. Negli ultimi mesi Obama ha dovuto affrontare un set di sfide notevole: una campagna per la rielezione difficile, un’economia che stenta a riprendersi, la crisi del debito in Europa che rischia di trascinare nel baratro anche gli Stati Uniti, l’estenuante confronto con la Cina in materia commerciale e sull’equilibrio di forze nel Pacifico. Solo nelle ultime due settimane si sono susseguiti una convention democratica che pare aver rilanciato le prospettive di rielezione del Presidente e i riots anti-americani nel mondo arabo, che hanno portato alla morte dell’ambasciatore in Libia Chris Stevens e altri tre cittadini americani, rievocando per Obama lo spettro dell’assalto all’ambasciata di Teheran nel 1979 che costò il posto al Presidente Carter. A fronte di tutto ciò, è abbastanza significativo che l’amministrazione, nel giugno 2012, abbia comunque promosso un’importante iniziativa nei confronti del continente dimenticato, l’Africa.

La nuova strategia enunciata dall’amministrazione democratica segnala certamente un insperato impegno da parte degli Stati Uniti nei confronti del continente africano, spesso ai margini delle riflessioni circa le future prospettive della politica estera americana. Tuttavia, i contenuti del documento non appaiono così decisivi per un effettivo rinnovamento dei rapporti fra la potenza statunitense e l’Africa. Diversi elementi enunciati infatti si collocano nel solco delle politiche adottate dall’Amministrazione Clinton prima e da quella Bush poi, e più in generale sembrano riprendere in toto l’agenda dei donatori occidentali. Evolutasi nel corso degli ultimi trent’anni, passando dal focus esclusivo sulla liberalizzazione economica alla condizionalità in materia di good governance, essa viene ripercorsa fedelmente dalla nuova strategia americana. Schematicamente, a tal proposito, potremmo distinguere tre fasi nella politica americana nei confronti dell’Africa.

Una prima fase riguarda l’epoca della Guerra Fredda, in cui le ragioni del confronto bipolare con l’Unione Sovietica facevano dell’Africa un teatro in cui gli Stati Uniti si sono rivelati molto attivi, subordinando a questioni strategiche qualsiasi altra iniziativa. Fondamentale in questo periodo era l’alleanza con le elites anti-comuniste del continente, una necessità a cui venivano sacrificate le altre riflessioni su sviluppo, valori democratici e diritti umani. Spesso i fondi per lo sviluppo di USAID (U.S. Agency for International Development) venivano distribuiti sulla base di calcoli politici, favorendo quelle elites neopatrimoniali che, tramite le proprie reti clientelari e sistemi di patronaggio, dominavano (e, spesso, dominano ancora oggi) la scena politica africana, limitando le opportunità di sviluppo del continente e assicurandosi una fetta consistente delle risorse messe a disposizione dai donatori. Anche durante gli anni Ottanta, quando Banca Mondiale e FMI si fecero promotori di un’agenda di liberalizzazione economica e commerciale, gli Stati Uniti mantennero questo schema d’azione, nell’ambito della ‘seconda Guerra Fredda’ della presidenza Reagan.

Un primo cambiamento lo si nota con la fine del confronto bipolare e l’avvento dell’Amministrazione Clinton, che fece propria la ricetta dei donatori e operò attivamente per promuoverne l’applicazione in Africa. In generale, negli anni Novanta si nota un certo disimpegno strategico da parte americana, una volta venute meno le ragioni politiche della Guerra Fredda. È in questa fase che viene enunciata la duplice strategia di Washington nei confronti dell’Africa, che anima anche il ‘nuovo’ approccio di Obama. Come affermato dall’allora responsabile per gli African Affairs e oggi rappresentante degli States al Palazzo di Vetro Susan Rice nel 1997, gli Stati Uniti da un lato mirano a integrare l’Africa nell’economia globale attraverso la promozione della democrazia, della crescita economica e lo sviluppo, dall’altro individuano nel continente un contesto centrale per la lotta alle minacce transnazionali alla sicurezza, quali terrorismo, traffico di stupefacenti e degrado ambientale. Se l’Amministrazione Clinton ha perseguito il primo aspetto tramite l’African Growth and Opportunity Act (AGOA) del 2000, riconoscendo ai produttori africani il più elevato grado possibile di accesso al mercato statunitense al di fuori di un Free Trade Agreement, le conseguenze dell’11 settembre hanno fortemente influenzato le scelte dell’Amministrazione Bush, concentrandole sul secondo aspetto.

Nel decennio scorso in effetti, si evidenza una nuova attenzione degli Stati Uniti nei confronti dell’Africa, che ha portato all’approfondimento dei rapporti e alla loro securitizzazione. Paesi come il Sudan e la Somalia sono stati presto individuati come sedi in cui il terrorismo transnazionale aveva trovato ottime possibilità di prosperare, come dimostrava la permanenza di Osama Bin Laden a Khartoum nel corso degli anni Novanta. Di conseguenza, l’Amministrazione Bush ha consolidato l’assistenza tecnica verso molti Stati africani, come Ghana, Namibia, Sud Africa e Uganda, tramite la firma di Memoranda of Understandings. Inoltre, è stata fondata la Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA), con lo scopo specifico di smantellare le reti terroristiche che prosperano fra Somalia, Kenya e Yemen. Infine, a fianco di tali riflessioni strategiche, si inseriva anche la questione energetica, con i timori statunitensi per la crescente pressione cinese sulle fonti di energia africane.

La strategia enunciata da Obama tende a riassumere le passate esperienze e riproporle alla luce del soft power di cui inevitabilmente gode un Presidente esplicitamente legato alle proprie origini nel continente. A dispetto dell’ascendente personale di Obama, l’Africa pare rimanere l’unica regione al mondo in riferimento alla quale pare usuale che un’amministrazione americana proponga la propria strategia solo a sei mesi dalla scadenza del proprio mandato. La strategia, in ogni caso, si apre ribadendo i principi fondanti della politica statunitense in Africa: il rafforzamento delle istituzioni democratiche e dello sviluppo economico da una parte, la salvaguardia della sicurezza e degli interessi americani dall’altra.

Dal primo punto di vista, l’amministrazione nota gli importanti tassi di crescita che alcuni Paesi africani hanno conosciuto recentemente, affermando la volontà americana di continuare a supportare lo sviluppo del continente tramite l’incremento del commercio bilaterale. Come i donatori occidentali richiedono da tempo, in Africa deve essere rafforzato un ambiente economico funzionale al commercio e agli investimenti e nuovi sforzi devono essere affrontati in tale direzione. Gli strumenti designati sono un miglioramento della governance economica e il sostegno alle integrazioni regionali. Soprattutto, l’amministrazione si impegna ad incrementare le possibilità di accesso al mercato statunitense per i prodotti africani, tramite pressioni nei confronti del Congresso per l’estensione del Sistema Generalizzato di Preferenze oltre il 2013 e dell’AGOA oltre il 2015. Inoltre, si annuncia l’incremento nell’assistenza tecnica per favorire la riduzione dei costi della produzione in Africa e elevare così la competitività dell’export.

A fianco di queste misure in materia commerciale, la strategia enuncia il nuovo approccio dell’Amministrazione Obama in materia di cooperazione allo sviluppo, indirizzato a garantire uno sviluppo sostenibile e condiviso. In particolare, Obama e il suo staff hanno promosso tre importanti iniziative rivolte allo sviluppo del continente, la Global Health Iniative, Feed the Future, in materia di sicurezza alimentare, e la Global Climate Change Initiative, che ha nella lotta del degrado ambientale in Africa uno degli aspetti più sostenuti dalla strategia.

Se la questione energetica risulta meno prioritaria per l’Amministrazione Obama, dato il boom dello shale gas domestico appoggiato dallo stesso Obama, la strategia per l’Africa ripropone le preoccupazioni strategiche dei tempi di Bush in materia di lotta al terrorismo transnazionale, tramite il richiamo alla cooperazione con i governi africani per il rafforzamento delle loro capacità civili e militari. Inoltre, si annuncia un maggiore impegno nella prevenzione dei conflitti e il supporto alle missioni umanitarie e di peace-building impegnate sul campo. In generale, l’amministrazione Obama, al di là delle vaghe indicazioni del recente documento strategico, con le proprie azioni ha dimostrato di non aver abbandonato le politiche della presidenza precedente. AFRICOM, il comando militare dedicato specificatamente alla gestione del teatro africano, fondato nel 2007, non è stato soppresso e continua a monitorare un contesto instabile come quello africano. Inoltre, fonti militari a Washington sembrano confermare che il Pentagono sia venuto meno alla sua politica di non intervento in Africa del post-Mogadisho supportando l’intervento del Kenya nel sud della Somalia, coerentemente al dichiarato impegno di smantellare la rete islamista al-Shabaab nel dilaniato Stato del Corno.

Dunque, esiste davvero una strategia di Obama per l’Africa? Il documento pubblicato pochi mesi fa più che altro tende a ribadire la linea perseguita dalle amministrazioni precedenti, riproponendone l’accento sulle questioni economiche e di sicurezza. Un aspetto forse più innovativo è riscontrabile nel legame fra i due ambiti che la strategia del 2012 promuove. Questo evidentemente costituisce un passo avanti rispetto alla politica dell’Amministrazione Bush, fortemente concentrata sulle questioni di sicurezza. Per certi versi, la ridefinizione del nuovo concetto di sicurezza così concepito richiama l’approccio della European Security Strategy del 2003, su cui si fonda la (evanescente) politica estera dell’Unione Europea. Non è detto però che il recupero di una ricetta così europea possa essere di grande aiuto a un Presidente già accusato di voler imporre agli States un approccio alle questioni politiche ed economiche proveniente dal Vecchio Continente. Oppure, la questione africana è così marginale, se non assente, nel discorso pubblico americano che questo non costituirà un fattore decisivo. In effetti, al di là della denuncia del fallimento di Obama nel portare a compimento l’alleanza con il Sud Sudan promossa dall’Amministrazione Bush, a favore dell’onnipresente incubo cinese, si attendono ancora delle reazioni da Romney in materia.

* Luca Barana è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)


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