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La Torre d’Avorio, l’Eterno Conflitto tra Cultura e Potere

Creato il 13 marzo 2014 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Antonino Reina 

Reduce dai successi di un fortunato biennio di tournée teatrale, ha fatto tappa al Novelli di Rimini La torre d’avorio per la regia di Luca Zingaretti. Una pièce, tenuta a battesimo a Londra nel 1995, il cui titolo italiano, liberamente tradotto da Masolino d’Amico, non rende efficacemente l’idea quanto l’originale Taking Sides (schierarsi, prendere posizione). Un’intitolazione rivelatasi persino eufemistica, perché l’opera di Ronald Harwood, Oscar 2003 per la miglior sceneggiatura non originale de Il pianista di Roman Polanski, più che una presa di posizione è lo scontro totale tra due personaggi agli antipodi: il tedesco Wilhelm Furtwängler, signorile direttore d’orchestra tra i più celebri del primo Novecento ed il burbero maggiore statunitense Steve Arnold. Un genio, da un lato, oscurato solo dalla contemporanea fama di Arturo Toscanini ed un pragmatico ex perito assicurativo dall’altro, per nulla interessato alla musica classica ed alla grandezza del suo antagonista. Scenario del conflitto, un cupo bunker militare nella Berlino liberata del 1946, in piena denazificazione, la febbrile caccia ai sostenitori del caduto regime hitleriano; pretesto del duello, l’interrogatorio del Maestro, un pezzo grosso da incastrare a tutti i costi.

La Torre d’Avorio, l’Eterno Conflitto tra Cultura e Potere

Furtwängler non ha mai preso la tessera del partito, non ha fatto mistero della sua avversione nei confronti del regime, eppure è riuscito nell’impresa di restare in patria senza la necessità di emigrare: un particolare sospetto per l’accusa, una ambiguità fondata sull’assioma che, dal 1933, solo i fidati artisti amici di Hitler riuscirono, indisturbati, a lavorare e produrre in Germania. Una caccia alle streghe rappresentata, nella pièce, dai modi arcigni del rozzo maggiore americano impersonato da Luca Zingaretti, sospettoso per deformazione professionale di ex smascheratore di truffe assicurative; un giustizialista sconvolto dalle atrocità naziste («Con questi occhi ho visto cose… ho sentito l’odore della carne che brucia»), che ragiona per preconcetti, non conosce svolazzi ed il cui interlocutore è solo un “maestro di banda”. Un Furtwängler, magistralmente interpretato da Massimo de Francovich, che dal canto suo non scende mai al livello dell’inquisitore: è compassato, vola immensamente più in alto, è consapevole della sua superiorità e dell’impossibile comunicazione con chi è così lontano dal suo mondo e dalle sue idee. E la cui orgogliosa autodifesa fonda il tema centrale dell’opera: l’autonomia della cultura nei confronti della politica, la capacità di tenere distanti arte ed ideologia.

La Torre d’Avorio, l’Eterno Conflitto tra Cultura e Potere

Una indipendenza raffigurata, in scena, dall’aneddoto-tormentone della bacchetta impugnata dal Direttore, sempre e rigorosamente nella mano destra, per precludere ogni possibile stretta di mano col Fürher, e rivendicata con forza dal Maestro: «Ho cercato di difendere la vita intellettuale del mio popolo contro una ideologia perversa». Il felice risultato raggiunto dalla riduzione teatrale è tutto nel dubbio che pervade lo spettatore: è immaginabile una forma d’arte che prescinde dal contesto in cui viene esercitata? Fino a che punto la cultura può considerarsi libera dai condizionamenti politici? È ipotizzabile una Torre d’Avorio, l’assoluta condizione di isolamento dell’intellettuale nei confronti di un regime politico autoritario? Un pubblico che si rivela inevitabilmente diviso, costretto a schierarsi, a dare risposte; che si riconosce nella paradossale condizione del tenente ebreo David Wills (interpretato da Paolo Briguglia), che assiste all’interrogatorio e si trova a simpatizzare per il presunto artista nazista più che per il suo collega americano. Quello che invece convince meno è la staticità della narrazione, lenta ed a tratti alienante nella sua scenografia ed il fatto che, in fondo, l’argomento in due ore risulta ampiamente trito; a cui si aggiunge l’osservazione che il bravo Zingaretti risulta prigioniero del suo personaggio, per certi aspetti molto simile al Montalbano televisivo e di un testo che non consente grosse variazioni sul tema. Un duello intenso, vibrante, ma per certi aspetti ridondante e già visto.

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