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La videocassetta

Da Nubifragi82 @nubifragi

“Ohi, vieni qui. Ti devo far vedere una cosa” disse Poulidor. Essendo che animavano la stanza due persone, un gatto e un computer, la questione su chi avrebbe dovuto dirigersi verso Poulidor e il computer, pensò Bottecchia, si risolveva in questi termini:  o lui o il gatto. Si, probabilmente era lui, ma non rispose.
“Ohi, vieni o no?”
“Chi, io o il gatto?” chiese Bottecchia. Poulidor girò lentamente il capo e fece “Ma sei scemo?” Bottecchia se ne stava a terra, un paio di metri dalla postazione del computer, sdraiato come un Trimalcione qualsiasi ad un banchetto. Teneva il gomito destro puntellato al pavimento, la testa appoggiata sull’avambraccio, mentre il dito indice della mano sinistra scorreva tra le videocassette della libreria. Poulidor lo osservò per qualche secondo.
“Cosa stai facendo?” chiese infine “Non vedi?” rispose Bottecchia “guardo le tue videocassette. Poulidor si voltò di scatto e si levò a pochi centimetri dalla sedia “Non sono mie, sono di mio padre, lasciale stare.” esclamò. Rimase in silenzio per una manciata di secondi, poi, essendosi accorto di non aver sortito effetto alcuno, ribadì il concetto “Lascia stare quelle videocassette. Non è roba mia. E’ di mio padre”  Il tono della voce era perentorio. Tuttavia le parole lasciavano intendere una preoccupazione eccessiva. Bottecchia percepì il disagio e tuttavia, mosso dalla curiosità, decise di indagare “Ha dei bei film tuo padre. C’è pure Renoir, e… Kurosawa, cazzo, Kurosawa!” E così dicendo tentò di sfilare la videocassetta. Poulidor allungò il braccio, quasi a voler fermare il gesto dell’amico, nonostante fosse ad un paio di metri di distanza.
“Lascia stare quella videocassetta, idiota!” Poulidor si rese conto della reazione eccessiva. Se voleva nascondere qualcosa, quello era il modo peggiore. Si sedette lentamente e distese il braccio sulla gamba. Bottecchia staccò la mano dalla custodia e l’appoggiò a terra. Poi si girò verso l’amico. Il viso di Bottecchia era quello di chi aveva subito una reazione spropositata, un bambino sgridato da un padre con la coda di paglia. Poulidor sentì il sudore sotto le ascelle. Un fastidioso calore gli pervadeva il corpo. Tentò una parvenza di tranquillità “Ascolta” disse “lascia stare quelle videocassette e vieni qui che ti devo far vedere una cosa.” Tutto in Poulidor tendeva alla risoluzione più immediata: spostare Bottecchia da quella libreria evitando di far sorgere in lui la curiosità. E poi, ma solamente dopo questo, ritornare a respirare. Ma che quelle videocassette nascondevano qualcosa, Bottecchia lo aveva capito da un pezzo. Tuttavia non era il caso di continuare a indagare, Poulidor era sembrato alquanto in difficoltà e non gli sembrava corretto insistere. Vedendo l’amico in difficoltà, Bottecchia aveva ricordato quella volta che, tanti anni prima, vide la madre rovistare nella borsa che usava per gli allenamenti e dove era solito nascondere le sigarette. Quelli di Poulidor erano gli stessi gesti che aveva compiuto lui, le stesse parole che tentavano di impedire l’inevitabile e al tempo stesso dovevano apparire credibili per non creare sospetto. L’istinto lo avrebbe portato ad avventarsi sulla madre e impedirgli fisicamente di frugare nel taschino di sinistra. D’altra parte, un intervento timido non avrebbe scongiurato il pericolo. E’ una questione di equilibrio, pensò Bottecchia.
Ora Bottecchia appoggiava la schiena al pavimento e osservava il soffitto della stanzetta, non più curante della voce di Poulidor che lo richiedeva al monitor. Roteò la testa e osservò le pareti della stanzetta. Videocassetta. A destra della parete della libreria il muro era tappezzato di poster, in basso al centro un piccolo armadio. Videocassetta. Davanti alla libreria una grande scrivania con un televisore, qualche mensola in alto, altre foto e qualche poster. Nell’angolo il mobiletto del computer. Videocassetta. Giunto alla parete della porta, Bottecchia terminò, finalmente, di fingere di osservare la stanzetta e portò nuovamente lo sguardo verso l’unica cosa a cui pensava davvero: la videocassetta.
Poulidor si voltò verso Bottecchia con un gesto deciso della sedia girevole. Bestemmiò e quindi aggiunse “Sono cinque minuti che ti chiedo di venire qui a vedere una cosa. Me la fai la grazia?” Rimase a fissarlo come la maestrina osserva lo scolaro dopo la predica, in modo da amplificare l’effetto delle parole. Bottecchia si levò dal pavimento e raggiunse Poulidor. Guardò il monitor e capì immediatamente: roba di videogames, quegli strani videogames di ruolo in cui uno deve stare online tutta la vita e un bel mattino, mentre pulisce la lettiera del cane, si accorge che un thailandese gli ha distrutto la città. Si sentì quindi in dovere di anticipare le spiegazioni dell’altro. “Ascolta, me l’hai già spiegato questo giochino delle città greche e amici con qualcuno nemici con gli altri. Non è roba per me, te l’ho detto, mi avevi già fatto provare, ma..” “Lo so lo so” interruppe Polydour ”Lo so che sei limitato e non capisci.” “E allora?” chiese Bottecchia. “Allora” disse Polydour alzandosi dalla sedia “allora dovresti sederti un attimo qui e controllare che non succeda niente alla mia città”.
Bottecchia osservò l’amico estrarre un fazzoletto dalla tasca sinistra e portarselo al naso. “Mi prendi per il culo?”
“Chi, io?” rispose Polydour infilandosi il fazzoletto in tasca dopo avere liberato le vie nasali.
“Ascolta, ma io cosa ne so del tuo gioco? Ma poi, no cioè, ma poi tu mi devi dire se ti sembra il caso di.. no, non ho parole, guarda”
“Mamma mia, un favore ti chiedo. E’ un periodaccio, guarda non ti dico niente”
“Periodaccio?” Bottecchia guardò perplesso l’amico “Scusa?”
“Si, guarda, una roba che non ti dico. Fino ad un paio di settimane fa eravamo inarrivabili ed ora, ora rischiamo davvero di scomparire.” E così dicendo bestemmiò. Bottecchia non staccava lo sguardo dagli occhi di Poulidor. Aggrottò la fronte e disse “Ma chi? Ma cosa stai dicendo?”
“Noi”
“Ma noi chi? Cazzo ma a volte mi sembra di essere un marziano in mezzo a gente come te. Ma mi spieghi cosa ti dice il cervello?”
“Noi. Cioè, io e il mio gruppo Impero66 siamo in guerra con i StomyFox. Questi sono terribili, organizzatissimi. Non ci si può credere sti bastardi come riescono ad organizzare le battaglie. Oggi poi sono in continuo attacco alle nostre città. Ascolta, io devo andare al cesso, è un’ora che devo andare. Pensa un po’ come sono ridotto, non mi lasciano neanche il tempo…”
Bottecchia lo interruppe “Ascolta, non mi frega niente di quello che dici, dimmi cosa devo fare e basta. Qualsiasi cosa dici mi provoca un riflusso gastrico, ti giuro.” Si sedette davanti al monitor. Quindi, con un gesto deciso del braccio verso lo schermo disse “Dai, dimmi come posso contribuire a questa idiozia di gruppo” Massaggiandosi il basso ventre Poulidor spiegò che c’erano due finestrelle da controllare, se una delle due avesse lanciato un segnale rosso, Bottecchia avrebbe dovuto premere un tasto e inserire la modalità difesa. Rassicuratosi di avere lasciato la sua città in buone mani, Poulidor prese una rivista di bricolage e si diresse in bagno. Sennonché, accortosi dell’errore, tornò sui suoi passi e sostituì il bricolage con una rivista di moda femminile, al ché Bottecchia chiese “Due in uno? Credo di capire che ne avrai per un po’” ma Poulidor mostrò con una smorfia del volto di non aver capito la domanda e saggiamente non indagò oltre.

Bottecchia osservò lo schermo e pensò agli StormyFox. Che gente poteva essere quella che componeva gli StormyFox o gli Impero 66. Uomini? Donne? Bambini scemi? Adulti disagiati? Manager di insuccesso? Pedofili stanchi di chat infruttuose? Oppure perdigiorno come Poulidor? Oppure, ancora, gente normalissima, padri di famiglia e figli modello che avevano demandato ad un giochino le speranze in un mondo migliore. Se il mondo non vuole cambiare, se la realtà attorno è tanto veloce nel divorare i rapporti umani quanto immobile nel rimuovere le ingiustizie, se in piazza ci scendono solamente i pensionati e in fondo io il mio stipendio ce l’ho e di questi tempi è manna dal cielo, se le cose, insomma, stanno così è meglio rifugiarsi in un mondo virtuale. Niente libri, troppa fatica. No, il mio mondo, la mia città, cose più tangibili di un libro, meno serie della vita reale. Avrò amici di cui non conosco i difetti e nemici che posso caratterizzare come voglio. Bottecchia si voltò e osservò la stanza attorno a sé. Poster dei Led Leppelin, bandiere giamaicane. Ebbe la sensazione di trovarsi nella stanzetta-rifugio di un sedicenne. Eppure Poulidor aveva passato il quarto di secolo. Non era un fancazzista, pensò Bottecchia, aveva sempre lavorato. E non era nemmeno un menefeghista, un’idea di quel che accadeva là fuori ce l’aveva. Semplice? No, nemmeno questo, perché Poulidor, di domande, se ne era fatte pure tante. Solo che non aveva mai trovato un becco di risposta e la mente se gira a vuoto crea stanchezza, frustrazione. Ecco chi faceva parte degli Impero66 o dei StormyFox, si rispose infine Bottecchia, ecco chi accetta di spendere tempo e intelligenza in giochi di ruolo che non appagano un nome e cognome, bensì un nickname. Era gente a cui il progresso aveva fornito i mezzi e le conoscenze per fare delle domande, avere delle opinioni, a differenza delle generazioni che li avevano preceduti. Ma poi le domande si erano affastellate l’una sull’altra, mentre le risposte languivano in profondità. Spaesamento. Difficoltà. Meglio il mondo controllato dei giochi di ruolo dove ci sono le regole e tutti le rispettano e la meritocrazia, qui si, funziona davvero. Che bel rifugio. Quasi come una stanzetta dove appendere le certezze di un’adolescenza che non c’è più, tra un computer e una pseudolibreria dove tuo padre nasconde i suoi segreti nelle videocassette.
Videocassetta.
Bottecchia si voltò e lo sguardo si pose sulle videocassette. Il dubbio lo tormentava. Era quello che pensava? Oppure qualcosa che la sua mente non poteva nemmeno avvicinare? Cosa nascondeva Kurosawa? Quali misteri tramavano dalle parti di Robert Altman? Bottecchia si guardò attorno circospetto. Fece un respiro profondo, si alzò dalla sedia e si morse il labbro inferiore quando questa cigolò. A passi lenti si avvicinò alla libreria, si inginocchiò e mentre un fastidioso tremolio lo circuiva nella zona del bacino osservò ancora una volta i titoli delle copertine. Portò l’indice sopra “La vita è meravigliosa”, quindi deviò su “Non aprite quella porta”. Si, quel titolo gli sembrava perfetto. Si voltò verso la porta. Le mani tremavano e il cuore batteva in gola. Sfilò la custodia dalla fila e osservò la copertina. Si voltò nuovamente. Portò il pollice sul dorso della copertina. D’un tratto ricordò un particolare. Si era girato due volte ed in entrambe le occasioni gli era sembrato di captare un bagliore rosso. Controllò e questa volta gli fu chiaro che il bagliore proveniva dal monitor del computer. Gettò a terra la custodia e imprecando più e più volte si precipitò al computer. Un messaggio avvisava che la città era sotto attacco. Tentò di rimediare come gli aveva spiegato Poulidor, ma non c’era niente da fare. La città era ormai perduta. Udì il rumore dello sciacquone. Ripetè due, tre volte il nome comune dell’organo maschile. No, non se la sentiva di affrontare tutto ciò. Per certa gente, una città virtuale vale più di una reale. Prese la porta e scappò via.
Giunto sulla strada, pensò che avrebbe per lo meno dovuto prendere la cassetta con sé, Poulidor non se ne sarebbe accorto. Ricordò solo allora di averla gettata a terra. Poulidor se ne sarebbe presto accorto.
La città in fiamme, la privacy violata e il segreto rimasto celato. Era la disfatta più totale.



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