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La violenza sociale sulle donne

Creato il 25 novembre 2012 da Albertocapece

La violenza sociale sulle donneAnna Lombroso per il Simplicissimus

Sono allergica alle celebrazioni, ai giorni della memoria, che combinano sensi di colpa con festevoli consiglio per gli acquisti.
Oggi penso di aver più ragione che mai, la giornata contro la violenza sulle donne registra un nuovo 8 marzo, con un incendio in un impianto tessile nella periferia di Dacca la capitale del Bangladesh, 112 vittime, ma il bilancio è provvisorio, quasi tutte donne, solo ultimo incidente di una serie: Bangladesh, gigantesco rogo: 108 morti (04/06/2010), soprattutto donne; Dacca:intrappolati in edifico in fiamme (26/02/2007), soprattutto donne; Bangladesh: crolla fabbrica, 200 dispersi (11/04/2005), soprattutto donne; Bangladesh: crolla fabbrica, 200 dispersi (11/04/2005), soprattutto donne.
Le clementine sono un frutto gentile, profumato, che parla di casa, sapori antichi. Sei lavoratori impegnati nella raccolta delle clementine tornando dai campi, sono stati travolti da un treno nella zona di Rossano. Causando sei vittime, tre donne e tre uomini. Le sei vittime sul veicolo, tutte straniere, erano impiegate nella raccolta di clementine, la la sorte ha rispettato le quote rosa, falcidiando tre uomini e tre donne.

E’ un caso perché la crisi, l’annientamento del lavoro grazie all’aberrazione della flessibilità che si chiama precariato, alla distruzione del sistema sociale, non prevede quote rosa e si accanisce sulle donne con pervicace determinazione e una violenza così risoluta e crudele da diventare anche di “genere”.
Non occorre che ammazzi, comincia col far scomparire dal contesto della società, dal consorzio civile larghi strati di donne, che diventano invisibili, senza riconoscimento, senza lavoro, senza salario, senza protezioni, soprattutto se sono quelle espulse da occupazioni saltuarie, irregolari, quelle indicate pudicamente come atipiche. O quelle che presto lo saranno: la ricerca sulla qualità dell’occupazione, elaborata dall’Ires Cgil sui dati Istat riferiti al primo semestre di ogni anno segnala che sono oltre 4 milioni (4.080.000) i lavoratori che, nel 2012, nel nostro Paese, si trovano nella cosiddetta «area del disagio» (quella che comprende l’insieme dei dipendenti temporanei e dei collaboratori che lavorano a tempo determinato perché non hanno trovato un impiego a tempo indeterminato e degli occupati stabili che svolgono un lavoro a tempo parziale perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno), con un incremento di 718 mila unità (pari al 21,4%) rispetto al 2008. Dal primo semestre 2008 al primo semestre 2012, l’occupazione è notevolmente calata in valori assoluti, passando da 23 milioni 376 mila a 22 milioni 919 mila (-456 mila, pari a -2%), nonostante il numero delle persone in età di lavoro sia aumentata di circa 500 mila unità. Questi numeri spiegano il costante e davvero preoccupante peggioramento delle condizioni di lavoro. Anche chi è occupato, infatti, rileva lo studio dell’Ires, lavora meno di quanto vorrebbe ed a condizioni diverse da quelle auspicate. I dipendenti stabili a tempo pieno calano di 544 mila unità (-4,2%) e gli autonomi full time di 305 mila (-6,1%). Se si aggiunge il calo dei part time stabili volontari (-215 mila) si supera il milione di persone. Aumentano invece i lavori involontari, quelli che sono costretti ad accettare un lavoro che in condizioni normali non avrebbero mai voluto fare.

La ricerca distingue per età ma non per sesso, non serve, possiamo indovinare da soli che la maggioranza dei “disagiati” sono donne.
Le litanie del governo e dei media ripetitori dei suoi messaggi in una totalitario unanimismo che ha preso il posto del senso comune, non hanno dubbi: il problema dell’Europa è il debito pubblico, siamo colpevoli di aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità, sono le pensioni che hanno prodotto la voragine del bilancio statale, favorire i licenziamenti crea occupazione, i sindacati sono arcaici residui ottocenteschi, come i diritti, il privato è più efficiente del pubblico, le classi sociali non esistono più. E, perché no? non esistono le mezze stagioni e nemmeno le discriminazioni se ben tre donne fanno parte della compagine governativa e una è presidente della Rai, e anche parte dei guasti della scuola pubblica sono attribuibili all’egemonia di una occupazione femminile poco aggiornata e dedita più al proprio privato che alla professione. E come dimenticare come le mamme ebree castranti abbiano dato vita a dinastie di mammoni?
E’ che i valori forti di questo ceto dirigente di Bouvard e Pécuchet ingloba nella globalizzazione tutti gli stereotipi locali, le menzogne convenzionali, i feticci del “meglio accontentarsi”, perché l’aspirazione è a creare un grande bacino di potenziali schiavi ricattabili e ricattati, da spostare secondo le esigenze di un mercato, di un lavoro e di un padronato dequalificati.

Le sensibili mani di donne che un tempo creavano opere d’arte, ricami, tessuti, tappeti e poi delicati ingranaggi di precisione servono poco a un processo universale che vuole assoggettare interi popoli a un dominio privato dove conta la monetarizzazione, lo scambio finanziario e la creazione di denaro. E che si è trasformato in una caccia rapace e accanita a ogni immaginabile angolo della natura, della società e della persona che sia traducibile denaro e in produzione di reddito mediante l’uso di altro denaro. Non servono le inclinazioni e i talenti, le tradizioni e la loro trasmissione a quel modo in tendere la crescita, secondo il quale valorizzare una foresta pluviale significa raderla per costruite brutte sedie, o costruire villette a schiera su un paesaggio intatto o sulle macerie di una città storica per poi venderle con un mutuo ipotecario a poveracci che le lasceranno perché non possono pagare le rate.
Per produrre oggetti scadenti, su misura per popoli sempre più immiseriti o nuovi ricchi che con un consumismo vorace vogliono dimenticare le privazioni, in attesa di perfezionare il terzo mondo interno, va bene quello che resta del Terzo Mondo esterno, la Cina, il Vietnam, il Messico dove si sono indirizzate le delocalizzazioni dell’industria statunitense, con una perdita di milioni di posti di lavoro. Quel Bangladesh, dove è stato salutato come una conquista la legge che nel 2010 ha aumentato il salario minimo, quello delle donne appunto, da 23 a 36 centesimi di dollaro all’ora.

La chiamano economia informale, significa un’attività economica e produttiva che si svolge al di fuori di leggi, in assenza di diritti e di protezione sociale, in condizioni fisiche e ambientali precarie e rischiose. Ma dovrebbe chiamarsi economia infame, perché slealmente è aperta a soggetti sempre più ricattabili, sempre più vulnerabili, sempre più permeabili alla minaccia, all’estorsione, delle prestazioni e del proprio corpo.
Circolano sopraffazione e espropriazione delle persone di questi tempi, proprio quando sembrava che finito il secolo breve e i suoi orrori, potessimo aspirare all’affrancamento dallo sfruttamento, dalla fatica, dalla violenza, che si consuma ovunque, in case sempre più misere, in relazioni sempre più consumate dalla stanchezza di sopravvivere e dalla cultura dominante dell’abuso di chi è più forte su chi è più debole, in fabbriche sempre più incivili, in un mondo sempre più chiuso nella sua disumanità.


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