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Laura Rolle | Della comunicazione ambientale, della sua evoluzione e della sua complessità

Creato il 29 aprile 2013 da Greeno @greeno_com
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Laura Rolle è docente di Semiotica della pubblicità presso l’Università di Torino. Si occupa di semiotica applicata al marketing e alla gestione strategica del brand, con un’esperienza specifica nel settore food e turismo. Ha maturato un’esperienza decennale nello studio dei nuovi trend di consumo e comunicazione per lo sviluppo di nuovi prodotti e nuovi linguaggi di comunicazione. Fra le sue pubblicazioni “Il sistema dei pacchetti” in Letture di Segni – Centro Ricerche Semiotiche di Torino; “Il catalogo, o della costruzione del migliore dei mondi semiotici” in Emporio dei Segni – Meltemi.

La prima domanda è, verosimilmente, la più difficile. Parlare di comunicazione ambientale vuol dire muoversi all’interno di un sistema “naturalmente” asistemico e composto di diverse specializzazioni talvolta mal collegate fra loro. Cos’è, secondo lei, la comunicazione ambientale? O, se preferisce, cosa non lo è?

Mi trovo d’accordo con l’espressione “sistema naturalmente asistemico”, se con questa definizione ci riferiamo al fatto che la comunicazione ambientale trova da sempre espressione in discorsi e manifestazioni eterogenee o se ci riferiamo al fatto che i discorsi ambientali abitino, in modo più o meno pertinente, narrazioni e pratiche sociali talvolta anche molto differenti e distanti. Se pensiamo ai discorsi degli scienziati, dei ricercatori, dei filosofi, degli ecologisti e dei pubblicitari, ci troviamo di fronte non solo a linguaggi differenti, ma a modelli di rappresentazione dell’ambiente differenti, che affondano le proprie radici in valori e paradigmi consolidati in una certa cultura e in un determinato periodo.

Se quindi – tornando alla sua domanda – ci chiediamo che cos’è oggi la comunicazione ambientale, siamo costretti a confrontarci con un quesito che sta a monte: che cosa intendiamo per “ambiente”?  Se – come spiega molto bene Gianfranco Marrone nel suo libro Addio alla natura – pensiamo a una Natura (con la N maiuscola) avremo certe conseguenze, se invece pensiamo a diverse nature (al plurale), avremo un altro genere di immaginario e di rappresentazione. A partire da questa distinzione estremamente interessante e ricca di spunti, che ci pone di fronte alla costruzione dell’opposizione tra natura e cultura, mi permetto di proporre una riflessione su un’idea di “ambiente” che si configura come habitat culturale, in cui natura e cultura trovano un armonia, si integrano nella valorizzazione di un eco-sistema culturale. Questo si evidenzia in modo molto chiaro negli studi sul turismo ad esempio. Settore di grande rilevanza per il discorso ecologico, anche se di solito non è il primo a essere citato quando si parla di ecologia e sostenibilità.

E’ chiaro quindi che a seconda del modello a cui ci riferiremo, variano i confini di ciò che possiamo includere nella definizione di “comunicazione ambientale”.

In altre parole se pensiamo che l’ambiente sia “fuori di noi”, sia uno “spazio contenitore” altro da noi; se quindi ci pensiamo come Soggetti che si muovono in uno spazio “naturale” che ci contiene e che noi contaminiamo e sfruttiamo; la comunicazione che possiamo definire ambientale riguarda quei discorsi che ci parlano di una natura “incontaminata” e di tutti quei comportamenti che possono aiutare a “non contaminare” (o contaminare meno) la natura. Se invece pensiamo a un ambiente come “spazio pieno”, in cui tutto è collegato, uno spazio che comprende l’uomo e i suoi manufatti, addirittura le sue passioni e i suoi pensieri, (penso agli sviluppi della fisica quantistica) allora la prospettiva cambia, i confini della “comunicazione ambientale” si allargano e si deve pensare appunto ad un habitat più che a un ambiente.

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Come si è evoluto il concetto di natura nella comunicazione pubblicitaria degli ultimi quindici anni? 

Il tema della natura è da sempre presente e molto sfruttato, soprattutto come “immagine” del naturale; valore molto ambito in particolare dalle marche del settore alimentare, che – soprattutto in Italia – vogliono proporre ai propri un racconto di genuinità e autenticità dei sapori. La natura in pubblicità viene “modellizzata” in vario modo: negli spot dei prodotti alimentari si presenta come natura bucolica, luogo di preservazione di saperi e sapori del buon tempo antico; nel caso dei prodotti cosmetici di solito prevale invece la “competenza scientifica”, la tecnologia, mentre la natura si presenta sotto forma di “ingrediente” per preparati delicati o miracolosi, in grado di ridonare la “bellezza naturale originaria” o di riproporre “vecchie ricette della nonna” rilette in chiave moderna e tecnologica; per le auto la natura è uno scenario, un luogo da percorrere, un terreno da conquistare (come il cavallo per il cowboys) e solo recentemente in alcuni casi…da rispettare; mentre nelle pubblicità dei profumi o dell’abbigliamento la natura (sovente selvaggia) viene utilizzata per lo più come metafora delle passioni. Se parliamo quindi di “rappresentazione della natura” mi pare di poter dire che non si riscontrano evoluzioni significative; cambiano le immagini, i trattamenti grafici e fotografici, ma la storia è la stessa. Quello che si nota è piuttosto un cambiamento del discorso sulla natura, quando questa non viene rappresentata. Si tratta cioè dei discorsi che fanno presente il minor impatto ambientale di un prodotto (in termini di inquinamento o di consumo di risorse) o l’impegno di un brand a favore di iniziative a favore dell’ambiente.

In questo senso possiamo dire – riferendoci alla sua domanda – che “il concetto di natura” ha subito un’estensione che ha incluso il tema ambientale, presentandosi in modo sfaccettato e con differenti modalità, a volte coerenti e credibili, altre volte meno.

Con riferimento alla sensibilità verso l’ambiente, si può dire che in molte categorie merceologiche sia il consumatore a suggerire alla marca dei modelli di comportamento? 

I brand sono da sempre orientati a intercettare i bisogni dei consumatori e a costruire storie che collochino questi bisogni in relazione diretta con i prodotti e i valori costruiti dell’azienda. In questo momento,  grazie soprattutto a internet, la relazione con i consumatori è diventata più esplicita e diretta. I consumatori possono far circolare opinioni e discorsi su prodotti e aziende, esprimendo giudizi e facendo emergere temi di rilevanza sociale. Pertanto in molti casi la richiesta di sensibilità ambientale, di eticità, d’impegno sociale, arriva direttamente all’azienda dai propri clienti e, se l’azienda lo ritiene vantaggioso, allora si “orienta verso un certo valore” in termini di strategia di comunicazione o anche di sviluppo prodotto.

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Si tratta di “sintonizzarsi” su quei valori che possono aumentare positivamente la reputazione dell’azienda e favorire la scelta dei prodotti da parte dei consumatori attuali e potenziali. In altre parole un brand deve raccontare storie interessanti, accattivanti, veicolando valori in cui il proprio consumatore si possa riconoscere e ovviamente questi racconti cambiano nel tempo, a seconda dei temi più “di moda”.

Con quest’ultima espressione non voglio negare necessariamente un reale interesse da parte delle aziende a una produzione consapevole e attenta all’ambiente, ma sicuramente, se parliamo di pubblicità, parliamo di “messa in scena” (a seconda dei casi più o meno “autentica”) della questione ambientale. Lo scopo in molti casi è differenziarsi sul mercato, cavalcando per primi i temi più attuali e dibattuti.

Decidendo di includere il tema ambientale nei discorsi della marca, come lo si può utilizzare per costruire semanticamente la categoria della “differenza”, in un periodo di inflazione dell’argomento green nella comunicazione pubblicitaria?

Come abbiamo già detto il tema della natura accompagna da sempre la pubblicità; negli ultimi anni ha incluso anche il discorso ambientale che, come dicevamo sopra, in molti casi, ha costituito per i brand un valore su cui costruire una differenza nel quadro competitivo. Questo è stato vero soprattutto quando l’argomento green era una novità; ora che è – come dice lei – “inflazionato” dalla comunicazione pubblicitaria, solo in alcuni casi riesce a essere un elemento che fa la differenza. Dal mio punto di vista non esistono regole e modelli vincenti per fare la differenza; è bene tenere presente che ogni settore merceologico è un sistema a sé stante sia come linguaggio sia come valori di riferimento. Recentemente mi hanno proprio chiesto se il tema green può essere un’area vincente su cui le agenzie di comunicazione dovrebbero investire. Io ritengo che ormai parlare di green come discorso generale abbia poco senso. E’ necessario declinare il tema green negli specifici contesti.

Ogni settore merceologico ha rappresentato, interpretato e tradotto – e talvolta “usurato” – il tema green secondo le proprie regole. Pertanto la “differenza significativa” si può costruire solo a partire da un’analisi di ciascun sistema e cioè, per quanto mi riguarda, dei valori messi in gioco, dei paradigmi esistenti all’interno di ogni settore e dei modelli di rappresentazione ad esso connessi. Solo comprendendo i meccanismi di costruzione dell’identità si può agire sulla differenza. Qualunque sia il modo di creare questa “differenza”, da un punto di vista comunicativo, è importante però che sia credibile. Parlando del tema ambientale, nella maggior parte dei casi tocchiamo i valori esistenziali delle persone, quei valori in cui le persone si riconoscono, su cui si gioca l’identità (l’essere); si tratta pertanto di valori che mettono fortemente in campo la “relazione”, ecco perché è importante che la relazione tra azienda/marca e consumatore sia autentica e credibile.

  

Una sfida molto impegnativa per la pubblicità commerciale è comunicare i benefici ambientali di un prodotto o servizio ed essere allo stesso tempo appealing verso il proprio pubblico. Come può realizzarsi questo compromesso?

D’istinto mi verrebbe da dire che non sono d’accordo. Bisogna chiarire cosa intendiamo per appealing. Se intendiamo per appealing una costruzione estetica del prodotto e presupponiamo che questo significhi “non naturale”, credo che ci troviamo di fronte a un pregiudizio basato su uno stereotipo diffuso. Se invece ci riferiamo al fatto che la pubblicità commerciale, come mezzo e come linguaggio di comunicazione, deve attrarre l’attenzione divertendo e coinvolgendo piacevolmente il proprio pubblico e quindi fatica a conciliare questa esigenza con un discorso ambientale; questo è vero e ha una spiegazione.  In pubblicità il discorso green viene principalmente veicolato attraverso la modalità del dovere, sia in modo esplicito che in modo implicito. Il dover fare non appartiene al linguaggio pubblicitario, che abitualmente privilegia il poter fare o il voler fare dei soggetti; modalità queste ultime che esaltano aspetti passionali legati al piacere e – soprattutto nell’ultimo decennio – all’egocentrismo del consumatore.

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Conciliare qui “appealing” della comunicazione e benefici ambientali è un impresa complessa che si basa su un equilibrio difficile; si tratta di fatto di uno spazio di continua contrattazione, e il più delle volte di compromesso. Il nodo credo stia nel domandarsi se la pubblicità tradizionale possa essere il veicolo giusto per comunicare questi temi sia per le sue caratteristiche peculiari come linguaggio sia per i forti modelli che la governano.

 

È possibile immaginare un’etica della comunicazione ambientale? E se sì, a quali criteri dovrebbe rispondere?

Come provocazione mi verrebbe da dire che prima di tutto bisognerebbe immaginare un’etica della comunicazione. In ogni caso stabilire dei criteri è sempre molto difficile, anche perché la sua domanda non si riferisce solo alla comunicazione pubblicitaria. Se invece rimaniamo in ambito pubblicitario, semplicisticamente si potrebbe dire che si tratta di porre criteri di autenticità, che devono stare sia dentro il testo pubblicitario, sia al di fuori del testo pubblicitario. Come dicevo prima il tema ambientale chiede al consumatore di riconoscere come propri dei valori, per cui l’azienda s’impegna; questo significa stabilire un patto sul piano della fiducia e della credibilità, ma anche sul piano dell’azione reale e della coerenza. Questo è sicuramente un punto di partenza fondamentale; e non penso solo a fenomeni evidenti di green washing; esistono situazioni meno esplicite, eppure ambigue e discutibili sul piano di un’etica della comunicazione.

Quali sono le sue previsioni per il futuro prossimo dell’argomento ‘ambiente’ nella comunicazione pubblicitaria? 

Sicuramente il tema continuerà a essere trattato, poiché nel mondo della comunicazione pubblicitaria – e non solo – viene considerato uno dei settori su cui puntare per creare business; tuttavia ritengo che nel mondo della pubblicità solamente nel medio-lungo periodo si potranno forse vedere delle evoluzioni significative, che richiedono necessariamente un cambio culturale. Penso che oggi i pubblicitari – nella stragrande maggioranza dei casi – non siano preparati ad affrontare il tema ambientale e si trovino in difficoltà a gestirlo all’interno del tradizionale linguaggio pubblicitario. Non si tratta ovviamente di acquisire competenze specifiche sul green, quanto piuttosto di essere capaci far evolvere la pubblicità sia in termini di modelli sia in termini d’intermedialità. Parallelamente il consumatore sarà sempre più abituato a considerare l’attenzione all’ambiente come una caratteristica necessaria e quasi “scontata” dei prodotti, pertanto sarà ancora più difficile valorizzare questo argomento e creare la “differenza” di cui parlavamo prima.


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