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Le ambizioni del Qatar nel collasso degli equilibri mediorientali

Creato il 11 febbraio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Alessandro Tinti

Alla conferenza internazionale sulla pace e la sicurezza in Iraq convocata al Quai d’Orsay alla metà dello scorso settembre, il Qatar fu tra i firmatari del comunicato ufficiale con cui le parti dichiaravano come necessario lo sradicamento dello Stato Islamico dal centro di gravità mediorientale. Il conseguente coinvolgimento nella missione multilaterale Inherent Resolve diretta dagli Stati Uniti è nella prospettiva qatarina la chiave di volta del re-inserimento di Doha in una complessa partita per la definizione dei prossimi equilibri nella regione, un ambivalente gioco di posizione che anticipa la minaccia del Califfato violentemente instaurato dai proseliti di Abu Bakr al-Baghdadi e che la diplomazia bifronte della famiglia al-Thani ha tuttavia rischiato di compromettere.

Appendice della Penisola Arabica di assai ridotta estensione territoriale eppur reticente a un pieno assoggettamento alla volontà della monarchia degli al-Saud, negli ultimi anni il Qatar ha assertivamente offerto i propri uffici nella gestione delle linee di conflitto e dei rivolgimenti di popolo che dal Maghreb al Golfo Persico/Arabico hanno infiammato e alterato assetti di potere consolidati, spendendo sul piano diplomatico la convincente moneta di una solida crescita economica alimentata dall’enorme disponibilità di gas. Ciononostante, il protagonismo di Doha ha gradualmente irretito i partner riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), sospettosi dell’eccessivo protagonismo in politica estera del piccolo emirato. La violenta deflagrazione dello scenario iracheno sotto i colpi del sedicente Califfato islamico e l’attrazione nella sfera d’interesse statunitense hanno però rinnovato l’opportunità di ricucire pragmaticamente i rapporti con la dirigenza saudita e al contempo rilanciare le trame per un auspicato allargamento del ruolo regionale.

Diversamente dagli altri Paesi arabi (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrain) che hanno aderito alla guerra aerea decisa da Washington, il Qatar ha sinora circoscritto la propria partecipazione a funzioni di supporto logistico e operativo. Ciò non è tuttavia descrittivo del cruciale valore strategico rivestito da Doha, giacché la base di al-Udeid a sud della capitale accoglie il 379th Air Expeditionary Wing della flotta statunitense e lo stesso comando tattico del US CENTCOM, che dirige e coordina le operazioni aeree condotte dalla superpotenza nell’intera area di responsabilità mediorientale. In breve, il Qatar costituisce un hub essenziale per la proiezione di forza degli Stati Uniti, a maggior ragione nel contesto delle odierne incursioni compiute nei cieli di Siria e Iraq. A ulteriore conferma dell’inclusione qatarina nelle formule di sicurezza delle potenze occidentali, il ricco regno di al-Thani è inoltre un mercato privilegiato delle commesse militari americane e britanniche, laddove il Qatar Investment Authority (QIA), il fondo sovrano nazionale tra i più ricchi al mondo, è per contro un forte investitore nelle economie europee (e non solo).

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Fonte: Congressional Research Service

L’intelligente diversificazione della rendita energetica ha permesso al Qatar di presentarsi all’Occidente quale prezioso interlocutore e alleato. Ne sono recenti espressioni l’assistenza prestata nell’ambito dell’offensiva NATO scagliata contro Gheddafi, la concertazione dell’accordo che nel maggio 2008 ha placato il conflitto libanese, la promozione di consultazioni per il superamento della crisi in Darfur, le negoziazioni per conto di Washington con Hamas e i Talebani afghani. Tuttavia, l’avventata e personalistica politica estera degli al-Thani ha gradualmente sfibrato il prestigio ed il capitale politico acquisito da Doha. Per un emirato di appena 11mila km² e circa due milioni di abitanti, che affida le aspirazioni espansive al corteggiamento delle grandi potenze occidentali, al discontinuo allineamento con il fronte sunnita e alla diffusione di un messaggio panarabo attraverso il soft power mediatico di al-Jazeera, il rischio di restare intrappolato nelle anse di una linea politica multiforme è invero assai elevato.

La successione di eventi dischiusa nel dicembre 2010 dall’ebollizione delle società arabe, che pure ha contribuito all’affermazione regionale del Qatar, mostra i limiti dell’ambigua strategia adottata dall’emirato. Riconosciutosi uno status di rilevanza globale, il Qatar ha scommesso sulla stagione interrotta delle rivoluzioni e contro-rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo al fine di estendere l’influenza wahhabita nel Nord Africa. Doha ha risolutamente appoggiato il vento del cambiamento nei tre Paesi dell’area in cui le cosiddette Primavere Arabe hanno deposto i regimi esistenti: in Libia, dapprima con l’essenziale intermediazione in seno alla Lega Araba per l’imposizione della no-fly zone e poi con il finanziamento delle frange islamiste arroccate a Tripoli; in Tunisia, attraverso l’apertura di un canale diretto con il movimento Ennahda; infine in Egitto, dove i capitali qatarini hanno generosamente sovvenzionato la causa dei Fratelli Musulmani. Tuttavia, proprio l’ingerenza nella situazione egiziana ha concorso nel polarizzare un evidente disallineamento dalla politica di status quo di matrice saudita, che Riyadh ha tempestivamente punito minacciando di rinchiudere il Qatar all’interno dei propri confini; una minaccia resa credibile dal controllo esercitabile da Arabia Saudita e EAU sulle importazioni di generi alimentari dirette nell’emirato. Caduto Mohammed Mursi e ostracizzata la Fratellanza Musulmana quale organizzazione terroristica, l’Arabia Saudita ha denunciato il consistente e durevole appoggio di Doha (che dal 1961 offre asilo a Yussuf al-Qaradawi, uno dei leader spirituali dell’Ikhwan) quale una violazione del patto di sicurezza sottoscritto dai membri del GCC ed ha richiamato il proprio ambasciatore – una misura adottata anche da EAU e Bahrain. La pressione saudita ha infine costretto il giovane sceicco Tamim bin Hamad bin Khalifa al-Thani ad acconsentire all’espulsione di sette esponenti della leadership egiziana (compreso il Segretario Generale Mahmoud Hussein), rifugiatisi nell’emirato a seguito del golpe di Abdel Fattah al-Sisi. Isolata sul fronte regionale, Doha avrebbe invitato anche Khaled Meshaal, leader di Hamas, a lasciare il Paese, sebbene poi la notizia sia stata smentita dallo stesso governo qatarino.

Se la guerra civile in Libia – ove tra i diversi attori coinvolti Qatar e EAU hanno ingaggiato un confronto a distanza sulla forma politica dell’ordinamento libico in cui Doha patteggia apertamente per le milizie islamiste contrapposte al fragile governo di Tobruk, invece sostenuto militarmente e finanziariamente da Abu Dhabi in accordo con le posizioni di Arabia Saudita e Egitto – non depone a favore di un alleggerimento della tensione sulle sponde del Golfo Persico/Arabico, la radicalizzazione della crisi irachena ha tuttavia imposto l’espressione di una risposta formalmente unitaria contro la minaccia califfale. Del resto, Doha e Riyadh da tempo armano i gruppi di opposizione a Bashar al-Assad ed anzi la diplomazia qatarina ha fortemente operato nei consessi di ONU e Lega Araba per l’indebolimento del governo alawita.

Malgrado ciò, la posizione del Qatar nella repressione del disegno eversivo di al-Baghdadi è macchiata dall’accusa di aver foraggiato le colonne jihadiste arruolate sotto i vessilli neri dello Stato Islamico; un’accusa riprodotta anche da sponda saudita, poiché la casa regnante è nettamente avversa alla soluzione auspicata da al-Thani circa l’installazione di un regime islamico a Damasco. Il governo statunitense ha appurato l’avvenuto trasferimento d’ingenti donazioni da parte di privati cittadini qatarini e kuwaitiani a favore di gruppi estremisti attivi in Siria (come Jabhat al-Nusra), con alcuni dei quali confluiti nel ventaglio degli alleati di convenienza del Califfato; tuttavia, l’intelligence americana non ha trovato evidenza di un intervento (o anche della sola compiacenza) delle istituzioni di Doha, se non indirettamente in ragione di una legislazione sui movimenti di capitale piuttosto morbida e priva di adeguati meccanismi di controllo. Al contrario, l’emirato non ha perso occasione per indossare il vestito di rigoroso persecutore del terrorismo internazionale, rinnovando le intese e la cooperazione nel settore – come comprovato dal giro di vite applicato nello scorso settembre in tema di monitoraggio delle transazioni bancarie, dal rispetto degli standard definiti dal Middle East and North Africa Financial Action Task Force in materia di anti-riciclaggio e di finanziamento a organizzazioni terroristiche, infine dall’impegno da ultimo ribadito in occasione della visita del giovane emiro a Londra alla fine di ottobre. Ciononostante, è indubbio che i limiti tracciati dalla famiglia al-Thani nella conduzione della politica estera siano volutamente sfuggenti ed è anzi appariscente la sottile duplicità del finanziamento delle incarnazioni violente dell’Islam politico da un lato ed il ricorso occasionale alla maschera di antagonista dell’estremismo dall’altro.

Da un livello di analisi più ampio, se i fronti di combattimento dischiusi dal travaso del furore ideologico dello Stato Islamico sono pure epicentro di una competizione per la stessa direzione della regione mediorientale – all’interno del quale Riyadh, Istanbul e Teheran contrappongono i rispettivi progetti egemonici – la collocazione di Doha in questa fluida ricomposizione dei rapporti di forza è tutt’altro che scontata. Da sola la preminenza dell’Arabia Saudita non è infatti in grado di aggregare le dissonanti agende delle monarchie petrolifere. Tanto autoritaria sul fronte interno, quanto conciliante e cortese in ambito diplomatico, la dirigenza qatarina detta invece una concezione inclusiva della sicurezza nazionale che massimizza il potere di coalizione dell’ambizioso emirato.

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South Pars / North Dome - Fonte: Wikimedia Commons

In questo senso, sono emblematici i rapporti intrattenuti con l’Iran. Malgrado la decisa opposizione saudita, il nuovo capitolo aperto dal Presidente iraniano Rouhani e l’eventuale distensione sull’asse Washington-Teheran potrebbero irrobustire (a spese del GCC) la già solida convergenza energetica, laddove Qatar e Iran condividono la gestione dell’immenso giacimento “South Pars-North Dome” che in gran parte ricade nelle acque territoriali qatarine. La cooperazione bilaterale per lo sfruttamento del maggior bacino gasifero al mondo ha incoraggiato la prossima istituzione di un’area di libero scambio nella provincia iraniana di Bushehr, nonché la firma di un memorandum d’intesa per lo sviluppo delle transazioni commerciali. Se nella prospettiva di Teheran questo filone di accordi procede dietro all’imperativo di aumentare il peso economico contro la dorsale saudita, da quella di Doha promette importanti dividendi in termini di sicurezza energetica e flessibilità strategica – che sintetizzano il codice distintivo della postura esterna del Qatar.

Nonostante geopolitica e geoeconomia agiscano a protezione dell’emirato, al-Thani non dovrebbe né sopravvalutare il patrimonio energetico, né abusare della “virtù” politica della doppiezza. Il recente ricatto saudita e l’inaspettata escalation irachena rendono tangibili i vincoli del dinamismo qatarino. Da questo punto di vista, il vertice del GCC dello scorso 9 dicembre ha rappresentato un brusco richiamo all’ordine per la dirigenza di Doha, costretta a ricucire lo strappo con le monarchie sunnite attraverso la sottoscrizione di un comunicato che affermava il pieno supporto al programma politico del Presidente egiziano al-Sisi. Dinanzi alla pressione congiunta di Riyadh e Dubai, l’emiro al-Thani ha necessariamente temperato la convergenza con la Fratellanza Musulmana. Malgrado il passo falso e la conseguente ammissione di debolezza, la crescente rivalità nel Golfo Persico è però espressione della crescita esponenziale del ruolo esercitato dal Paese. È dunque legittimo ritenere che nei piani interconnessi che sfaldano e ricreano il tessuto delle relazioni mediorientali il Qatar costituirà un polo di potere (energetico, finanziario e finanche politico-militare) tutt’altro che secondario nell’incipiente mutamento dell’intero complesso regionale.

* Alessandro Tinti è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Firenze)

Photo credits: AP

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