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Le fabbriche della povertà

Creato il 10 marzo 2014 da Allocco @allocco_info

Con il discorso inaugurale del Presidente degli Stati Uniti Henry Truman, il 20 gennaio 1949 il mondo scopre la povertà: per la prima volta una parte del Pianeta viene definita “sottosviluppata”. In un periodo di decolonizzazione, dopoguerra e schieramento bipolare inizia l’era dello sviluppo, attraverso la quale l’interventismo del Nord del mondo avrebbe dovuto alleviare i problemi dei Paesi poveri.

Le diverse strategie di lotta alla povertà hanno avuto come comune denominatore il perseguimento del binomio sviluppo economico/crescita economica. L’unica soluzione per risolvere il problema della povertà è stata quella di far crescere la ricchezza. I gruppi dominanti hanno usato il concetto di crescita come sinonimo di sviluppo, elaborando un mix di concetti diversi fra loro come “sviluppo sostenibile”, “crescita economica”, “sviluppo sociale”, e proponendo come dogma l’idea secondo cui non c’è sviluppo sociale ed umano senza crescita economica. Tre sono le fasi di sviluppo susseguitesi nel tempo: “l’aiuto allo sviluppo”, lo “sviluppo sostenibile” ed infine le politiche basate sul paradigma della “crescita verde”. La strategia “Povertà zero al 2000”, promossa dagli economisti dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), della Banca Mondiale e dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) era basata sull’aiuto allo sviluppo prevedendo che i Paesi ricchi devolvessero lo 0,7% del proprio PIL a favore di aiuti pubblici allo sviluppo per eliminare la povertà assoluta entro il 2000. Tale approccio è stato lo strumento più semplice affinché le potenze coloniali del Nord potessero riorganizzare il proprio assetto in un’epoca nella quale la colonizzazione non era più tollerata. Il mito dell’aiuto, bilaterale e/o multilaterale, è stato per anni condizionato da e subordinato agli interessi dei Paesi donatori. Così, oltre a non essere stati in grado di destinare lo 0,7% del PIL agli aiuti (ad eccezione dei Paesi scandinavi, Canada e Nuova Zelanda), l’aiuto condizionato ha fatto in modo che la produzione di ricchezza locale andasse a favore delle imprese e di soggetti finanziari esterni al Paese beneficiario. La logica era “ti dò del denaro per sviluppare ospedali a condizione che i tecnici, le imprese di costruzione e le macchine siano del mio Paese”. La strategia 1995, cioè “dimezzare la povertà al 2015”, veniva fuori dal dibattito internazionale in sede ONU fino a giungere, nel 2000, alla formulazione della “Dichiarazione del Millennio”.Tra gli obiettivi da realizzare entro il 2015, il numero 1 prevede di “sradicare la povertà estrema e la fame” sebbene, in realtà, le Nazioni Unite abbiano perseguito una semplice riduzione in quanto non hanno mai veramente creduto nello sradicamento, essendo esso legato alla necessità di adottare misure radicali contrarie agli interessi dei Paesi ricchi. Un importante cambiamento di approccio è stato quello di attribuire la responsabilità dell’impoverimento ai poveri stessi, essendo una loro responsabilità l’uscita da tale condizione. In questa chiave può rientrare l’inserimento di due nuovi princìpi tra le linee guida dello Sviluppo del Millennio: l’empowerment, ovvero la creazione di condizioni per “capacitare” gli abitanti dei vari Paesi a diventare protagonisti autonomi del proprio sviluppo, ma senza mettere mai in discussione i princìpi economici del sistema capitalista di mercato, essendo il luogo e il meccanismo che ha il potere di fissare il valore delle cose e degli esseri umani; l’altro principio guida della strategia di lotta alla povertà è lo sviluppo sostenibile, che rappresentava una rottura rispetto alle concezioni passate, essendo ancorato ai limiti ambientali della crescita, alla responsabilità collettiva e alla partecipazione cittadina ai processi decisionali. Ciò nonostante, nei primi Anni ’90, subito dopo il Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992, il mondo del business e della finanza (grazie al ruolo svolto dal World Business Council for Sustainable Development) è riuscito ad indirizzare il concetto di “sviluppo sostenibile” su una strada non differente dal passato, basandolo sulla crescita economica infinita che abbia un minore impatto sull’ambiente. Capovolto il concetto, definito ormai da molti un ossimoro, l’aspetto economico ha preso il sopravvento essendo ormai funzionale alla finanza privata e ai meccanismi di mercato che hanno soppiantato gli altri due pilastri del concetto. La strategia della crescita verde, poi, ha permesso di marginalizzare le criticità dell’economia mondiale quali la crisi dell’occupazione, il futuro del lavoro, la fine della bolla finanziaria e l’impoverimento crescente, subordinandole all’imperativo assoluto dell’agenda politica mondiale, cioè il ritorno alla crescita attraverso le promesse dell’economia verde.

Ma chi sono davvero i poveri? A cavallo tra gli Anni ’60 e ’70 i gruppi contrari allo Stato del Welfare hanno fatto saltare il sistema basato sulla sicurezza sociale. In nome della libertà economica è stata ridicolizzata la politica, sono stati svenduti i beni comuni ed è stata mercificata ogni forma di vita. Oggi, i poveri sono le persone che non riescono ad accedere ai beni di necessità di base, come acqua, cibo, vestiti, alloggio, medicine, in quantità e qualità indispensabili per vivere decentemente. L’impoverimento riguarda anche i Paesi occidentali, tra cui spicca l’Italia, dove nel 2012 si è osservato che il 12,7% delle famiglie è relativamente povero e il 6,8% lo è in termini assoluti. La misura utilizzata in ambito internazionale è il PPP (Parity Purchasing Power/ Parità di Potere d’Acquisto) che misura l’ineguaglianza monetaria e mercantile, ed è riferita alle persone che vivono in uno stato di “miseria”, estromesse e private di tutto ciò che è essenziale alla vita “umana”: libertà, istruzione, salute, rispetto, giustizia, cittadinanza, democrazia. Questa povertà è definita assoluta, ossia considerata parte costitutiva della società umana. La metodologia dell’ISTAT, invece, definisce povertà relativa il valore di spesa per consumi al di sotto della quale una famiglia di due componenti è definita “povera” (valore che nel 2012 era di 990,88 €) e povertà assoluta la spesa mensile minima necessaria per acquisire un determinato paniere di beni e servizi, essenziali a conseguire uno standard accettabile di vita.

Come uscire dalla povertà? A tal fine, e in questo spirito, una gruppo di cittadini e associazioni nel 2012 ha lanciato l’iniziativa “Dichiariamo Illegale la Povertà – Banning Poverty 2018” che si prefigge di realizzare precisi obiettivi in Italia negli anni 2013-2017 attorno a tre campagne: “Mettere fuorilegge la finanza predatrice”, “Dare forza ad un’economia dei beni comuni” e “Costruire le Comunità dei Cittadini”. “Dichiariamo Illegale la Povertà” è un’iniziativa internazionale, di cui l’Italia è il Paese di lancio, e a cui seguiranno il Belgio, il Québec, l’Argentina, il Marocco, la Malesia e le Filippine a partire dal 2014. Il “dichiariamo” della campagna vuole significare che noi possiamo realizzare tutte le tappe del percorso di liberazione dall’impoverimento: noi cittadini possiamo mettere in piedi un processo di mobilitazione civile e politica. “Dichiariamo” esprime la volontà di essere presenti nel nostro tempo, di affermare tesi e idee per realizzare azioni concrete contro una povertà che non può essere considerata naturale e prendere coscienza dell’illegalità della povertà quale idea di partenza. L’atto della dichiarazione comporta l’attivarsi per la messa al bando di leggi, istituzioni e pratiche sociali da parte dei Paesi aderenti all’iniziativa, in vista dell’obiettivo concreto del 2018, ovvero l’approvazione di una Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sull’impegno degli Stati membri di eliminare i fattori strutturali dell’impoverimento. Dopo tale risoluzione potrà proseguire il percorso per liberare il mondo dall’impoverimento.

I promotori di “Dichiariamo Illegale la Povertà” individuano quattro meccanismi di creazione della povertà, definiti “fabbriche”. La fabbrica dell’inevitabilità, ovvero il sistema di immaginario collettivo costruito sulla “naturalità” della povertà, pensata come parte della legge di natura, immodificabile, eterna e da accettare passivamente, risultato di un’auto-esclusione del povero colpevole di non aver fatto nulla per uscire da tale condizione. La fabbrica dell’ineguaglianza, basata su pratiche sociali di buonismo e paternalismo che non perseguono lo sradicamento della povertà, bensì uno scagionamento morale di coloro che non sono “colpiti” da sciagure: tali pratiche si realizzano a seguito di situazioni emergenziali, e non intaccano i fattori strutturali dell’impoverimento poiché incentrate essenzialmente sul cosiddetto “business della carità”. La fabbrica dell’esclusione e dell’ingiustizia, ovvero il predominio del “sistema capitale, impresa, mercato” che legittimizza l’impoverimento sacralizzando il valore assoluto della ricchezza privata; in tale contesto l’impresa privata è considerata il soggetto migliore per massimizzare la creazione delle condizioni di ricchezza, facendo in modo che solo coloro che hanno la capacità di “comprare” beni e servizi possano godere dei diritti. Si realizza un’esclusione per motivi economici dai diritti umani e sociali che non ha alcuna ragione di esistere in una società considerata “giusta”. La fabbrica della predazione della vita, il cui motore principale è la finanziarizzazione dell’economia, della società e della natura, per cui è stata stravolta la giustizia e la democrazia.

La campagna “Dichiariamo Illegale la Povertà” parte dalla presa di coscienza del grande furto di vita, umanità e futuro di cui siamo vittime, realizzatosi attraverso la mercificazione e de-sacralizzazione della vita, con la monetizzazione delle relazioni umane e le logiche di appropriazione rivali ed escludenti. “Dichiarare illegale la povertà” significa mettere la bando i fattori strutturali che hanno permesso e consentito al capitale privato di essere proprietario del lavoro umano e della vita. L’illegalità della povertà (e non dei poveri) non significa lottare per far sì che tutti gli esseri umani abbiano almeno più di 1,25 dollari al giorno (l’obiettivo delle precedenti fallimentari campagne per la lotta alla povertà). Il giorno in cui il “reddito minimo” quotidiano degli attuali poveri assoluti dovesse diventare 2 dollari al 2020 e quello degli attuali poveri “relativi” dovesse diventare 3 o persino 5 dollari, ciò non significherebbe la fine dell’impoverimento. Le fabbriche della povertà resterebbero in piedi, il problema dell’impoverimento non è legato alla redistribuzione del reddito prodotto ma alla finalità ed alle modalità di produzione della “ricchezza” di un paese al servizio dei diritti di tutti. Non si lotta contro la povertà statistica, ma per una società diversa sul piano della giustizia, dell’inclusione, del rispetto della vita e della fraternità e condivisione del futuro.

Le proposte dell’iniziativa si articolano in tre campagne: a) “Mettiamo fuori legge la finanza predatrice”; b) “diamo forza ad un’economia dei beni comuni”; c) “costruiamo le comunità dei cittadini”. La prima tappa riguarda la reintroduzione del principio della separazione istituzionale fra “banca di deposito” e “banca di credito”, ristabilendo banche pubbliche e cooperative per i beni comuni ed i servizi essenziali ed insostituibili per la vita, fondate su vincoli localistici e collettivi. Sempre in quest’ambito, per rimuovere forme speculative che impediscano alla moneta di svolgere un ruolo di sostegno alle attività economiche e sociali, per valorizzare le forme di credito e di risparmio popolare e cooperativo, e per restituire una “sovranità” condivisa e partecipata ai cittadini ed alle istituzioni politiche, vengono proposte alcune azioni prioritarie, come mettere un freno ai disastri provocati dagli scandali finanziari che hanno generato alti salari per pochi e sbilanciamento a favore dei redditi patrimoniali, attraverso il divieto alle banche e alle imprese di versare bonus e dividendi in aggiunta alle retribuzioni monetarie o di altra natura e fissare dei tetti alle remunerazioni. La seconda campagna, che ha l’obiettivo di dare forza ad un’economia dei beni comuni, intende creare un’economia giusta ed efficace che possa salvaguardare e garantire la tutela dei diritti umani e sociali, abrogare le disposizioni che in Italia hanno stravolto il diritto al lavoro e ricostruire i processi d’integrazione europea con mobilitazioni popolari per un’Europa dei Beni Comuni. Le azioni per realizzare la campagna riguardano: l’abrogazione delle leggi che sotto i governi Berlusconi e Monti hanno stravolto le regole costituzionali in materia di lavoro; l’abrogazione delle false cooperative di lavoro; la dissociazione del reddito dal lavoro, ovvero la promozione di un percorso di sensibilizzazione e di modifica delle regole, delle istituzioni e delle pratiche sociali che, partendo dall’instaurazione di un salario e/o di un reddito minimo monetario, giunga alla creazione e alla disponibilità di un “reddito sociale reale” per tutti. Infine, la terza campagna, volta alla costruzione delle comunità dei cittadini, ha le finalità di lottare contro il furto della democrazia, di abbandonare le politiche di criminalizzazione degli esclusi e degli impoveriti, e di eliminare il ricorso ai criteri giuridici, ideologici e relazionali che sono alle origini delle azioni di discriminazione. Tra le azioni da realizzare per questa campagna vi è quella di ri-cittadinare la città, cioè rimettere i cittadini al centro della comunità urbana (sul piano umano) e nel funzionamento delle istituzioni politiche, grazie alla promozione dell’economia dei beni e servizi comuni pubblici (sul piano dei rapporti con la natura). Per trasformare la città nel “luogo” della res publica occorrerà sostituire il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economica e del Lavoro) con il CNBC (Consiglio Nazionale dei Beni Comuni), composto da rappresentanti locali di città/comuni/collettività, che avrà il compito di salvaguardare il buono stato e lo sviluppo dei beni comuni in Italia. Le altre due azioni da realizzare riguardano la creazione di una cittadinanza mondiale e di una cittadinanza inclusiva, mettendo in atto campagne di opinione pubblica contro la “falsa verità” che il ricco sia meritevole ed il povero colpevole, oppure mettendo fuori legge i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) in quanto luoghi di detenzione illegali, che ha diffuso in tutti gli stati UE una politica irrispettosa dei diritti umani.

Un grande e significativo apporto all’iniziativa internazionale “Dichiariamo Illegale la Povertà” può essere realizzato anche dai singoli Comuni italiani per mezzo di una delibera comunale (proposta di delibera scaricabile dal sito http://www.banningpoverty.org) mediante l’approvazione di 12 princìpi ispiratori. 1. Nessuno nasce povero né sceglie di esserlo. 2. Poveri si diventa; la povertà è una costruzione sociale. 3. Non è la società povera che “produce” povertà. 4. L’esclusione produce l’impoverimento. 5. In quanto processo strutturale, l’impoverimento è collettivo. 6. L’impoverimento è figlio di una società che non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della Terra. 7. I processi d’impoverimento avvengono in società ingiuste. 8. La lotta contro la povertà (l’impoverimento) è anzitutto la lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento). 9. “Il pianeta degli impoveriti“ è diventato sempre più popoloso a séguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni perpetrate a partire dagli anni ’70. 10. Le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà perseguite negli ultimi quarant’anni sono fallite perché si sono attaccate ai sintomi (misure curative) e non alle cause (misure risolutive). 11. La povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su un “furto di umanità e di futuro”. 12. Per liberare la società dall’impoverimento bisogna mettere “fuori legge” le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento. Sono già tre i Comuni (Pescia, Città di castello e Polignano a Mare) che al 9 novembre 2013 hanno deliberato a sostegno dell’iniziativa, contribuendo alla “lotta contro le cause strutturali della povertà inerenti ad una società ingiusta inuguale e predatrice”.

Le conclusioni presenti nel testo “Le Fabbriche della Povertà”, manifesto dell’iniziativa scaricabile dal sito internet, sono significative: “Nel 1830 nessun operaio avrebbe mai immaginato che avrebbe avuto una pensione, che sarebbe stato retribuito anche in caso di assenza dal lavoro per causa malattia, che ci sarebbero stati dei sindacati dei lavoratori in seno alle imprese. Oggi sono pochi coloro che pensano che un giorno sarà effettivamente realizzato il diritto ad una vita degna per tutti, e che tutti saranno garantiti di un reddito sociale reale, che saranno eliminate le grandi discriminazioni tra uomini e donne. L’inaccettabile di oggi sarà messo fuorilegge, ciò che i gruppi dominanti considerano impossibile sarà possibile. In realtà, il futuro c’è ma non è già scritto. Il futuro c’è perché il divenire esiste. Le possibilità di costruire il futuro, collettivamente, nell’interesse generale sono considerevoli. Possiamo cambiare le leggi, modificare le istituzioni, trasformare e migliorare le pratiche sociali e collettive. I campi di azione sono ricchi di opportunità. Queste sono disponibili e accessibili unicamente ai più forti, ai più ricchi. Il mondo non ha bisogno di predatori né di vincitori, ma di esseri umani. E di esseri umani ce ne sono e ce ne saranno sempre, tanti.”

Fonte: “Le Fabbriche della Povertà” – www.banningpoverty.org


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