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le labbra di luciana

Da Manuela
Il 7 maggio 2008 è una giornata nuvolosa, ma io ho lo stesso gli occhiali scuri mentre risalgo le scale della metropolitana di Milano, fermata Sant’Ambrogio. Non mi sono truccata gli occhi con il rimmel, né ho messo rossetto sulle labbra. Solo un po’ di colore sulle guancie. Sono sola. Devo andare all’ospedale San Giuseppe. Sono le 10.00 e sono in anticipo. La cerimonia funebre di Luciana inizia alle 10.30. tra mezz’ora rivedrò Luciana dopo due anni di lontananza. E sarà tutto diverso. E sicuramente non avrà sulla labbra il suo immancabile rossetto rosso.
Le labbra di Luciana!
Luciana aveva un modo molto particolare di parlare: non apriva o serrava le labbra per pronunciare le parole, ma i denti. Le sue labbra le usava come un flauto modulando le parole con il soffio della voce attraverso i denti. Luciana aveva dei denti bianchi , leggermente arrotondati agli spigoli, allineati uno accanto all’altro. Spesso sulle labbra stendeva un rossetto rosso o arancione che incorniciava ogni sua parola e che illuminava di ironia e intelligenza il suo viso rotondo. Luciana aveva una bocca molto sensuale, e lo sapeva. In una delle chat che lei frequentava per fare amicizie aveva scritto segni particolari: la bocca.
L’ultima volta che ho visto Luciana viva, che ho visto quelle labbra in movimento è stato nel 2006. In settembre.
Da lei, nel bilocale di via Pontida. Eravamo io, lei e una sua amica di cui non ricordo il nome. Luciana mi aveva accolto mentre terminava di apparecchiare la tavola con le tovagliette di bambù e i piatti azzurri e verdi. Era vestita di rosso. Portava il rossetto sulle labbra.
La casa di Luciana era al primo piano. La porta d’ingresso dava sulla ringhiera interna, attorno un enorme gelsomino si arrampicava sulla parete esterna facendo dondolare i germogli davanti al vetro della porta sempre socchiusa. Per via dei gatti. Luciana viveva da sola con i suoi due gatti grigi: Orso e Mimì. Ma non aveva paura di nulla
“riesco a emettere un grido di guerra così forte da far spaventare eventuali ladri” diceva ridendo. Dalle sue labbra potevano uscire parole sussurrate e comandi imperiosi urlati con la pancia.
Il primo locale era cucina e soggiorno insieme. Il posto non era grande, anzi. Eppure Luciana era stato in grado di farci stare un tavolo con le sedie, un divano, due poltrone, cucina a gas, frigorifero, lavapiatti, lavatrice e armadi per piatti e pentole. Sopra la porta che conduceva al secondo locale (la sua camera da letto soppalcata) c’era la riproduzione del quadro di Tamara de Lempicka “Auto portrait”. Nel quadro Tamara si era raffigurata alla guida di una Bugatti verde. Gli stipiti della porte e della finestra del soggiorno di Luciana erano della stessa tonalità di verde. Non si capiva se Luciana avesse scelto il colore per le rifiniture su quello della Lempicka o se il quadro della Lempicka fosse stato ammesso nel soggiorno di Luciana perché si armonizzava con il colore dei suoi stipiti.
Luciana era un po’ come Tamara, un animo scontroso, ribelle, libero, solitario. Ed esteticamente attento. Il rossetto non mancava mai sulle sue labbra, se lo rimetteva anche dopo mangiato.
Non ricordo cosa avessimo mangiato quella sera. Probabilmente insalata, carpaccio di polipo con gallette di mais o fettuccine al farro con verdure. Forse io avevo portato la torta caprese. Sicuramente la cena era senza glutine e senza lievito. Luciana diceva di essere intollerante al glutine e al lievito e lo diceva con una tale autorità, arricciando le labbra sopra i denti e fiammeggiando sguardo dagli occhi scuri, che nessuno osava cucinare qualcosa con il glutine se lei era invitata. Lei era il centro, sempre, di ogni avvenimento a cui partecipava. Lei e la sua bocca.
Finito di cenare da Luciana si sorseggiava the bancia, un the verde giapponese dalle proprietà curative: sollievo al fegato, alla digestione, depurativo. Il the era spesso accompagnato da frutta secca e dolcetti al miele e riso.
Ed era accaduto sorseggiando il the e spizzicando dolciumi.
Ricordo che Luciana si era seduta in una delle sue poltrone mentre accarezzava Orso, il suo gatto guercio. Si era rimessa il rossetto e baciava sulla testa il suo gatto. Ricordo anche che la sua amica si era appartata in camera con Mimì e non si era fatta vedere fino a quando non me ne ero andata. Quando si allontanava dal tavolo e si metteva così sulla poltrona dopo mangiato ad accarezzare il gatto acciambellato sulle sue cosce era il momento della distanza: una regina che scandisce attraverso le labbra i suoi proclami a un suo sottoposto.
Luciana mi aveva invitata per pianificare l’attività di Meteora da ottobre successivo. Ma io non ero convinta di prendermi tanto impegno.
Io ho iniziato la mia attività teatrale tardi, dopo il mio terzo figlio ed ho iniziato proprio con lei, Luciana.
Luciana, invece, era una single, una cinquantenne single che faceva vanto del suo essere libera, senza legami “io non credo nell’amore, i sentimenti non esistono. Gli uomini non bisogna capirli ma trombarci” sì diceva proprio così: trombare. Lo diceva con le sua labbra pitturate di rosso e senza alcuna volgarità. Diceva che questo termine toscano ben si adattava a quello che lei intendeva: scopare era da puttana, trombare no.
Non capiva quindi il mio legame affettivo con mio marito e poi…tre figli “ma come cazzo ti è venuto in mente di fare tre figli!. Devi riprenderti la tua libertà. Donna fera.”. Per lei gli uomini erano tutti dei Barbablù. Ed anche mio marito. Le donne devono essere selvagge e libere. Solo così possono essere felici.
Quella sera di settembre, bevendo il the bancia, Luciana aveva cominciato elencando le varie attività da fare. Io con il mio quadernetto e la mia penna bic ero al tavolo seduta su una sedia e prendevo appunti. Luciana voleva che io mi occupassi della attività di reclutamento, pubblicità, fidelizzazione degli iscritti a meteora, nonché della sezione teatro ragazzi. Voleva anche organizzare un corso per allievi avanzati, corso in cui avrebbe insegnato la sua tecnica di conduzione dei laboratori. E voleva me tra gli allievi di questo corso. Voleva inoltre trovare un sostituto per le sue lezioni. Avesse dovuto ammalarsi ci sarebbe stato chi la sostituisse. Lo diceva con la sua cantilena, ma era un dire senza replica.
Voleva troppo! Troppo per una donna come me che aveva a casa tre figli e che non voleva liberarsene per riversare tutte le sue energie in Meteora.
Ma per Luciana era qualcosa di più.
Per lei era una prova di fedeltà, di dedizione. Non mi chiedeva di trovare del tempo per crescere professionalmente, mi chiedeva di scegliere tra il teatro e la famiglia, anzi tra lei e i miei figli.
Quella sera ci siamo lasciate con l’amaro in bocca.
Lei sapeva che io non avrei scelto Meteorateatro e si sentiva come un animale ferito. Io mi sentivo presa nel laccio e volevo liberarmi.
Ma non ero stata capace di articolare con la voce, le mie labbra si erano seccate e la mia decisione avevo dovuto scriverla per email. Due giorni dopo quella cena le scrissi:
eccomi di nuovo...a dirti che non ce la faccio....che decido con dolore e tanto dispiacere di restare fuori, fuori da tutto, da meteora, dal master, dai progetti...da tutto...poiché non riesco, proprio non riesco a starci dentro....sto male, non ce la faccio...ho bisogno di vuoto, mentre la mia vita è tutta piena, troppo piena....e i pensieri si accavallano tumultuosi ...le cose da fare...
vi saluto...tutte quante...e vi ringrazio di esserci state, di esserci, da avermi arricchito, di aver accolto le mie ricchezze...ora ho bisogno di silenzio, e di vuoto....
....spero che tu mi capisca e mi sostenga da lontano, nella distanza e nel silenzio
a presto
un abbraccio grande
manuela
Luciana diceva che io ero una “donna nel vento”, e dal vento lontana da lei mi ero lasciata trasportare. E dopo tempo il vento mi aveva riportato notizia di lei, di Luciana. Ma non quelle notizie che immaginavo ricevere.
Sapevo che Luciana non stava bene, ma ero tranquilla. Due mesi prima avevo incontrato Valentina un’altra delle meteore, come ci chiamava Luciana. Eravamo tre le meteore: io, Muntsa e Valentina. Eravamo un gruppetto eclettico: io mamma quarantenne con tre figli che riprendeva un’antica passione mai assopita, Muntsa, catalana della provincia di Barcellona, precisamente da un paese in cui l’unico odore persistente era quello dei maiali “ci sono più maiali che persone nel mio paese” e Valentina l’unica che aveva fatto un curriculum regolare: laurea in scienze dell’educazione e corso di animazione teatrale alla scuola civica dove Luciana insegnava. Da quando me ne ero andata non avevo più visto né sentito né Valentina né Muntsa. Ora sotto casa mi imbatto in Valentina che sta andando a prendere il metro:
“ciao Valentina”
“ciao Manuela”
“come stai?”
“bene”
“lavori ancora con Luciana?”
“più o meno… sai che non sta bene?”
“cos’ha?”
“l’hanno operata all’utero”
“dove?”
“all’Istituto Europeo Oncologico”
“sai qualcosa dell’operazione?”
“pare che sia andato tutto bene, Luciana è già a casa”
“prima o poi devo risentirla.”
“eh sì, lei aspetta una tua telefonata”
“beh, ciao”
“ciao”.
L’utero era una fissa della Luciana. Mi aveva più volte confidato la sua paura. Aveva piccole perdite ematiche e doveva fare delle ecografie di controllo. E voleva che l’accompagnassimo. L’ultima volta c’era andata con Muntsa e il referto era negativo. Ma doveva rifare i controlli. La notizia di Valentina non mi giungeva quindi inaspettata anche se il fatto dell’intervento mi aveva sorpresa. Dunque non era proprio nulla! Ma lo stesso non mi ero eccessivamente preoccupata. Valentina mi aveva detto che Luciana era già a casa, dunque stava bene, l’intervento era riuscito. L’avrei chiamata, avrei di nuovo sentito la sua voce cantilenante e sarei andata a trovarla a casa sua dove mi avrebbe atteso vestita di rosso o nero con il suo immancabile rossetto sulle labbra. Dovevo solo trovare il momento giusto, ma non ne ho avuto il tempo. Non ho più rivisto Luciana. Non ho più rivisto le sue labbra rosse in movimento.
L’altro ieri mi ha chiamato Muntsa. Appena ho risposto al cellulare ed ho sentito il suo accento catalano l’ho riconosciuta; ed ho temuto qualcosa di grave
“ciao Manuela”
“ciao, cos’è successo?”
“Luciana è morta questa mattina”
“ma, come?”
“metastasi, aveva metastasi dappertutto. E poi i polmoni. È stata una cosa veloce. In 15 giorni se ne è andata. Le amiche che avevano organizzato i gruppi per andare ad accudirla non sono neppure riuscite a finire il primo turno. Dopo domani fanno una cerimonia funebre con rito buddista”
“dove?”
“all’ospedale dov’è morta. al San Giuseppe, mi hanno detto di avvisarti”
“grazie, tu ci vai?”
“sì”
“allora ci vediamo lì”
Arrivata al san Giuseppe chiedo della funzione “sarà nella cappella. Non abbiamo altri spazi per questo tipo di riti”. Se fosse viva Luciana riderebbe sorniona, una cerimonia buddista in una cappella!
La cappella è al piano interrato. Ci sono ancora poche persone e Luciana è stata composta già dentro la cassa, il coperchio ancora levato. Ha un incarnato bianco, i suoi capelli corti tinti di rosso scuro aderiscono al capo, le sue labbra sono chiuse. Ha quasi una espressione arcigna, seria. Lei che non è mai stata arcigna. Senza la mobilità della sua bocca e la vivacità dei suoi occhi il volto di Luciana sembra il volto di un altro.
Eppure il fatto che ora lei sia lì, immobile, con le labbra pallide, chiuse e che io possa guardarla e rimirarla senza che lei lo sappia mi fa quasi provare sollievo. Per la prima volta posso guardare Luciana e indugiare con lo sguardo sulle sue labbra senza che lei scavi dentro di me, mi metta alla prova e mi dica parole taglienti. Dalle sue labbra sono uscite quelle parole che due anni mi hanno allontanato da lei.
Alle ore 10.25 qui, nella cappella dell’ospedale San Giuseppe, sta arrivando gente, alla spicciolata. Gente della civica, gente del suo centro buddista, amiche, conoscenti, colleghi, allievi. Una massa eterogenea e multiforme, come era lei, Luciana. In quella sala bianca e bordeaux si forma un anello umano attorno a Luciana.
Gli occhi di tutti sono arrossati, commossi, increduli. Ecco Massimo il suo assistente alla civica con il suo sguardo azzurro buono e mite. Ecco Valerio, il tecnico del suono e il mago dell’audio. Ho assistito agli scambi verbali carichi di tensione tra lui e Luciana. Lui aveva sempre un modo garbato e gentile di rispondere alla richieste perentorie di Luciana. Ed ecco Muntsa. Con i suoi neri capelli al vento e i suoi vestiti colorati. Nei suoi occhi si legge incapacità di comprendere e tristezza.
Alle 10.30 la cerimonia inizia con un mantra recitato a voci alterne da due signore ingioiellate e buddiste. E poi una ragazzina della civica legge un testo scritto da Luciana. E poi qualcuno recita una preghiera cristiana. Questa cerimonia è come le sue labbra, le labbra di Luciana, con cui sorseggiava the bancia e su cui stendeva rossetti comperati alla Upim.
È una cerimonia di libertà. Alla fine mi viene quasi voglia di cantare una ninna nanna a Luciana, poi desisto. Chissà, magari lei avrebbe criticato la mia mancanza di coraggio!
Caricata sull’automobile la cassa chiusa viene portata al cimitero. La salma sarà cremata l’indomani.
Luciana è uscita di scena in grande stile, con un colpo di scena degno di una teatrante quale lei era. È morta il 5 maggio 2008, lo stesso giorno del suo compleanno. Non festeggieremo quest’anno la Luciana. Niente torta caprese senza, glutine, niente the bancia, niente piadine di Kamut. Addio Luciana! Addio alle tue pazze idee di libertà! Addio ai tuoi capelli corti e tinti di rosso! Addio ai tuoi sorrisi sornioni come il tuo gatto guercio! Addio alle tue labbra rosse!

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