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Le nuove guerre globali

Creato il 22 gennaio 2015 da Casarrubea

Per gentile concessione della Casa Editrice Kappa Vu, pubblichiamo un articolo di Gregorio Piccin, tratto dal libro “Se dici guerra”  (2014)

VENT’ANNI DI PROFESSIONALITA’ POSSONO BASTARE
RIDURRE IL DANNO E’ POSSIBILE

Afganistan

Afganistan

Il vertice Nato tenutosi in Galles il 21-22 maggio scorso rappresenta l’ultima tappa di una corsa, se non allo scontro, al “contatto” diretto con la Russia che gli Stati uniti hanno preparato in venti anni di avvicinamento. Dopo il tracollo sovietico, il repentino ricollocamento globale degli interessi strategici statunitensi è stato prontamente declinato nelle dottrine Nato e sperimentato sul campo nel ciclo di guerre scatenate negli anni novanta a partire dall’Iraq nel 1991 e con l’aggressione alla Jugoslavia del 1999 come apice paradigmatico. In questo primo round bellico post guerra fredda la Germania democristiana e socialdemocratica (col supporto interessato del Vaticano) ha giocato il ruolo di apripista per la disintegrazione della Jugoslavia e anche di capofila insieme agli Stati uniti nell’ultimo pregnante capitolo della serie: la trasformazione dei clan mafiosi kosovari in governanti di un nuovo micro-narco stato, il Kosovo.
Con il rodaggio della nuova Nato nel cassetto, con le forze armate europee da professionalizzare e proiettare nel mondo e con l’acclarata disponibilità degli stati membri (più le new entries dell’est) a fare da committenti/garanti, tutto il potenziale militare-industriale statunitense ma di riflesso anche europeo (con un portato di nuovi sistemi d’arma da sperimentare, sviluppare e commercializzare) si riversa quindi nel nuovo ciclo di guerre, di gran lunga più impegnative e devastanti delle precedenti.
La “improvvisa” strage di civili dell’11 settembre 2001 fu il segnale d’inizio.
I media autorevoli o mainstream scrissero che i 26 giorni che separarono l’azione di guerra su New York e Washington e la risposta statunitense sarebbero stati giorni di “attesa” e avrebbero dimostrato la calma, la ponderazione e l’avvedutezza con cui il governo statunitense si sarebbe mosso nel lanciare la sua rappresaglia.
In realtà furono semplicemente un record di ingaggio e una dimostrazione, per chi la sapeva e la doveva cogliere, di sconfinate capacità militari: in ventisei giorni furono imbarcate o aviotrasportate decine di migliaia di tonnellate di materiali, migliaia di uomini e mezzi dagli Stati Uniti, dal Golfo Persico, dal Pacifico e dall’Europa per essere poi schierati in assetto da combattimento a ridosso delle coste pakistane e delle frontiere afgane e supportati da portaerei, incrociatori, sommergibili nucleari. Il piano di battaglia era evidentemente già pronto nel cassetto.
Le guerre dei primi anni duemila furono più impegnative e devastanti di quelle degli anni novanta perchè alla guerra con “inizio e fine” (Iraq 1991) o per procura (Jugoslavia 1991-99) si aggiunse la ben più redditizia guerra di invasione ed occupazione (Afghanistan 2001-? e di nuovo Iraq 2003-?). Tuttavia queste ultime marcarono un deciso rallentamento rispetto alla strategia di dominio globale statunitense.
In questo senso, la critica più acuta che l’attuale presidente Barak Obama rivolse al suo primo avversario repubblicano (McCain) fu proprio in tema di politica estera (e quindi militare). In sostanza Obama si candidava a riempire quel pericoloso disimpegno in America latina, Africa e Asia che l’impantanamento afgano-iracheno aveva necessariamente creato.
E’ forse anche grazie a questo “disimpegno” o “distrazione di mezzi” che diversi paesi americani (capofila il Venezuela) sono riusciti a coalizzarsi e ad acquisire una inedita e piuttosto salda indipendenza e sovranità con la nascita di borghesie nazionali non legate al corporate business e con la “proditoria” sponda commerciale cinese (anche questa inedita) comunque meno predatoria e politicamente coercitiva di quella statunitense.
Va riconosciuto al presidente Obama di avere tentato in tutti i modi di recuperare il tempo perduto: sotto la sue amministrazioni pacifiste avviene il progressivo sganciamento dalle costosissime occupazioni afgana ed irachena ed il ritorno alla sola e più opportuna guerra per procura in Libia (2011) con capofila la Francia e Gran Bretagna, poi in Siria (2012-?) e “contro” lo Isis, prodotto (desiderato) di tutta la incessante attività bellica e destabilizzatrice precedente, finanziato dalle monarchie petrolifere del Golfo, utile paravento per approfondire l’intervento nella stessa Siria.
Parallelamente a tutto ciò Obama ha cercato di recuperare terreno in America Latina ed in Africa potenziando i comandi regionali, intessendo nuove relazioni bilaterali, piazzando nuove installazioni mentre in Asia, con l’omonimo pivot, ha dichiarato provocatoriamente l’esistenza del nemico cinese. Per ciò che concerne la Russia sta procedendo come un rullo compressore molto più energicamente di quanto si potessero permettere le amministrazioni Bush in tutto altro affaccendate.
Ma nonostante il “correttivo” obamiano alla “scelleratezza” bushiana, gli Stati Uniti vivono quanto meno un netto ridimensionamento dei loro sogni di egemonia globale: in America Latina paesi come il Brasile stanno consolidando la loro indipendenza politico-commerciale forti di accordi di cooperazione nell’ambito Brics mentre altri si muovono in una prospettiva più avanzata e orientata ad una sorta di nuovo eco-socialismo; in Asia anche i paesi alleati o comunque gravitanti nell’orbita statunitense hanno riconosciuto nella Cina il partner commerciale di riferimento dell’area al recente vertice Asean; nel continente africano gli statunitensi e gli europei non se la passano meglio incontrando sulla strada del loro secolare dominio coloniale (e neocoloniale) la pressante concorrenza cinese con il vantaggio, tutto cinese appunto, di non spostare nemmeno un cacciatorpediniere per fare business.
In questo quadro piuttosto desolante per gli interessi statunitensi la Russia, o meglio, la separazione coatta tra Europa e Russia diventa ora la partita principale anche perché gli Stati Uniti intendono portarsi a casa al più presto la ratificazione del Ttip (l’atlantissimo ed ultraliberista trattato di libero scambio tra Nord america ed Europa).
Comunque sia il Pentagono ed il suo complesso militare industriale di riferimento continuano a determinare la politica estera statunitense: tutti i governi degli Stati Uniti continuano ad essere, con i loro bilanci della difesa (da chi, dal mondo intero?), la superpotenza trainante nella corsa agli armamenti globale e alla militarizzazione dello spazio.

E noi?

I governi italiani dell’ultimo ventennio (indistintamente di centrodestra o centrosinistra) hanno sempre partecipato a tutte, ma proprio tutte le avventure belliche Nato/statunitensi, a prescindere quasi sempre anche da qualsiasi valutazione di così detto “interesse nazionale”, come se la politica estera fosse direttamente telefonata da Washington. Nello stesso lasso di tempo e sempre con la stessa blindata trasversalità politica, sono state ulteriormente concesse nuove porzioni di territorio nazionale per consistenti ampliamenti e nuova costruzione di installazioni militari strategiche (sempre statunitensi).
Credo che questo livello di imbarazzante sudditanza non abbia eguali in Europa.
Dal 1989 l’Italia è diventata quindi un paese direttamente belligerante e pesantemente schierato, senza se e senza ma.
In questo mondo multipolare, ciò che impedisce la definizione di una nuova politica estera, industriale, commerciale, energetica e di reperimento delle materie prime (di cui abbiamo assoluto bisogno) che non sia aggressiva ma cooperativa sono gli stessi punti di forza su cui si fonda la nostra belligeranza:

a) il persistente e cieco atlantismo;
b) la perdurante cessione di sovranità territoriale e politica a favore delle esigenze militari e strategiche statunitensi (cessione ancora oggi regolata da accordi segreti vecchi di sessanta anni);
c) la creazione di un esercito professionale da offrire ed utilizzare come corpo di spedizione;
d) le “porte scorrevoli” attraverso le quali sempre più alti ufficiali passano dai comandi ai consigli di amministrazione o alle “consulenze” verso la base industriale di riferimento;
e) la soverchiante organicità tra i “tecnici” preposti alla elaborazione delle analisi di scenario e delle dottrine militari e gli enormi interessi della base industriale di riferimento (per nulla coincidenti con quelli dei suoi lavoratori);
f) la volontà di convertire Finmeccanica alla sola produzione militare;
g) la sostanziale trasversalità ed accordo, su tutti questi aspetti, dei principali partiti di governo che occupano il parlamento;
h) la inossidabile copertura informativa/culturale offerta da tutti i media “autorevoli” o mainstream che dir si voglia.

Il quadro è davvero “disarmante” (per noi, popolo più o meno incosciente): un muro di gomma, un circolo vizioso ben oliato e blindato. Si tratta di nient’altro, se non della privatizzazione spinta della guerra, fotocopia del più che consolidato modello anglo-americano, appendice della più generale privatizzazione della società.
Che fare? Verrebbe da gridare “peace now!” Oppure “non in mio nome!”… ma è evidente che questa azione (ed approccio al problema) non può essere considerata risolutiva. Lo abbiamo imparato definitivamente dopo la grandiosa manifestazione mondiale del febbraio 2003, inedita nella storia e forse irripetibile: oltre 100 milioni di pacifisti nelle piazze delle città di tutti i continenti non bastarono per fermare il clan Bush e la cordata di affaristi che si apprestavano ad invadere l’Iraq con pretesti menzogneri.
Che fare quindi? Andando a leggere le Linee guida per il Libro bianco che il Ministero della difesa si appresta a redigere ci viene fornito un primo indizio: il Ministero manifesta piuttosto candidamente la seria preoccupazione per la perdita di consenso popolare intorno alle Forze armate. E’ questo un fenomeno percepito come grave perchè rivolto contro la chiave di volta di tutto il dispositivo.
La perdita di consenso popolare, in tempi di crisi, disinformazione, disorganizzazione di massa come questi, non è di tipo etico (verso gli eserciti o la guerra in generale) ma di tipo strumentale: a che ci serve questo esercito? A che ci servono le missioni all’estero? Quanti soldi servono per mantenere questo e quelle?
Da venti anni i governi provano a (non) rispondere sostenendo che abbiamo costruito un nuovo esercito di pace, impiegato in missioni di pace e che tutta questa bontà ha un costo che i cittadini devono accettare perchè in mezzo a tanto altruismo ci sono anche gli interessi strategici da difendere. Verrebbe da chiedersi: quali e quando li avremmo difesi?
In questa maggioranza perplessa e non consensuale cominciano infatti ad entrarci anche quegli industriali che, in tempi di crisi e contrazione dei mercati, si vedono sfumare nel nulla commesse per milioni di euro a causa delle recenti sanzioni commerciali contro la Russia (e le conseguenti contro-sanzioni di questa) sostenute anche dal nostro Paese.
Questa maggioranza non consensuale appare complessivamente interclassista mentre la sua composizione politica consta sostanzialmente in due spezzoni molto diversi qualitativamente e quantitativamente: da una parte troviamo una opposizione etica attiva (parte di gran lunga minoritaria) e dall’altra una sfiducia strumentale passiva (la vera massa critica, quella che il Ministero della difesa teme di più).
Chi si adopera, con le modalità più varie, a mettere in discussione la guerra, le basi, le spese militari è tuttavia lo spezzone etico. Osserviamo un po’ da vicino quattro esempi di diverse campagne in essere:

1) contro la Nato: uscirne per definire una nuova politica estera non vincolata alla belligeranza;
2) contro le installazioni militari statunitensi/Nato ed i poligoni;
3) per l’istituzione di un “Dipartimento della difesa civile” e dei “Corpi civili di pace”;
4) contro gli F35 e per una riduzione delle spese militari.

La prima è quella politicamente più “di sintesi” perchè considera correttamente l’adesione alla Nato come la questione determinante su cui intervenire per poter cambiare politica estera, ridurre le spese militari e recuperare sovranità nazionale.
La seconda è quella più longeva (con alti e bassi) e territorialmente più diffusa: le lotte contro le installazioni militari ed i poligoni sono quanto di più prezioso ci sia sulla “piazza” perché sono le uniche fonti dirette (non ufficiali) sui danni e le conseguenze materiali sui territori e sulle persone prodotti da queste strutture.
La terza, quella per il “Dipartimento di difesa civile” potrebbe sembrare risolutiva perché si riferisce alla difesa nonviolenta. Ma si tratta di una operazione alquanto controversa: se questo “Dipartimento” sostituisse le Forze armate sarebbe certamente un grande passo avanti per limitare le pesanti responsabilità di guerra dell’Italia. In realtà così non è: il “Dipartimento” si configura infatti come una struttura dichiaratamente coesistente con l’esercito professionale e la Nato senza metterne in discussione finalità e scopi reali. Eppure appare chiaro che sono proprio l’allineamento atlantico e l’operatività offensiva garantita dall’esercito professionale a renderci un Paese in guerra permanente. In questo contesto parlare di pace, cooperazione e risoluzione nonviolenta dei conflitti è un puro esercizio retorico a meno che non si pensi romanticamente che l’intervento lenitivo delle Ong o dei “Corpi civili di pace” possa trasformarsi in risolutivo per ciò che concerne la sistematica rapina/espropriazione di risorse e relativa produzione di guerre, conflitti, disastri ambientali.
Tra tutte le campagne prese in considerazione solamente la quarta, quella contro gli F35, è riuscita a porsi come punto d’incontro dei due spezzoni (quello “etico” e quello “strumentale”) e per ciò ad assumere anche contorni statisticamente maggioritari. Il suo punto di forza è stato proprio quello di riuscire a fare leva sull’approccio strumentale utilizzando il costo altissimo degli F35. Ma il suo grandissimo punto di debolezza consiste nel rischio concreto che questo annoso focalizzarsi su un sistema d’arma crei la convinzione che sia quello il problema.
Ovviamente così non è: dopo l’89, guerre d’aggressione ne abbiamo fatte e continueremo a farle con o senza quegli aerei perché dagli anni novanta abbiamo voluto trasformare l’esercito in un corpo di spedizione professionale, perché dagli anni cinquanta ospitiamo basi strategiche statunitensi con accordi per noi segreti, e perché, nonostante l’89, stiamo nella Nato e ci siamo adeguati ai suoi (cioè sempre degli statunitensi) standard tecnologici e di ingaggio globale. Senza voler considerare poi altri sistemi d’arma già acquisiti o in fase di acquisizione, altrettanto costosi ed orientati all’offesa piuttosto che alla difesa, ma di fatto sconosciuti ai più perché di fatto collocati nel cono d’ombra del F35 stesso.
Più in generale il tema della riduzione delle spese militari, se si risolve in se stesso senza una proposta di riforma strutturale delle Forze armate che l’accompagni, rischia di sfracellarsi contro la proposta di un esercito europeo sempre targato Nato, sempre professionale, sempre pronto a fare guerra ma certamente razionalizzato e meno costoso.
La campagna contro gli F35 è stata indiscutibilmente un grande successo a livello di consenso e ci ha indicato l’”approccio strumentale” come quello potenzialmente vincente ma è stata altresì un fallimento dal punto di vista politico perché la maggioranza in parlamento su questo tema è sempre trasversale. Il Pd si riconferma ad ogni occasione quello che (purtroppo) rappresenta da vent’anni il centrosinistra italiano ed europeo: il riferimento di governo più affidabile e responsabile per il comparto militare industriale occidentale e per gli interessi statunitensi.

La riduzione del danno.

La guerra non ha niente a che vedere con la dialettica violenza/non violenza. La guerra, in special modo quella permanente e globale, è un articolato processo produttivo, il più redditizio, gestito dal corporate business in stretta collaborazione con i governi (di centrodestra così come di centrosinistra).
La guerra si fa per se stessa come business ma anche con lo scopo di mantenere intatti altri business o di costruirne di nuovi. Se dovessimo dare una definizione mercantile alla guerra potremmo definirla il più lucroso “business a grappolo”.
Allargando la prospettiva di osservazione risulta abbastanza chiaro che per abolire gli eserciti e la guerra, fare un ulteriore salto in avanti nell’evoluzione della specie umana e non soccombere a noi stessi in un lungo inverno nucleare o in un mondo avvelenato ed impoverito dovremmo abolire questo secolare ed obsoleto modo di produrre e consumare basato sostanzialmente su una sola inossidabile legge: massimizzazione e militarizzazione del profitto.
Questo radioso obiettivo non mi pare sia nemmeno all’orizzonte e quindi, per il ragionamento che segue, propongo di abbassare di molto il tiro verso una riformistica, ma concreta ed efficace, riduzione del danno.
Se siamo d’accordo sul contesto velocemente tratteggiato sinora fissiamo almeno tre dati di fatto che potremmo dare per acquisiti:

1) il Ministero della difesa considera grave la perdita di consenso verso le Forze armate;
2) il Parlamento è da oltre venti anni occupato (e blindato) da maggioranze trasversali che si sono tradotte in governi belligeranti e atlantisti e che garantiscono comunque la linea nonostante la perdita di consenso di cui sopra;
3) solo l’approccio strumentale sembra in grado di mobilitare il consenso di una vastissima e forse maggioritaria fetta di popolazione e quindi di creare massa critica.

Volendo procedere in maniera conseguente nel ragionamento sembra chiaro che:

a) siano proprio le Forze armate il punto debole su cui dobbiamo intervenire;
b) questo intervento debba in prima battuta aggirare il parlamento (auspicando per il futuro maggioranze diverse);
c) si debba utilizzare l’approccio strumentale.

A questo punto, per proseguire nell’elaborazione di una strategia di riduzione del danno dobbiamo porci delle domande e tentare di darci delle risposte.
Ecco la prima: chi ha voluto e a cosa serve questo esercito?
Questo esercito, ossia l’esercito professionale, fu richiesto dagli Stati Uniti a tutti gli alleati in seno alla Nato per poter fare fronte alla nuova strategia di dominio globale seguita al tracollo sovietico ed alla fine del sistema bipolare.
Il mondo veniva e viene considerato come una vastissima prateria, una enorme area di interessi strategici da difendere in armi.
La vecchia postura territoriale e difensiva che gli Stati Uniti avevano organizzato e sostenuto in Europa in funzione anti-sovietica era quindi obsoleta ed assolutamente inservibile per i nuovi scopi e le nuove dottrine. In buona sostanza bisognava rapidamente passare dalla forma territoriale/difensiva basata sulla leva ad una nuova forma proiettabile/offensiva basata necessariamente sul volontariato professionale. Esiste una letteratura ufficiale che comprova funzioni, scopi, obiettivi ed appunto “necessità” della professionalizzazione europea delle Forze armate.
In Italia non si perde tempo e già dai primissimi anni novanta si appronta il così detto Nuovo modello di difesa per arrivare rapidamente (ossia nell’arco di circa un decennio) alla sospensione definitiva della leva. Il prodotto finito è quello che conosciamo oggi e che viene riconfermato nelle Linee guida per il Libro bianco della difesa: un moderno corpo di spedizione, integrato negli standard Nato (statunitensi), proiettabile ovunque nel mondo in un contesto operativo multinazionale interforze.
Ad ogni tipo di esercito corrisponde un uso peculiare e l’uso (strutturalmente molto più costoso) di quello professionale è di tipo offensivo da spedizione. Non è un caso che abbiamo mutuato questo tipo di organizzazione proprio dagli angloamericani. Non considerare questa evidenza (peraltro ampiamente ufficializzata negli ambienti militari) rischia di viziare ogni tipo di proposta che si vorrebbe “alternativa”.
L’esercito professionale trae il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione, come il più adatto a svolgere questi compiti.
Le forze di occupazione, per loro stessa definizione, hanno la missione di presidiare e combattere permanentemente o temporaneamente in territori situati al di fuori dei confini nazionali.
La potenza o le potenze che invadono tali territori devono disporre dello stesso personale per anni senza ricorrere alla mobilitazione generale che si dà in caso di guerra ufficialmente dichiarata (l’abitudine di formalizzare i conflitti è stata infatti abbandonata). Ecco quindi la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni.
Non può esistere un altro uso dell’esercito professionale che non sia questo. E’ del tutto scorretto immaginare di poter mantenere questo costoso strumento militare per altri fini che non siano la partecipazione ad avventure militari oltre confine e del resto esso sarebbe del tutto inefficace anche per fare fronte ad una (più che improbabile) occupazione da parte di altri stati.
L’ipotesi della professionalizzazione vinse praticamente a tavolino in primo luogo perché prospettò la promessa di “liberare” i giovani italiani dal fardello della leva obbligatoria (salvo “imporla” indirettamente ai disoccupati e ad una particolare fascia di territorio nazionale come unico sbocco occupazionale); in secondo luogo perché questa “riforma”, a suo tempo, mise d’accordo un po’ tutti:

a) gli statunitensi che la esigevano per potere disporre, come già visto, anche delle Forze armate italiane direttamente o indirettamente nei loro piani strategici post 89’;
b) tutti i partiti rappresentati in Parlamento con l’unica eccezione del Prc;
c) le aziende del comparto industriale militare, per ovvie ragioni legate all’aumento di commesse con alto valore tecnologico e quindi all’aumento dei dividendi per manager e azionisti (con i sindacati di categoria confederali in una posizione sempre opaca e sulla difensiva nonostante il calo costante dell’occupazione a fronte dell’aumento dei fatturati);
d) il terzo settore che ha avuto comunque in parte risarcito il suo serbatoio di forza lavoro prima garantito dall’obiezione di coscienza con l’istituzione del Servizio Civile Nazionale e con una corposa esternalizzazione del servizio pubblico. Lo stesso terzo settore che oggi “suggerisce” al governo Renzi l’istituzione della “leva civile” (implicitamente parallela all’esercito professionale stesso).

Questa per sommi capi la genesi.
Sorge allora spontanea la seconda domanda: quali sono le sostanziali differenze tra l’esercito di leva e l’esercito professionale?
L’esercito di leva era un esercito inservibile agli attuali scopi ed impieghi – decisamente incostituzionali – e per questo è stato trasversalmente e rapidamente sostituito a partire dai primi anni ’90. Una sua revisione e riorganizzazione non è stata nemmeno presa in considerazione.
Il soldato di leva, e qui si misura la differenza fondamentale, non poteva essere mandato in missione all’estero se non volontariamente o in caso di dichiarazione ufficiale di guerra mentre il soldato di professione o quello mercenario di una qualsiasi agenzia privata, per definizione e status giuridico si rendono immediatamente disponibili.
Ecco perché tutte le guerre a cui anche i governi italiani hanno voluto partecipare, da venti anni, vengono scatenate da dichiarazioni di pace e fratellanza.
Di più: un esercito di leva è in minor misura ideologicamente controllabile, perché in esso confluiscono indistintamente tutte le posizioni politiche mentre un esercito professionale può permettersi di selezionare e plasmare la truppa grazie alla stessa volontarietà del servizio, alla durata della ferma e grazie al reclutamento tra le classi più ricattabili della società. Ben due ministri della Difesa (Martino e Mauro) sono arrivati a suggerire la possibilità di arruolamento per gli extracomunitari con la carota della cittadinanza.
Questo ultimo aspetto (intendo quello della “ricattabilità”) dovrebbe davvero fare riflettere: il soldato di leva veniva prelevato dalla quotidianità della sua vita civile e inserito per dieci mesi nell’organizzazione militare dello stato oppure, per sua scelta, poteva praticare l’obiezione di coscienza e svolgere un servizio civile alternativo. Ma il suo lavoro, la sua occupazione, la sua vita era esterna all’organizzazione militare nel suo complesso. La “naja” era, in definitiva, una parentesi.
Il soldato professionale riceve dal Ministero della Difesa il proprio normale stipendio (normale e sicuro rispetto ai tempi che corrono), cospicue indennità per le missioni all’estero, nonché agevolazioni alla fine della ferma (come corsie preferenziali per entrare nel settore pubblico). Per il soldato volontario le forze armate rappresentano spesso l’unica possibilità d’impiego e per ciò stesso una buona possibilità d’impiego nella speranza legittima che la ferma “precaria” (volontario in ferma prefissata di quattro anni – VFP4) si trasformi in “posto fisso” (volontario in servizio permanente – VSP).
Da un punto di vista democratico e costituzionale questa dinamica concreta è sommamente pericolosa perché si è deciso di trasformare la truppa in un corpo sociale sostanzialmente separato all’interno dell’organizzazione militare dello stato.
Ciò è tanto più vero se si pensa ai tempi di cavalcante autoritarismo ed autoreferenzialità istituzionale che stiamo vivendo.
Il moderno esercito professionale (dal punto di vista democratico in realtà molto più “antico” di quello di leva) ha vinto a tavolino anche perché si è dimostrata la soluzione più collaudata e sicura che gli anglo-americani hanno sviluppato nel corso del secolo scorso. E’ la formula, elevata già da tempo a standard Nato, che garantisce ai governi un’ottima gestibilità del personale militare, anche e soprattutto in caso di morte sul campo dei soldati. La retorica e pomposità dei funerali di Stato accompagna ogni volta la salma del ragazzo di turno con un grande, ipocrita non detto: era un volontario, era il suo mestiere e la responsabilità dei mandanti può così sfumare.
Alla luce di tutto ciò l’attuale forma di esercito andrebbe quindi abbandonata.
Ed ecco imporsi allora la terza domanda, decisiva: come?
Credo sia indispensabile recuperare un approccio organico e propositivo alla questione che sappia andare oltre la contestazione (storicamente ridotta ai minimi termini) e che permetta di operare l’invocata riduzione del danno per incidere concretamente sulle nostre pesantissime responsabilità di guerra.
Il tema di una riforma strutturale dello strumento militare dovrebbe essere posta come punto costituente al pari della revisione dei trattati di Maastricht e Lisbona, della struttura e natura della Bce, ecc.; ossia di tutte le questioni che hanno a che fare con il recupero ed il rilancio della sovranità democratica e popolare.
Risulta sempre più chiaro che le vere minacce alla sicurezza ed incolumità dei cittadini non sono il così detto terrorismo internazionale (contro cui l’impiego delle forze armate è del tutto inutile e contro cui vengono normalmente già impiegate magistratura, forze di polizia e intelligence) ma sono rappresentate dal dissesto idro-geologico, dalle alluvioni, dai terremoti e dagli incendi.
In realtà, anche di fronte a tali minacce, le Forze armate oggi sono fondamentalmente inefficaci perché l’organizzazione, l’addestramento, le macchine, la stessa forma professionale sono finalizzate, come già detto, al mantenimento di un grosso corpo di spedizione operante in varie parti del mondo.
Di fronte a tali reali minacce sarebbe opportuno che la logistica e l’organizzazione venissero rivolte e convertite, in prevalenza, ad un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, che metta le Forze armate nelle condizioni di gestire sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza ambientale sia soprattutto le sempre più ricorrenti e spesso contemporanee fasi d’emergenza.
Sarebbe più che ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva, aperto a donne e uomini.
Ciò di cui si parla non è certo l’esercito-carrozzone di marescialli, spesso imbevuto di “nonnismo” che chi ha fatto la “naja” (compreso il sottoscritto) può ricordare bensì una nuova organizzazione che preveda l’integrazione di una nutrita quota degli obiettori di coscienza in una forza di protezione civile dove non si assista più alla irrazionale moltiplicazione delle responsabilità, delle competenze, dei comandi, dei dirigenti, delle centrali operative, degli eli-aereoporti a fronte di una sempre più drammatica carenza di mezzi adeguati: potremmo avere a disposizione uno strumento popolare, meno costoso e più efficace di salvaguardia e difesa del territorio.
Da ex-amministratore locale di un piccolo comune montano soggetto al divampare di piccoli/grandi incendi boschivi (non dolosi), potrei fare diversi esempi in questo senso. Ma come non pensare anche al ricordo positivo che ebbero i terremotati friulani della massiccia, fattiva e prolungata attività di soccorso, rimozione delle macerie e messa in sicurezza operata dall’esercito di allora e confrontarla con il ricordo certo meno caro dei terremotati abruzzesi, dove il moderno esercito professionale venne sostanzialmente impiegato per sorvegliare la loro cattività nelle tendopoli?
Ciò di cui parlo è quindi un esercito che, senza perdere le sue capacità militari di difesa, sia nei fatti “dual use”; dove lo sviluppo dei sistemi d’arma sia esclusivamente rivolto alle contromisure difensive piuttosto che alle macchine da supremazia aero-spaziale e navale (F35 e portaerei, per fare solo due costosissimi esempi) e dove le specializzazioni si sviluppino attorno agli aspetti genieristici e medici. Un esercito in grado di essere dispiegato all’estero, in un nuovo contesto di relazioni inernazionali, in missioni di esclusiva e sostanziale interposizione e di competente supporto logistico-medico-umanitario anche nelle crisi ambientali.
Riportare la forma ed il senso delle nostre forze armate nell’alveo costituzionale, al di là dell’aspetto etico, dovrebbe quindi permettere un enorme risparmio di risorse e di logistica ed un più utile e razionale impiego di mezzi e uomini per affrontare le “minacce” di cui sopra.
Questa revisione radicale dello strumento militare consentirebbe di intervenire organicamente su molti aspetti:

1) renderebbe le ff.aa. strutturalmente inservibili alla Nato e ad operazioni di guerra e occupazione,
2) “accontenterebbe” il terzo settore con la reintroduzione dell’obiezione di coscienza (istituto di civiltà universale e linfa vitale del no profit),
3) permetterebbe una conversione della logistica e della organizzazione militare verso una immediata ed efficace compatibilità con la Protezione civile,
4) permetterebbe di aprire un ragionamento meno vago sul futuro di Finmeccanica,
5) consentirebbe un consistente risparmio di risorse nel quadro di nuove sinergie d’impiego,
6) ci obbligherebbe a ridefinire una nuova politica estera e commerciale basata sulla cooperazione strategica piuttosto che sulla difesa in armi degli interessi strategici.

Questo approccio richiederebbe naturalmente l’apertura di un dibattito serio, conseguente, multidisciplinare e di largo respiro sul tema della sovranità nazionale e della neutralità, sull’interdizione dal nostro territorio di basi e strutture militari straniere, su una reale politica di pace e cooperazione, sulla conversione energetica. Potrebbe essere l’occasione per rilanciare su questi temi, ad un livello euro-mediterraneo, una alternativa all’attuale idea europea di esercito (ancora schierato in ambito Nato, ancora “professionale”, ancora volto all’offesa e all’aggressione).
Risulta piuttosto evidente come un passaggio del genere sia al momento impraticabile in Parlamento proprio perché, come già sottolineato, questo è ancora occupato dal super partito del Pil, tanto trasversale quanto inamovibile nel suo atlantismo belligerante.
Come eludere questo problema sostanziale? Credo che esista la concreta possibilità di iniziare una manovra di aggiramento costruendo un’azione referendaria intorno all’ipotesi più sopra esposta: la crisi economica, l’incessante susseguirsi di emergenze ambientali, i costi del nostro avventurismo militare hanno già modificato la fiducia popolare nel tricolore armato spedito a destra e a manca per il mondo al seguito degli statunitensi. Certo si parla solo di percezioni e sensazioni diffuse (che pure il Ministero della difesa ha captato) ma se queste venissero sostanziate e catalizzate in un’alternativa promossa da una campagna referendaria potrebbero rivelarsi inaspettatamente maggioritarie. Se si agisse cioè sulla sfiducia strumentale in questo esercito prospettando una alternativa credibilmente più utile, razionale e meno costosa si potrebbe incrociare anche il favore di quegli enti locali e dei loro sindaci che in tutti questi anni si sono trovati ad affrontare i disastri dell’ambiente e del territorio con mezzi inadeguati. L’effetto potrebbe essere dirompente o comunque certamente in grado di increspare non poco la linearità del folle piano egemonico che continua a sovrastarci indisturbato.

Gregorio Piccin

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